A Venezia si è parlato anche della realtà israeliana, delle tante sfaccettature, culturali e religiose, che impregnano la realtà mediorientale. Il tutto grazie a due brevi ma significativi film del regista, attore e sceneggiatore israeliano Amos Gitai, originario di Haifa: “A Letter To a Friend in Gaza” e “A Tramway in Jerusalem”, presentati fuori concorso.
In “A Letter To a Friend in Gaza”, Gitai, utilizzando poesie di noti esponenti arabi ed israeliani della cultura, lancia una forte, diretta accusa alla politica del governo israeliano di Netanyahu. Pone domande etiche ma anche pratiche: si chiede per esempio, attraverso queste poesie, cosa c’entri con la lotta al terrorismo la distruzione delle cisterne d’acqua in alcune aree di Gaza. In 34 minuti di poesie, il regista accosta la politica dell’attuale governo a metodi che gli ebrei hanno tristemente già provato sulla propria pelle, rendendo così sempre più irrealizzabile la pacificazione.

In “A Tramway in Jerusalem” (94′) assistiamo a frammenti di vita, di conflitti, di riconciliazioni che propongono uno spaccato della società israeliana per la breve durata di un viaggio in tram, con persone e pensieri talvolta simili ma spesso differenti: esempio, un agente di sicurezza non vede di buon occhio che due ragazze (una ebrea, una palestinese) fraternizzino; un sacerdote cattolico (Pippo Delbono) parla ad alta voce di Gesù nell’indifferenza generale. Incontri e situazioni che Gitai, racconta sperando, in definitiva, in una possibile convivenza anche tra posizioni diverse.
“Arrivederci Saigon” di Wilma Labate – Fuori concorso
Il documentario ha da sempre il compito non solo di far riemergere la storia, ma anche di scavare in essa alla ricerca di quanto sia stato dimenticato. E così ecco che “Arrivederci Saigon”, firmato da Wilma Labate e presentato a Venezia, porta alla luce, dopo 50 anni di silenzio, l’incredibile storia di Le Stars, la giovanissima band femminile italiana che dalla provincia toscana venne inaspettatamente spedita a suonare nelle basi militari americane in Vietnam durante “la sporca guerra”.

Giovanissime (una delle cinque ancora minorenne), con tanta voglia di successo e di lasciare la provincia industriale dove vivevano (l’allora “provincia rossa” delle case del popolo, con le acciaierie di Piombino, il porto di Livorno e le fabbriche Piaggio di Pontedera), si fanno sedurre dall’offerta di un contratto subdolamente proposto dal loro manager Roberto Saggini: parla di una tournée in Estremo Oriente, Manila, Hong Kong, Singapore, ma in modo vago; a digiuno di politica, di quanto sta succedendo nel mondo, armate dei loro strumenti musicali e dalla tanta voglia di cantare, partono sognando il successo e si ritrovano in guerra, quella vera, in Vietnam.
Al ritorno le aspetterà l’ostilità del PCI, l’accusa di essere pro America e sostenitrici della guerra del Vietnam: da qui il silenzio autoimposto su quell’indimenticabile esperienza, riportata ora alla luce dal documentario di Wilma Labate. Dopo 50 anni Le Stars hanno potuto finalmente raccontare la loro storia, la loro inaspettata avventura tra soldati americani, basi sperdute nella giungla e la musica soul dei soldati afroamericani.
Un ’68 raccontato con leggerezza e molta sincerità dalle protagoniste di quell’incredibile tournée.
“La profezia dell’armadillo” di Emanuele Scaringi – Orizzonti
Non è mai un’operazione facile l’adattamento al cinema di un romanzo, specie se a fumetti: il rischio cresce quanto più numerosi sono i suoi fan lettori. Per molti giovani italiani i racconti autobiografici di Zerocalcare e del suo “La profezia dell’armadillo” sono da tempo un riferimento “imprescendibile”.

Naturale, quindi, che ci fosse molta attesa per questo adattamento, prodotto da Fandango, diretto dall’esordiente Emanuele Scaringi e presente a Venezia nella sezione Orizzonti. Zero (Simone Liberati) ha ventisette anni e il talento per il disegno, vive nel quartiere di Rebibbia, a Roma. La sua vita sociale si restringe al suo amico Secco (Pietro Castellitto), facilmente eccitabile e scriteriato, ma il suo amore di sempre è Camille, trasferitasi a Tolosa e tragicamente vinta prematuramente dall’anoressia. Di fronte a questo lutto, l’animo di Zero passa da momenti nostalgici a “riflessioni rassicuranti”: in conflitto perenne con se stesso, trova un aiuto nella sua voce interiore che ha il corpo di un armadillo (Valerio Aprea), che usa la cultura pop per proteggersi dal mondo.
Un gradevole “processo di crescita”, pur senza una “tangibilità” drammaturgica, animato da atmosfere caotiche e scanzonate di una Roma periferica e con riferimenti culturali forse difficili da comprendere per chi di Roma non è. Un piacevole “venticello de Roma”. “La profezia dell’armadillo” uscirà in sala il 13 settembre.
“El Pepe” di Emir Kusturica – fuori concorso

