“Chi sono veramente io?”: è questa la domanda che aleggia nella mente di Tina (Eva Melander), goffa, e dal volto sgraziato, poliziotta della dogana nel porto svedese di Kapellskar. Ha sempre pensato che “diverso” fosse sinonimo di “peggiore”, ma quando incontra il magneticamente raccapricciante Vore (Eero Milonoff) – essere non meno grottesco di lei e anche lui dotato dell’inusuale dote di poter percepire attraverso l’olfatto le emozioni di chi li avvicina, in particolare paura e senso di colpa – Tina comincia a scoprire a poco a poco la sua vera, complessa identità, fino ad allora inconsapevolmente celata. Prende atto di essere una troll, proprio come Vore (secondo la mitologia nordica, sono umanoidi che vivono nelle foreste dell’Europa settentrionale: creature ruvide, irsute e rozze, dotate di un grosso naso e di una coda dal folto pelo. I troll sono di due tipi: uno di dimensioni gigantesche e dal comportamento maligno e uno di dimensioni umane dal comportamento benevolo. Si racconta che i troll rubino bambini alle famiglie mentre dormono e mettano nel letto un folletto, più intelligente del bimbo rubato, oppure un cucciolo di troll”).
Da quel momento Tina e Vore si attraggono, ma niente è come appare: lui non è un uomo, sebbene lo sembri, e lei non è “solo“ una donna sebbene lo sia. Sebbene il loro incontro sessuale sprigioni erotismo e tenerezza, assieme però a bestialità, Tina scopre di non appartenere a questo mondo e che Vore è irrimediabilmente diverso da lei: scopo fisso di lui è quello di vendicarsi degli umani; lei invece si chiede se sia “umano” non voler fare male a nessuno, essere solo un essere che si prende cura del padre affetto da demenza senile e poliziotta devota al suo lavoro. E qui per Tina si presenta il difficile dilemma: la sua intera vita è stata una bugia, continuare allora a vivere sapendolo o fare proprie le tragiche rivelazioni di Vore?
Un film magico, coraggioso e originale, un’emozionante miscela di sorprese, di generi, di romanticismo e noir nordico: questo è “Border-Creature di confine“, opera seconda di Ali Abbasi (il vampiresco “Shelley“, nel 2016), regista danese di origini iraniane, e film rivelazione dell’ultimo Festival di Cannes, dove si è accaparrato il Premio come “Miglior Film” della sezione Un certain regard.
È liberamente ispirato dalla novella ‘Grans’ di John Ajvide Lindqvist (ritenuto “lo Stephen King scandinavo” e autore del noto libro Lasciami entrare, tradotto in 12 lingue ed ispiratore dell’omonimo e pluripremiato film horror di Tomas Alfredson).
Il film è un riuscito cocktail dell’umano dilemma tra giustizia e vendetta, rassegnazione e ribellione, arricchito dalle varie sfaccettature delle diversità (estetiche, di razza, di genere e sociali) per spingerci ad “andare oltre” i confini delle emozioni standardizzate, per poterci sentire animali liberi e non in cattività, per saper vivere il bene non come “obbligo morale” ma come base per la nostra felicità. Noi abbiamo intervistato il regista, Ali Abbasi.
Come le è venuta l’idea di fare ‘Border-Creature di confine? Cos’è che l’ha principalmente colpita della novella di John Ajvide Lindqvist?
“La vera ragione è che la mia opera prima, ‘Shelley’ era stata vista in Danimarca da 448 persone e avevo voglia di fare qualcosa più convenzionale, di massa. Ho comunque sempre pensato che la visione del mondo di Lindqvist fosse molto simile alla mia. Le sue storie si sviluppano tutte su una tensione propria di personaggi che devono affrontare problemi di vita quotidiana, che sono ai margini della società, che si sentono soli e sui quali poi John innesta una dimensione del soprannaturale, della fiaba, dell’extraordinarietà: questa tensione tra vita mondana e soprannaturale, tra realtà e fantasia, percorre tutta la sua narrativa ed è quella in cui io mi sono riconosciuto. È come se lui facesse una versione nordico-scandinava del realismo magico ed io ne faccio una iraniana e quindi, appunto, ci siamo trovati. Questo racconto da cui è tratto il film è quello che mostra forse più di altri suoi lavori questa ‘terza realtà’, cioé la dimensione tra realtà e fantasia: è quella meno elaborata ma si basa su una protagonista che si misura con le proprie sensazioni e i propri sentimenti. Quindi la terza dimensione, che sta tra la realtà oggettiva e quella fantastica viene fuori più facilmente”
Che tipo di regista è?
