New York City non è amata soltanto da chi ci si trova di passaggio — turisti, viaggiatori, expat — che, nella stragrande maggioranza dei casi, trovano in lei uno spazio fisico da conoscere e immaginifico da riconoscere. New York City è anche molto amata dai newyorkesi. Quelli, per intenderci, che la vedono struccata al mattino e stanca la sera, che devono fare i conti con le bizze del suo meteo ogni tanto matto, e della sua metro spesso singhiozzante. La amano talmente tanto da partecipare, numerosissimi, a “One Film, One New York”, l’iniziativa lanciata dall’Office of Media and Entertainment del Sindaco de Blasio: cinque film con New York per protagonista, proiettati durante il mese di agosto, i cittadini chiamati a votare il migliore dei cinque, e il film decretato vincitore, proiettato gratuitamente, il 13 settembre, nei cinque borough della città, sia all’aperto sia nelle maggiori sale cinematografiche indipendenti. Selezionata dai critici cinematografici del New York Times A.O. Scott e Manohla Dargis, la cinquina dei film comprendeva Crooklyn di Spike Lee (1994), Un giorno a New York (On the Town), di Gene Kelly e Stanley Donen (1949), New York, New York di Martin Scorsese (1977), Cercasi Susan disperatamente (Desperately Seeking Susan) di Susan Seidelman (1985) e Il banchetto di nozze (The Wedding Banquet), di Ang Lee (1993). Il 6 settembre scorso l’annuncio del film vincitore: Crooklyn, di Spike Lee.

Noi de La Voce di New York non poteva certo mancare alla proiezione del film in sync con tutta la città. Quanto alla location, non avevamo che l’imbarazzo della scelta: il BAM Rose Cinema di Brooklyn, il QUAD Cinema, rinnovato di recente nel Greenwich Village, il Nitehawk di Williamsburg o ancora il Simphony Space nell’Upper West Side. Oppure perché no, uno dei parchi che ospitavano la proiezione all’aperto, in questo settembre dalle giornate piacevolmente miti. Il Fort Greene Park di Brooklyn — il quartiere dove è cresciuto Lee, e dove Crooklyn è ambientato — o il St Nicholas Park di Harlem, il Crotona nel Bronx, il Cloves Lake, se ci andava un giro a Staten Island. La scelta è caduta sulla Film Society del Lincoln Center, presso il Walter Reade Theater. Per un unico motivo. Mr Spike Lee in persona a introdurre il film.

E come promesso, Mr Lee arriva con la sua tenuta d’ordinanza. Giubbino di jeans con una X enorme sulla schiena — e non possiamo non pensare al suo Malcolm, che valse a Denzel Washington l’Orso d’Argento a Berlino — sneakers da basketballer, una quantità di stemmi e marchi ovunque, occhiali cerchiati di arancio e l’immancabile cappellino con visiera. Sembra un ragazzo. Ma l’anagrafe ci ricorda che proprio quest’anno ha compiuto sessant’anni.
Prima di lasciare il palco alla breve intervista fra il critico Scott e il regista, la serata si apre con gli omaggi di Lesli Klainberg, Executive Director della Film Society, e con Julie Menin, Media and Entertainment Commissioner dell’Ufficio del Sindaco, che ha sottolineato come “One Film One New York” sia “un’iniziativa per unire i newyorkesi, giacché il cinema ha il potere di aggregare le persone e stimolare il dialogo civico”.


