La retrospettiva, organizzata dal curatore del Film Department del MoMA Joshua Siegel insieme a Camilla Cormanni e Paola Ruggiero dell’Istituto Luce Cinecittà, presenta quaranta opere, copie restaurate in pellicola e digitale, e si è aperta al MoMA il 7 dicembre 2017 con la proiezione di “Deserto rosso” (o Il deserto rosso, 1964) nella copia in 4K restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia – Cineteca Nazionale in collaborazione con l’Istituto Luce Cinecittà e RTI- Mediaset, alla presenza di Enrica Fico Antonioni e del presidente di Istituto Luce Cinecittà Roberto Cicutto. Ad aprire la rassegna non è il primo film di Antonioni ma il suo primo film a colori, e non a caso proprio a New York che in qualche modo aveva determinato per Antonioni la scelta del colore, dopo quel suo incontro con Mark Rothko e con il suo uso assoluto del colore. “Michelangelo era rimasto molto colpito dalla mostra di Rothko vista a Roma nel 1962 – ha raccontato Enrica Antonioni nella sua breve introduzione al film – tanto che l’anno seguente, quand’era venuto a New York a presentare L’eclisse, aveva voluto incontrarlo. E fu Rothko stesso a spronarlo… Michelangelo aveva paura di usare il colore, dopo tanta esperienza e maestria nel bianco e nero, e invece il colore divenne importantissimo in Deserto rosso, tanto che in un primo momento il film si sarebbe dovuto chiamare The Color of Sentiments”.
Per Antonioni la scelta del colore fu così totale e assoluta da determinare per lui decisioni e innovazioni fondamentali per le scenografie, i costumi e gli arredi di Deserto rosso, tanto da portarlo a dipingere il set e dipingere la pellicola e fare del colore un protagonista assoluto del suo film, caricandolo di significato e rendendo il film uno dei capolavori della storia del cinema italiano. Ma non è solo sperimentazione cromatica quella di Antonioni in “Deserto rosso”, e non è solo la consacrazione della sua collaborazione con Monica Vitti così come non è solo la conferma di quella poetica dei silenzi e dell’assenza che lo aveva visto innovare il cinema italiano e non solo, il film è anche una riflessione profonda sulla società italiana, su come il lavoro in Italia in quegli anni stava cambiando irreversibilmente e come con esso cambiava la nostra società, cambiavano le relazioni, le abitudini.
Cambiava il mondo, e Antonioni fu tra i primi ad accorgersene e a raccontarlo cinematograficamente, come ha ricordato anche Antonio Monda alla presentazione del libro di Carlo Di Carlo, che sì è tenuta il 6 dicembre all’Istituto Italiano di Cultura di New York diretto da Giorgio Van Straten. “In Italia sono stati Antonioni con Deserto rosso ed Ermanno Olmi con i fidanzati a raccontare il mondo del lavoro che stava cambiando nei primi anni Sessanta, ognuno naturalmente con il proprio stile, a descrivere come l’industria stava cambiando per sempre i personaggi, la loro vita, la nostra società”.
Ed è proprio ‘cambiamento’ una delle parole chiave che Monda riprende dal libro My Antonioni che meglio vanno a definire non solo “Deserto rosso” ma anche altri film di Antonioni, primo fra tutti “Blow-Up”: ovviamente colore, e poi donne (sempre), Visconti (chi altri?), Matisse (ancora il colore), domande (quelle che Antonioni pone ma a cui non dà risposte), assenza (di dialoghi prima di tutto), paesaggi e città (che riflettono l’anima dei personaggi).
Il libro di Carlo Di Carlo si potrebbe definire un libro di montaggio, un montaggio informato e affezionato delle parole di Michelangelo Antonioni, le sue parole raccolte in anni di amicizia, lavoro, collaborazione e ricerca poi montate in questo libro quasi a formare un racconto, il racconto della sua vita e del suo cinema: parole, scritti, annotazioni, interviste, dichiarazioni, saggi, scritti vari su cinema, arte, vita, sull’essenza dell’esistenza per Antonioni, nelle sue diverse forme, in gran parte già resi pubblici nel corso degli anni tra pubblicazioni, citazioni, messe in onda, ma in una piccola parte ancora inediti.
E come hanno ricordato il professor David Forgacs nella sua bella presentazione e anche la scrittrice Lila Azam Zanganehnel parlando di Michelangelo Antonioni in occasione della presentazione del libro di Carlo Di Carlo, è interessante ascoltare e leggere Antonioni non solo quando parla del suo fare cinema e del suo vedere il cinema ma è affascinante vedere lui stesso comparire in documentari e interviste (in parte presentati anche nella retrospettiva al MoMA) e guardarsi e riflettersi negli altri, e così facendo scoprire in se stesso, nel suo volto, un po’ – o forse tanto – del significato del suo stesso cinema.
Ingmar Bergman, a cui Antonioni viene spesso accostato, rivelava a Rogert Ebert di essere rimasto molto colpito da un’intervista televisiva rilasciata dal regista ferrarese in occasione dell’uscita di “Professione: reporter” (The Passenger); “all’improvviso avevano staccato dal film a un primo piano di Antonioni stesso… se ne stava seduto lì, con quel suo viso così normale, così bello e così umano, e io non ho sentito una parola di quello che diceva perché stavo guardando così da vicino il suo viso, i suoi occhi. Quei dieci minuti in cui è apparso sullo schermo sono stati più affascinanti di qualunque dei suoi lavori, e dei miei. Il suo viso raccontava il romanzo di tutta la sua vita”.
La retrospettiva dedicata a Michelangelo Antonioni, che si concluderà il 7 gennaio 2018, ci dà l’occasione di vedere e rivedere il suo cinema in versione restaurata e soprattutto sul grande schermo, ormai un lusso per tanto cinema del presente e soprattutto del passato.