“Provengo dalla letteratura, ho imparato a scrivere storie prima di interessarmi di cinema. Da giovane pensavo addirittura che guardare un film fosse una perdita di tempo. Poi ho capito che il cinema è il mezzo perfetto per osservare la società attraverso un universo parallelo perché mi interessa tutto quello che va oltre l’apparenza, l’esteriorità. Non sono un regista “tecnico”, non ho un metodo per la scelta degli attori. Ho impiegato due anni per trovare i protagonisti. La scelta degli attori corrisponde in realtà all’80% del mio lavoro. In questi due anni non ho solo cercato quelli più idonei ai due ruoli: quando trovo qualcuno che mi interessa elaboro i miei personaggi per renderli il più possibile in sintonia con quello che saranno poi, per fare in modo che ci sia un coincidenza tra l’attore e il personaggio stesso. Sul set non amo fare molte prove, preferisco cercare di lavorare in modo rapido e intuitivo, senza sprecare tempo, per esempio per delle luci particolari, e lasciando agli attori la libertà di esplorare loro stessi, di ‘trovare il personaggio’ nelle situazioni in cui li calo. Preferisco avere tre ciack brutti e un ciak eccellente che non quattro riprese buone ma non troppo, sufficienti per così dire. Gli attori sentono quindi la possibilità di fare casino, di esplorare mentre riprendiamo. Importante è che si lavori insieme verso lo stesso intento”.
Quale è stato per lei il fascino dei troll e quanto c’è di vero all’inizio del film?
“Non sapevo quasi niente e mi sono informato sui troll sulle pagine di Wikipedia, poi l’ufficio della produzione mi ha fornito un sacco di materiali e devo dire che l’aspetto della mitologi di troll poteva essere affrontato in due modi, a mio modo di vedere: o diventavo il massimo esperto mondiale della mitologia dei troll oppure li utilizzavo come metafora per parlare di qualcosa che avrei deciso io, pur preservando alcuni elementi assolutamente integrali alla mitologia, anche perché nel testo di partenza, cioè il racconto breve di John Ajvide Lindqvist da cui è tratto il film, esiste già una versione alterata di questi esseri. Per me il fascino dei troll è che nelle varie tradizioni dei paesi nordici assumono delle caratteristiche diverse ma hanno dei tratti comuni: non sexy, sensuali come i vampiri, non sono aggressivi come gli zombi, ma sono assolutamente ambivalenti come esseri e questa ambivalenza fa parte dell’elemento mitologico. In alcuni Paesi sono considerati come esseri estremamente cattivi che uccidono, divorano i bambini, e sono quindi da temere; in altri Paesi, come sciocchi, stolti e pasticcioni; in altri come divertenti. Nel film è Tina che incarna la mia visione dei troll: non riusciamo veramente a capire quello di cui lei è capace finché non la vediamo manifestare nei fatti tutto questo. Lei riassume questa conflittualità, questo essere un po’ maldestra in qualche modo. Mi piacevano i troll proprio perché non sono come gli elfi, con quelle immagini di modelli di Chanel estremamente affascinanti”
Che ruolo ha voluto dare agli animali che appaiono nel film e che sembrano degli aiutanti silenziosi?
“La volpe che vediamo nel film è di fatto la nipote della volpe che era presente nel film di Lars von Triers ‘Antichrist’ c’è un legame reale tra i due animali. Nel suo film gli animali erano simboli di umori, di opere, di eventi, qui invece configurano nell’insieme l’universo della mitologia nordica, sono degli avatar di questo mondo e da parte mia non c’è stato l’intento di mettere in scena la volpe come se fosse l’incarnazione di Thor ma lasciare che questi animali fossero nella zona tra l’aspetto sovrannaturale e quello della realtà on loro, il mio intento era quello di suscitare nel pubblico la domanda ‘Sono dei simboli della tradizione mitologica nordica o degli animali e basta?’. Dopo tante interviste mi sono reso conto che il modo di ragionare di voi italiani è quello di chiedervi ‘Cosa simboleggia quell’essere, quell’animale, qual’é la verità, qual è il significato più profondo delle cose?’: negli Stati Uniti non mi hanno assolutamente fatto domande di questo tipo. Il modo di ragionare degli italiani mi fa sentire in Iran, dove c’è anche lì la tendenza ad avere una lettura metaforica del mondo”
Per fare un film così strano e originale ci vuole anche un regista originale: mi può dire qualcosa di più della sua storia, della sua formazione, dei suoi valori e con chi si identifica di più con i personaggi o gli animali di ‘Border’?