A.O. Scott confessa che scegliere i cinque film è stata una vera sfida per lui e la sua collega del New York Times. “Sapevamo che saremmo stati il bersaglio di tutti. ‘Perché non avete messo questo?’, ‘Come si può lasciar fuori quest’altro?’… Alla fine ci siamo messi l’animo in pace e abbiamo optato per cinque film che tutti dovrebbero vedere”.
Una volta che il microfono passa a Spike Lee, si percepisce chiaramente che il pubblico è rapito dalla sua presenza. Parla subito di Crooklyn, la cui sceneggiatura fu il frutto di una scrittura collettiva con i fratelli e la sorella. È chiaramente autobiografico, anche se il cognome dei suoi personaggi è Carmichael e non Lee: la storia della sua famiglia quando Spike era un bambino, e viveva con i genitori, i quattro fratelli e la sorella a Fort Greene, Brooklyn.
“Quel quartiere è cambiato radicalmente”, fa notare Lee, “ora la nostra gente, neri e portoricani, è costretta ad andarsene per via della gentrificazione”, e aggiunge, con ironia affatto velata, “Mai vista tanta polizia in vita mia… E ora, guarda caso, le scuole si sono messe a funzionare…”.
Incalzato da Scott, il regista racconta che l’obbiettivo che lui e i suoi fratelli avevano in mente era quello di rendere al meglio come trascorsero l’infanzia. Riproponendo, ad esempio, i giochi di strada che si inventavano per passare il tempo durante l’estate. “Quei giochi — la campana, un-due-tre stella, double Dutch (il salto alla corda con due corde girate in direzioni opposte), nascondino, pallamano stoop ball (far rimbalzare una palla sui gradini di una browstone) si sono persi per sempre…” — no, nemmeno la nostalgia è velata.
Spike sa come catalizzare l’attenzione del pubblico. Racconta qualche aneddoto relativo ai sui zii “down South”, ovvero in Alabama. “Una volta andai giù al sud a trovare i miei zii. Portavo i capelli afro all’epoca. Non feci nemmeno in tempo ad arrivare che fui spedito dal barbiere, un nazista di un nero che mi rapò la testa, lasciandomi, per ricordo, una cresta…”.
La sala è piena, il pubblico ride, si diverte. Ma è ora del film, e Spike Lee, prima di andarsene, ci confessa che è diretto alla location di Fort Greene — a salutare la sua gente. Al Fort Greene Park non sanno che arriverà nientepopodimenoche Mr Lee. Facile immaginare la sorpresa, e l’accoglienza da idolo che riceverà.

Crooklyn è una celebrazione di un’epoca storica, gli anni ’70. La ricostruzione è maniacale e riuscitissima. La musica — soprattutto Motown — è un inno a quel decennio e include pezzi memorabili che danno immediatamente il senso del tempo — lo stesso Crooklyn, gioco di parole fra Brooklyn e crook (ladro, imbroglione), è anche un pezzo dei Crooklyn Dodgers. E poi “Signed, Sealed, Delivered I’m Yours”, “Never Can Say Goodbye”, “I Can See Clearly Now”. A ogni modo tutto (ri)suona 70s. I vestiti, le confezioni dei cereali, i programmi televisivi — come il leggendario “Soul Train” — persino caramelle e prodotti di bellezza. Crooklyn è anche un affresco della famiglia Lee, per quanto filtrato dalla lente della fiction. Con la madre generalessa, ma stroncata da un cancro quando i figli erano ancora piccoli, il padre fissato con la musica “pura”, i fratelli sempre in lotta, e la sorella, Troy, che occupa più spazio degli altri, forse perché è l’unica voce femminile in una casa di maschi. Di tanto in tanto si sente un vago sentore de I Robinson, la serie televisiva culto a fine anni ‘80, e un che di sentimentaleggiante. Ma nel complesso Crooklyn è un film molto godibile, con alcune scene gradevolmente allucinate con cui Lee ci ha abituati in tanti altri suoi film.
I newyorkesi, decretandone la vittoria, hanno risollevato le sorti della pellicola, stemperando la freddezza con cui venne accolta dalla critica quando uscì nel 1994. Per quanto, il vero senso di “One Film, One New York”, non sia quello di raddrizzare torti subiti o dimostrare che i critici, ogni tanto, scrivono tanto per allenare il tunnel carpale, quanto l’atto collettivo dei newyorkesi, che hanno visto in questo film, un film di un nero che racconta una famiglia di neri in un quartiere prevalentemente nero, il film di New York City 2017. Con le minacce suprematiste che riecheggiano forti e amare nelle orecchie e gli episodi di Charlottesville ancora freschi negli occhi, questa scelta, libera e dissenziente, infonde fiducia.
E ci piace terribilmente.