Abbiamo incontrato la scorsa settimana a New York Pier Francesco Diliberto, in arte Pif, dove si trovava con gli altri registi dell’Open Roads del Lincoln Center, per presentare il suo film del 2016 “In guerra per amore”. Ancora un volta, come era stato tre anni fa per “La mafia uccide sempre d’Estate”, Pif si presenta con un film su Cosa Nostra, in questo caso non solo siciliana ma anche americana e ne analizza gli intrecci con la politica, o meglio, con il governo alleato durante la Seconda Guerra Mondiale. Ecco quindi il film tornare all’operazione Husky, lo sbarco in Sicilia del giugno del 1943 impresa che segnò il vero inizio della fine per l’asse nazi-fascista, avvenne infatti un anno prima del D-Day in Normandia! Oltre quarant’anni fa, in un film americano famoso sul generale protagonista di quello storico sbarco, “Patton, Generale d’acciaio”, l’argomento mafia veniva (di proposito?) ignorato.
Pif, con la sua commedia solo apparentemente romantica, cerca di spiegare una volta per tutte al resto del mondo cosa sia la mafia e anche quello che tutti i siciliani sanno da sempre: che gli americani si allearono con i mafiosi per facilitare lo sbarco, contenere le perdite e aiutare anche il controllo sociale durante l’occupazione. Già, il classico “nemico del mio nemico è mio amico”. Poi, dato che l’“intesa” funzionò così bene, questo rapporto alleati-mafia si estese anche all’altra guerra, quella “fredda” per il “contenimento” dei comunisti. E qui la mafia diventa un alleato di ghiaccio, di nuovo quello “strumento di governo locale” come lo era già stata per i piemontesi dal 1860, dopo lo sbarco di Giuseppe Garibaldi. La storia che si ripete…
Un bel film quello di Pif, perché ben fatto e che va dritto al cuore della verità. Certo, in stile commedia, alla Benigni della “Vita è bella”, ma per far comprendere a tutti, finalmente, cosa è veramente la mafia e perché è così difficile combatterla senza restarne vittime.
Alla fine del dibattito con tutti i registi dell’Open Roads, che si è tenuto alla Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, sabato 3 giugno, Pif ha concesso alla Voce di New York questa intervista.

Pif, questo film sulla mafia e l’America viene mostrato per la prima volta a New York. Quali sono le tue aspettative e come pensi che il pubblico americano reagirà?
“Beh, è la domanda che ci siamo fatti tutti quando abbiamo finito la sceneggiatura. Sono molto curioso. L’unico approccio con l’America e gli americani l’avevo avuto quando abbiamo mostrato film alla stampa estera in Italia e un giornalista americano, quando gli ho chiesto come la prenderanno, mi ha risposto: “devi specificare che non ti sei inventato niente”. Perché gli americani ignorano quel fatto storico. Temo che la maggior parte del pubblico dirà “noi abbiamo fatto bene”, nel senso che gli americani nel film fanno in Sicilia quello che di recente hanno fatto in Siria, Afghanistan, Iraq…”
Poi però ad agire così ci sono delle conseguenze, magari nel breve periodo funziona ma poi…
“Sì esatto. Anche se in Siria e in Afghanistan sul momento ci hanno guadagnato ma alla lunga no. Invece in Sicilia ha pagato sempre, anche alla lunga: il ruolo della mafia durante la guerra è simile a quello dei partigiani al nord, perché la mafia decide di sostenere la resistenza contro il nazi-fascismo. La mafia non è ideologica, sta con chi li fa mangiare di più. Poi dopo la guerra assume questo ruolo anticomunista e quindi continua ad andar bene che ci sia, la mafia. Non c’è stata mai reale intenzione di sconfiggerla. Poi magari avveniva un omicidio che poteva sconvolgere e lo Stato era costretto a intervenire per dare un singolo segnale, ma non c’era reale intenzione di sconfiggere la mafia”.
Qual è stata la più grande difficoltà nel fare questo film?
“È stata il solito fattore tempo/denaro, era complessissimo raccontare la vicenda…”

Ma dal punto di vista della preparazione, visto che hai anche scritto con Michele Astori la sceneggiatura, ecco che difficoltà avete avuto? Siccome è un film storico, anche se il tono è da commedia, con una storia d’amore che da Brooklyn arriva fino in Sicilia, i fatti devono essere provati: quindi, sotto l’aspetto della documentazione, quali difficoltà avete affrontato?
“Poche in realtà, perché ci sono molti libri e molte testimonianze e la BBC ha fatto un sacco di documentari intervistando direttamente i soldati italo-americani che arrivavano in Sicilia. La cosa difficile è stato mettere in scena il tutto spiegando tutto per bene. Il film comincia che sembra una lezione elementare di storia: “Siamo nel 1943 e l’Europa è sotto il dominio nazista di Adolf Hitler e suo alleato era Benito Mussolini…”. E uno si chiede “perché devi raccontare in modo così banale le cose?”. L’ho dovuto fare perché purtroppo la gente non sa bene dello sbarco in Italia: molti di quelli con cui ne parlo me lo confondono con lo sbarco di Marsala dei garibaldini ad esempio…”