“Penso che magari la deluderò nel dirle che vengo da un famiglia dell’alta borghesia iraniana e non ho subito particolari traumi nella mia vita finché ho vissuto là. Devo dire che se c’è in me una sorta di identificazione con uno dei temi, uno dei personaggi del film non è certo a livello metaforico ma è proprio a livello di ambivalenza che loro rappresentano per la molteplicità di identità propria di ciascuno di loro. Quando sono arrivato in Europa, cioè nel 2000, mi sono chiesto ‘Adesso come farò, chi diventerò, cosa sarò tra vent’anni, avrò un figlio?’ pensieri propri, penso, di chiunque abi lascito la propria patria, per ritrovare le proprie radici. La riflessione che io ho fatto è che in realtà non c’è bisogno di avere un sola identità, non è realistico immaginare che ciascuno di noi abbia una sola identità: tutti noi sperimentiamo tutti i giorni la molteplicità di personalità, o aspetti di noi, che si manifestano a seconda delle situazioni in cui ci troviamo. Io stesso, a seconda della lingua in cui mi esprimo, assumo un’identità differente: quindi non mi sento emarginato in Scandinavia come non mi sento tale in Iran: questo è dovuto al fatto che la mia estrazione sociale conta molto di più della mia identità di appartenenza a un città, a un gruppo etnico. Le racconto un aneddoto per farle meglio comprendere il mio pensiero. Prima che ‘Border’ fosse presentato a Cannes sono stato invitato con un mio cugino a cena all’Eliseo dal presidente francese. Sono salito sull’aereo senza preoccuparmi di come mi sarei vestito. In aeroporto sono andato in bagno e mentre facevo la pipì ho guardato sul muro l’elenco delle persone che fanno le pulizie del bagno e c’erano tanti Alì, Alì, Ashmed, Alì, cioè diverse persone che avevano il mio nome. Ho pensato in un primo momento ‘Io mi chiamo Alì e sto andando a cena dal presidente’, poi ho riflettuto che non è una questione di fortuna da parte mia l’essere arrivato a fare quello che faccio oggi, la vita che conduco, quegli Alì appartenevano probabilmente alla classe operaia di famiglie probabilmente algerine: cioè c’è un’identità nel nome ma l’identità finisce lì, i nostri due universi non avrebbero mai avuto una possibilità di contatto anche se fossi rimasto in Iran”.
Oltre alla bellezza del film, mi ha colpito anche la sua capacità di impossessarsi del tema in maniera anche molto spregiudicata, ricordandoci che la mostruosità è democraticamente diffusa in tutto il mondo. La sicurezza, la tranquillità che c’è nel film, traspare anche da questo incontro
“Grazie. Devo dire che questa fiducia in me stesso non è qualcosa che mi viene naturale. Mi piace avere un’opinione alta di me stesso ma non è l’espressione di un carattere egocentrico perché nel corso delle mie giornate oscillo costantemente tra megalomania e complesso di inferiorità. Al centro della mia decisione di fare cinema, e che mi porta anche a confrontarmi con voi giornalisti, è quella di trasmettere agli altri la mia visione del mondo e c’è sempre il forte desiderio di includere il maggior numero di aspetti positivi rispetto a quelle che sono le mie intuizioni, o osservazioni, del mondo. La realtà è una ma quella realtà, secondo naturalmente la mia concezione olistica del mondo (il sistema in generale determina il comportamento delle parti e il tutto non è riconducibile alla somma delle parti, ndr), è fatta di momenti brutali, di elementi poetici, di felicità, di banalità, di romanticismo, di bruttezza, di bellezza, e il tutto è parte della nostra esistenza. Ecco perché se uno mi dicesse vediamo la realtà il più possibile in modo poetico – il cinema iraniano per esempio – non sarebbe il mio modo di sentire la realtà. Io invece cerco di presentarla nella sua complessità: so che in questo modo non trasmetto un messaggio lineare ma cerco di far vedere le cose che, secondo me, non ci servono. Voglio anche aggiungere che tutte le forme dell’arte, tra cui anche il cinema, hanno il dovere e la libertà di non perseguire un linearità di pensiero che è quello della politica, della mono-identità: non è necessario etichettare le persone, per esempio come gay o neri, perché questi abbiano titolo di parlare solo di argomenti che riguardano il loro tratto identitario: si può essere un comunista, omosessuale, e fare il più bel film della storia sulla figura di Cristo, come ha fatto Pier Paolo Pasolini. Per me è molto più importante la mia collocazione come regista, come cineasta, di quanto non sia la mia esperienza di vita: insomma, sto ‘venendo a patti’ con il fatto di appartenere all’alta borghesia”