I sette fratelli Angulo, sei maschi e una ragazza, tutti con nomi di divinità indiane, figli di una coppia conosciutasi tra i picchi rocciosi di Machu Picchu, hanno trascorso la propria vita rinchiusi in un appartamento dei projects del Lower East Side di Manhattan, lontani dalla società civile, non hanno computer, smartphone o connessione a internet.
L’incredibile storia della famiglia Angulo viene raccontata in un documentario, The Wolfpack, il branco, della esordiente Crystal Moselle, reduce dalla serie Something Big, Something Small. Vincitore del Grand Jury Prize al Sundance Festival, il film si rivela un esempio concreto del potere del cinema di trasformare e salvare vite. “Certo la vita reale è diversa, ma i film ci hanno insegnato che le persone sono esseri umani complessi ed imperfetti”, dice Narayana, uno dei fratelli Angulo, in occasione della conferenza stampa di presentazione del film alla Festa del Cinema di Roma, giunta alla sua decima edizione. “Sono anche molto ingenui, come ci si potrebbe aspettare da chi ha imparato a conoscere la vita attraverso i cliché del cinema”, scrive di loro Moselle nelle note di regia.
Imprigionati da un eccentrico, paranoico e tirannico padre hippy che vuole proteggerli dagli orrori della vita moderna e dai pericoli della Grande Mela, la loro esistenza non era nota nemmeno ai vicini. La madre gli ha fatto da insegnante, anziché mandarli a scuola. Soprannominati i “Wolfpack”, ciò che sanno del mondo esterno proviene dai film che guardano in maniera ossessiva. Da quando i film sono diventati il loro mondo, hanno iniziato a importare quello stile anche nel loro guardaroba. Un gran numero dei loro primi costumi sono vestiti che il padre ha trovato per strada o alla Salvation Army, cui loro hanno rimesso mano per trasformarli in specifici costumi. Per esempio, hanno fissato con il nastro adesivo il logo della Nike su alcune scarpe da tennis come quelle di Marty McFly, e tagliato un impermeabile da donna sul modello dei costumi da biker di Mad Max. Ma il vestito preferito dai lupi è quello indossato dai protagonisti de Le Iene di Quentin Tarantino, occhiali scuri, camicie bianche, abiti neri e cravatta nera. Così per anni questo passatempo è stato per loro uno sfogo creativo e un modo per prevenire la solitudine. Ma dopo la fuga di uno dei fratelli, indossando la maschera un personaggio horror, Michael Myers, per proteggersi, le dinamiche familiari sono cambiate, e tutti i ragazzi hanno cominciato a sognare di avventurarsi all’esterno.
Gran parte del documentario è basato sul materiale grezzo girato dai ragazzi stessi durante i 14 anni trascorsi nel piccolo appartamento, alcuni filmati risalgono anche al 2005, rimettono meticolosamente in scena le sequenze dei loro film preferiti, utilizzando elaborate attrezzature sceniche e costumi fatti in casa. Oppure mentre cantano e ballano insieme. Il tutto condito da interviste in cui ogni membro della famiglia, a turno, descrive la propria condizione.
La regista newyorchese ha incontrato i fratelli nei primissimi giorni in cui avevano iniziato ad uscire di casa e a interagire con il mondo. “È stato come scoprire una tribù a lungo dispersa, solo che non eravamo ai confini del mondo, ma sulle strade di Manhattan. Questi ragazzi con i capelli lunghi mi hanno superata correndo, zigzagando tra la folla. Ne ho contati uno, due, tre… e poi altri tre. Mi sono lasciata guidare dal mio istinto e li ho inseguiti raggiungendoli a un semaforo rosso. Ho chiesto loro da dove venissero e mi hanno risposto 'da Delancy Street'. Quando ho spiegato loro di essere una regista, si sono entusiasmati: abbiamo fissato un incontro e ho mostrato loro alcune videocamere. Ho iniziato a filmarli qua e là mentre li incoraggiavo nell’impresa del loro film. Dopo quattro mesi, ero riuscita a entrare in casa loro. E lì ho capito che c’era una storia più profonda, e ho deciso di girare un documentario su di loro che è durato quasi cinque anni”.
The Wolfpack, presentato nella sezione Alice nella città, non è una storia di violenza domestica. Una volta che i ragazzi sono usciti allo scoperto, i genitori non sono stati arrestati per maltrattamenti perché negli Stati Uniti non costituisce reato tenere a casa i bambini se vengono comunque sfamati e ricevono cure mediche. Eppure il triste destino degli Angulos sarebbe rimasto solo un caso estremo di istinto di protezione paterno, se i ragazzi ad un certo punto non avessero deciso che era giunto il momento di esplorare il mondo esterno. Ma Moselle si astiene dall’esprimere qualsiasi giudizio sul comportamento dei genitori. “Nel momento in cui sono entrata nella loro storia, i ragazzi avevano già iniziato la loro ribellione contro il padre. Eppure sia lui che la madre erano preoccupati di come sarebbero potuti apparire, visto che i loro figli erano stati confinati nel loro appartamento così a lungo. Ma allo stesso tempo si sono dimostrati aperti all’idea di documentare la loro famiglia perché hanno pensato che fosse un’opportunità per i figli. Un percorso verso la libertà e la socializzazione per guadagnare la propria indipendenza dopo anni di isolamento”.
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