La leggenda di Pepe Mujica, il guerrigliero tupamaro diventato presidente dell’Uruguay dal 2010 al 2015 dopo 13 anni di dura prigionia in isolamento totale, ha infiammato il Lido di Venezia. Grazie al documentario “El Pepe-Una vita suprema” del regista bosniaco Emir Kusturica, fuori Concorso, la Mostra del Cinema ha di fatto reso omaggio a José Alberto Mujica Cordano, che una volta eletto presidente continuava a prendersi cura dei suoi campi col trattore, e dei suoi fiori, non ha mai rinunciato al Maggiolino celeste e a vivere nella sua fattoria e donava il 90% del suo stipendio da presidente a chi ne aveva più bisogno di lui. Il folklore che circonda Mujica ha rischiato e rischia tutt’ora di farne passare in secondo piano il pensiero e la rilevanza politica, in anni in cui la sinistra mondiale è in cerca di una nuova identità, e quindi il documentario è indirettamente un invito a quest’ultima ad approfondire, a scavare dietro alla superficie del personaggio e del suo agire per trovare una propria strada vicina davvero a chi dice di voler rappresentare e difendere.
Kusturica alterna dialoghi vibranti di El Pepe (come era soprannominato Mujica dai compagni Tupamaros), di sua moglie, e compagna di lotta, Lucia Topolanski (ora vice-presidente al fianco di Tabare Vazquez Rosas) e dei suoi più importanti compagni di prigionia e militanza, a momenti chiave di quei difficili ma esaltanti anni attraverso il ricorso a filmati d’epoca.
Un incontro riuscito quello tra Kusturica e Alberto Mujica: l’uno sempre pronto ad infondere nei suoi lavori energia e libertà; l’altro che ha sempre vissuto senza compromessi la sua idea di società e giustizia, in modo coerente anche durante la sua presidenza.
Una figura storica sì, ma forse El Pepe non se l’aspettava neanche lui di trovarsi a 83 anni al Lido protagonista di due film, il documentario di Kusturica e La noche de 12 años, di Álvaro Brechner nella sezione Orizzonti.
Una presenza davvero speciale e gradita: al termine della presentazione del documentario Alberto Mujica è stato salutato da una così prolungata standing ovation da colpire persino il navigato Kusturica, commosso fino alle lacrime per questo tributo al leggendario capo Tupamaros.
“At Eternity’s Gate” di Julian Schnabel – in concorso

Sono passati 22 anni da Basquiat, film sulla vita del pittore omonimo morto a soli 37 anni e primo artista di colore ad ottenere un riconoscimento internazionale, ma ora Julian Schnabel, valente pittore nonché premiato regista newyorkese di Prima che sia notte e Lo scafandro e la farfalla, riporta sullo schermo la grande arte con “At Eternity’s Gate” in concorso a Venezia.
Lo fa con un suo personale ed appassionato punto di vista sulla vita e la visione artistica di Vincent Van Gogh (il caso vuole anche lui morto a 37 anni): genio che prima della sua morte riuscì a vendere un solo quadro. Una biografia volutamente realizzata non con precisione scientifica (al regista non interessa sapere se Van Gogh si sia suicidato o no – sembra non crederci perché la pistola non fu mai trovata -; se i quadri rinvenuti alcuni anni fa siano autentici): quello che lo ha spinto – suggerisce il film – è stato soprattutto il voler evidenziare il significato dell’essere artista, la spinta interiore a superare schematismi e limiti “codificati”. Insomma, l’omaggio di un artista ad un altro artista, ma anche per dire la sua sull’arte: come quando, durante una comune pisciata, l’irrequieto pittore olandese e l’amico Paul Gauguin parlano male degli Impressionisti!
Un film che non offre l’abusata immagine di un artista ontologicamente cupo e depresso, ma offre invece una intensa galassia di luce e colore, un lavoro ben filmato, tanto che di Van Gogh sembrano essere molte scene all’aria aperta: colori intensi, profondi come le sue pennellate. La macchina da presa è l’alter ego del pittore.
È un film sulla pittura, su un artista e la sua relazione con l’infinito, naturale e religioso. Il credere ad una vita oltre la morte è dopotutto centrale nel quadro che dà il nome al film – At Eternity’s Gate – che l’artista olandese dipinse nel 1982 a Le Hague: ritrae un anziano seduto vicino al fuoco con la testa tra le mani. Pochi mesi prima di morire, mentre era ricoverato nell’ospedale di St. Remy, Van Gogh ridipinse il vecchio – in un quadro ora ad olio – ma questa volta l’espressione che trasuda dal dipinto non è di frustrazione ma dolore, dimostrando così – a mio modesto giudizio – che anche nei momenti tristi e dolorosi si aggrappava alla sua fede in Dio e nell’eternità, anche della pittura, purché sincera nella rappresentazione della realtà e della natura circostante. “Dio è natura – afferma Van Gogh nel film – e natura è bellezza, eterna”.
È un sorprendente Willem Dafoe ad interpretare Van Gogh negli ultimi tre anni della sua vita, trascorsi in Francia ad Arles e Auvers-sur-Oise e segnati anche dal burrascoso, ma umanamente positivo, rapporto con Gauguin (Oscar Isaac). Rupert Friend interpreta invece Il fratello Theo, anche lui morto, a 32 anni, nel 1890. Sceneggiatura di Jean-Claude Carriere e Louise Kugelberg.