Da qualche settimana è in sala un film su cui è stato scritto molto, un film che durante l'anno ha fatto il giro dei festival internazionali (ultimi il New York Film Festival e il Torino Film Festival) ed è piaciuto più o meno a tutti. Brooklyn, diretto da John Crowley, ha padri importanti come Colm Tóibín, pluripremiato scrittore e giornalista irlandese dal cui omonimo romanzo il film è tratto, e Nick Hornby, noto scrittore inglese qui autore della sceneggiatura.
Al di là delle qualità squisitamente letterarie del film che sono evidenti, tanto nella narrazione quanto nello scavare a fondo nel cuore della giovane (e brava) protagonista, il mio giudizio sul film è forse un po' più tiepido rispetto a quello della maggior parte degli spettatori, critici cinematografici e non. Non perché non sia un bel film, tutt'altro, è un film ben girato, ben scritto, con una leggerezza di racconto rara, ben recitato, e in certi momenti anche commovente, ma perché di quella Brooklyn lì, e di quelle vite che racconta, mi sembra ci sia troppo poco. O forse erano le mie aspettative ad essere sbagliate: Brooklyn non è una storia di immigrazione, di fatica e integrazione, non ha la profondità sociale né l'inventivo spessore visivo di Crialese, per citare un regista che ha ben raccontato gli immigrati italiani in America.
Brooklyn è una storia d'amore, e di nostalgia. È la Brooklyn degli immigrati irlandesi dei primi anni Cinquanta, e dei tanti arrivati prima, di quelli che erano scappati da una miseria indicibile e di quelli che stavano continuando ad andarsene perché in Irlanda non c'era futuro. Ma nelle strade di Brooklyn non si svolge il dramma collettivo degli immigrati irlandesi, o italiani, i milioni di operai e manovali che hanno scavato i tunnel e costruito i ponti di questo immenso paese si intravedono appena, e la comunità (in questo caso irlandese) è più detta che mostrata. In questa Brooklyn ci sono solitudini, dolori personali, cene tra ragazze pettegole e vecchie beghine – a questo proposito, penso alle parole di un amico a cui questi toni e questa leggera umanità di provincia squisitamente europea ricordano, a ragione, certi telefilm di Pupi Avati degli anni Settanta…. C'è una nostalgia insopportabile (nella protagonista, ma anche, in qualche modo, nello spettatore), c'è il ricordo della propria famiglia rimasta a casa, di una terra separata da un oceano troppo vasto e troppo costoso da attraversare, e c'è la trasfigurazione del ricordo, e al tempo stesso il voler trovare qualcosa di proprio, che diventi la propria vita in questo nuovo paese.
È questa la storia di Ellis (Saoirse Ronan), colta in un momento preciso della sua vita, costretta ad emigrare da un paesino dell'Irlanda all'America per assicurarsi un lavoro, con l'aiuto della sorella (figura esile e tragica) e di uno zio prete. Arrivata a Brooklyn, Ellis il lavoro ce l'ha pronto, vive con altre donne in una boarding house piuttosto bella, insomma, non le va tanto male. Ma Ellis non vuole un lavoro qualunque, ma un lavoro che le piaccia e che la faccia crescere, e si dà da fare per costruirsi un futuro, incontra un ragazzo italoamericano, si innamora e si sposa. E se la cena a casa di lui – tra fratelli numerosi e rumorosi e spaghetti da arrotolare tra forchetta e cucchiaio – è ricca di calorosi cliché sugli italoamericani, lo sono anche i canti irlandesi alla cena di Natale e una specie di malcelata pruderie britannica.
Non sono questi i punti forti del film, un'umanità fatta di immigrati che è troppo generica e lieve per essere appassionante, ma l'intimità del cuore, la vita e le scelte di Ellis, anche quelle sbagliate, quelle sì che ci appassionano. È la nostalgia, è l'amore per il futuro contrapposto a quello, insopprimibile, per il passato, è il ricordo di quello che si era e che pesa rispetto a quello che si è diventati, o si sta diventando. Non è la miseria quella da cui Ellis è andata via, è la sensazione di soffocamento e di mancanza di futuro, di non poter essere se stessi, in quel piccolo pezzetto di Irlanda.
Brooklyn racconta l'intimità dell'immigrazione ed è questa la sua forza. Chiudersi il passato alle spalle per poter cominciare una nuova vita: questa è la morale (sofferta) del film, e mi viene da pensare che un film italiano sui migranti degli anni Cinquanta non l'averebbe mai avuta questa morale, ne avrebbe avute altre. C'è qualcosa di drammatico, visceralmente doloroso nei nostri film e racconti di migrazione, c'è lo sradicamento, c'è la tragedia della terra e degli affetti lasciati oltre oceano e c'è la difficoltà spietata della vita in un paese che non si conosce e che parla un'altra lingua. Solitamente sono altre storie quelle italiane, in Brooklyn dolore e nostalgia sembrano più lievi.
Parlando con gli italoamericani adesso, quelli arrivati qui come Ellis sessant'anni fa, e ancor di più con i loro figli, spesso c'è una trasfigurazione del passato. È l'Italia della loro personale memoria quella che raccontano di aver lasciato, ma non sempre corrisponde alla realtà. Nelle loro parole, la terra lasciata sembra essere sempre migliore di quella trovata, immagino sia l'effetto del tempo e forse, anche qui, la nostalgia. Mentre, al contrario, gli italiani che arrivano a New York adesso sono spesso in fuga, molti tendono quasi a rinnegare le proprie radici: partire oggi è una scelta e non proprio una necessità. Sebbene la crisi economica italiana ormai congenita costituisca una spinta non da poco, molti vengono qui per diventare quello che in Italia non sarebbero potuti diventare, non solo e non tanto per ottenere quello che in Italia non avrebbero mai potuto avere. E oggi, si può sempre tornare indietro. Qui però si aprono altri pensieri, tra cui quello che questi italiani che arrivano adesso sono poco raccontati dal cinema, anzi, quasi per niente.
Ripensando a Brooklyn, mi accorgo che in verità ho amato questo film, ma non per la sua storia di immigrazione, quella non mi ha portato molto di più se non qualche suggestiva atmosfera di Leoniana memoria, ma perché è un film sulle scelte, quelle giuste e quelle sbagliate, quelle necessarie. E per il suo affilato, infinito senso di nostalgia.
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