Cosi Pif mi costringi a farti una domanda che avevo pronta alla fine, ma tu l’hai anticipata: in effetti il film che hai fatto era stato già realizzato da un grande regista del cinema ed è stato uno dei più grandi film…
Esatto. Anche lì si parla di uno sbarco e la conquista militare della Sicilia, di un sindaco mafioso, che si chiama pure Don Calogero, alleato del nuovo potere e che manipola il voto… Praticamente la stessa storia del tuo film ma ambientata 83 anni prima, nel 1860 invece che nel 1943. La storia delle alleanze tra conquistatori della Sicilia e mafiosi: sei cosciente di aver fatto un film, con una storia raccontata in maniera elementare come dici tu, che può far capire davvero che cos’è la mafia e perché sia rimasta al potere così a lungo in Sicilia?
(Pif ride prima di rispondere). “…definisco “In guerra per amore” un prequel del primo film ‘La mafia uccide solo d’estate’, perché in quel contesto raccontavo la mafia degli anni ’70, ’80 e ’90, la mafia di Totò Riina. Qui spiego come siamo arrivati a quella mafia. Ora la vulgata sicula non ritiene che gli americani abbiamo chiesto il permesso alla Mafia di arrivare in Sicilia. La Mafia non era così potente o organizzata, gli Stati Uniti sì. Ma una volta che hanno deciso di sbarcare in Sicilia, l’America chiede: “chi comanda qui?””.

Si vede bene nel tuo film, la scena del mafioso che dice agli americani, “che bisogno c’`è di mettere mano alle armi, quando siete in mezzo agli amici…”
“ Gli Americani non conoscono la Sicilia nel ’43, l’unico contatto che hanno è la mafia. Mentre per gli inglesi il contatto è la massoneria. È un dato di fatto. Poi faccio sempre la premessa che io sono felice che ci abbiano liberato gli americani, però…”
Però potevano farlo meglio…
“Eh sì, perché siamo passati da un regime fascista a un regime mafioso”.
Nel “Giorno della Civetta” di Leonardo Sciascia, altro grande romanzo scritto negli stessi anni in cui veniva pubblicato “il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, il capitano dei carabinieri Bellodi (antifascista partigiano) dice a se stesso, dopo che si è reso conto che cos’è la mafia, ecco Sciascia gli fa dire, “che i siciliani erano più liberi sotto il fascismo che nell’Italia repubblicana”. Come nel tuo film, nella scena in cui tutti in piazza abbracciano gli americani e il vecchietto fascista si sente perduto, non capisce cosa sta succedendo perché vede anche gli americani che abbracciano i mafiosi…
“La realtà è che noi non abbiamo fatto una bella figura: noi eravamo fascisti, abbiamo tentato di fare la furbata alleandoci con Hitler, credendo di vincere subito. Da fascisti dichiariamo guerra agli alleati, gli americani rispondono in maniera tragica con bombardamenti che finiscono per colpire e uccidere i civili. Poi, quando gli americani sbarcano, la prima cosa che facciamo è ringraziare i liberatori e diventare amanti della libertà e della democrazia da fascisti che eravamo. Per questo molti americani non scrivono bene del popolo siciliano, su varie riviste: quello che ho imparato nel corso degli anni comunque è che non se n’è mai parlato di questo momento storico perché non abbiamo mai fatto un esame di coscienza vera. Abbiamo dato tutte le colpe a Hitler, dimenticando che i treni per i campi di concentramento pieni di ebrei e omosessuali e rom partivano anche dall’Italia, dalla Stazione centrale di Milano. I tedeschi ci pensano e riflettono ogni giorno, anche oggi, noi no”.

Tu hai toccato, attraverso una storia d’amore che potrebbe sembrare solo intrattenimento, il significato vero della mafia. Ecco, in questo contesto, tu qui ti fermi un attimo prima dell’inizio della guerra fredda. Ti fermi prima della festa del primo maggio, del 1947, a Portella della Ginestra… Fatto apposta a fermarti, sarebbe stato troppo per il pubblico americano?
“Ho tentato di raccontare tutto ciò, facendo capire quello che succederà dopo. E lo si capisce dal discorso finale del sindaco mafioso…”.
Perché ai mafiosi viene data licenza di sparare contro sindacalisti e comunisti…
“Nel quale ufficiosamente viene dichiarato il ruolo della mafia contro il comunismo. Gli americani non hanno nessun motivo di fermarlo”.

Sì da il potere alle iene, ai mafiosi che uccidono le prede lasciate isolate, che nessuno vuol proteggere… Torniamo agli americani. Quando uccisero Falcone l’Fbi, 24 ore dopo che esplode la bomba, dice alle autorità italiane: “Noi possiamo venire ad aiutarvi”. E infatti poi lo fanno. Come lo vedi questo gesto? Complesso di colpa?
“Di certo Giovanni Falcone era conosciuto per il suo lavoro e infatti hanno il busto nel giardino dell’FBI. Ma sai quando dico che c’era intenzione di non lottare contro la mafia, considero anche che questa intenzione non è mai totalmente compatta. All’interno del singolo stato ci sono sempre quelli che lavorano per far sì che succeda una certa situazione e quelli che si contrappongono. All’interno dello stato italiano, i magistrati, i poliziotti sono morti per questo del resto (ed erano tutti siciliani, a parte Dalla Chiesa – ndr). Io sono convinto, ma questa è personale opinione, che non è un caso che dopo la caduta del muro di Berlino ci sia stata una vera e propria lotta alla mafia, con passi da gigante. Nel processo contro Andreotti venne a testimoniare un agente Fbi, ed evidentemente i suoi superiori gli hanno detto che poteva andare a testimoniare contro Andreotti. Probabilmente se quel muro non fosse caduto, quell’agente non avrebbe mai testimoniato”.
Nel 1860 la mafia fu messa al potere dai piemontesi, dice il Gattopardo. Nel 1943 viene rimessa al potere come racconti tu. Ora siamo in un terzo momento cruciale, in una situazione in cui sembrerebbe che la mafia non abbia più il potere avuto in passato. È un semplice caso o non c’è nessuno che la riporta in auge, e in tal caso davvero la Sicilia potrà essere liberata? O viceversa temi che gli sconvolgimenti in atto possano ridare vigore alla criminalità in Sicilia, al riutilizzo della mafia come “strumento di governo locale”? È giunto o no il momento di liberarsi della mafia, finalmente?
“Ora la mafia siciliana è in crisi perché c’è la crisi economica e hanno problemi a dare soldi a parenti dei carcerati, e poi lo stato ha fatto lo stato. C’è stata la strategia folle e sbagliata di Totò Riina che ha dichiarato guerra in quel modo e ha aiutato a indebolire paradossalmente la criminalità. Mi ipotizzi una cosa a cui ingenuamente non avevo mai pensato: sicuramente continua a esserci un serio problema di collusione culturale con la mafia. In questi giorni ci sono le elezioni a Palermo e il candidato Fabrizio Ferrandelli ha dietro la sua lista una persona come Totò Cuffaro. In un altro Paese un candidato si dovrebbe allontanare da Cuffaro o quantomeno dovrebbe scoppiare uno scandalo. In Italia no. Se tu dici che è accusato e sotto processo per mafia, fino a terzo grado è innocente. Se alla fine è colpevole e ha fatto carcere “comunque ha pagato”: sembra che tu ne esca bene. Questo è segnale drammatico, perché culturalmente siamo collusi. Sconfiggeremo la mafia solo quando noi siciliani decideremo di nostro pugno di sconfiggerla”.
Palermo capitale della cultura 2018, può aiutare?
“Certo, ma quello che voglio dire è: tante volte provi a spiegare cosa sia la mafia, ma comunque nonostante tutto, anche se il tuo interlocutore è acculturato e sensibile non lo capirà mai”.
Tu però Pif, lo hai spiegato bene cosa sia la mafia, quando il sindaco Don Calò alla fine fa il famoso comizio dove dice “la democrazia siamo noi perché avete bisogno di noi”.
“Si beh, è come se il sindaco mafioso dicesse ‘Lo Stato siamo noi’”.

Questo film dovrebbe essere distribuito anche in America, giusto? Anche perché è al 50% in inglese, quindi non c’è l’ostacolo della lingua.
“Siamo in trattativa ma ci sono buone possibilità che ci sia un distributore, sì”.
Ecco, allora ti chiedo: nel momento in cui potresti raggiungere l’obiettivo di far capire a tutti, anche agli americani, la mafia, hai forse paura? Hai paura di una vendetta, o che tu possa soffrirne delle conseguenze? Falcone aveva raggiunto il suo obiettivo, non è morto invano, le condanne del maxiprocesso lo confermano. Ora non parlo di conseguenze fisiche per Pif, per carità, ma temi ripercussioni per la tua carriera, che non ti facciano fare più film…
(Ride di nuovo Pif, prima di rispondere…) “La triste verità purtroppo è che non gliene frega niente a nessuno. È giusto aver fatto questo film, sono felice di averlo fatto. Ma l’amara verità è che il tema mafia non è di interesse. Per essere di interesse a livello generale dovrebbe esserci un esame di coscienza della società sul passato. È bello dare etichetta antimafia a un prete o a un artista, ma bisognerebbe fare un esame di coscienza tutti, prendendo di petto quello che abbiamo fatto, ma farlo è difficile e può far male e si preferisce evitare”.
Concludo con un ultima provocazione: ti rendi conto che con questo film tu potresti anche preparare il pubblico americano a capire la mafia e di conseguenza a capire come e perché è morto il presidente John Kennedy?
“Non credevo. Diciamo che non ne avevo l’ambizione, non osavo tanto: vediamo, spero di essere stato di aiuto”.