La moda oltre il glamour, oltre Instagram, oltre gli outfit, oltre quel mondo patinato che affascina e appassiona. Un'enorme industria mondiale che vuole riscattarsi e ritrovare il proprio ruolo sociale. Di questo e altro si è parlato alla Global Fashion Capitals Conference, martedì 13 ottobre, al Graduate Center della City University of New York (CUNY). Il dibattito è stato presentato dal dipartimento di Fashion Studies e dal Master of Arts in Liberal Studies, in collaborazione con la School of Visual, Media & Performing Arts del Brooklyn College e il Museum at FIT, e con il supporto del programma Women’s Studies Certificate, del Master in Women’s Studies, il Committee on Globalization and Social Change, Data & Society and the Future Initiative.
L'evento si proponeva nello specifico di analizzare il rapporto tra moda e città e le reciproche influenze. Attraverso un’industria culturale e produttiva, unita ad un complesso apparato mediatico, la moda ha contribuito alla trasformazione storica e sociale di molte città nel mondo. Ma che cosa rende una città “capitale della moda”? Qual è il reale impatto dell’industria-moda sulla società e sul nostro pianeta? E ancora, quali sono le conseguenze di un atteggiamento indirizzato esclusivamente al profitto?
A queste domande hanno cercato di rispondere i ricercatori e professionisti provenienti da esperienze e campi diversi, intervenuti nei vari panel in cui era articolata la conferenza. Si è cercato di offrire ai presenti, la possibilità di spaziare all’interno di un mondo che troppo spesso consideriamo da un punto di vista unicamente effimero.
Al di là del glamour, infatti, la moda fa parte di un paesaggio molto più ampio, che si interseca con altre realtà come i media, le arti visive, il design, il cinema e l’artigianato. Tutte queste ramificazioni hanno contribuito al mutamento e alla trasformazione di diverse città nel mondo, facendo di alcune di esse “capitali della moda”: Parigi, Milano, Londra, New York. E, proprio in quest’ultima, furono le donne e gli immigrati responsabili della creazione dell'industria dell'abbigliamento. Il loro lavoro, le riforme sociali, l’attivismo politico, generarono una graduale trasformazione urbana, che la moda seppe cogliere ed interpretare, facendo diventare New York City una delle capitali della moda.
“Perché una città possa definirsi capitale della moda – ha spiegato Travis Haglin, professionista con oltre 15 anni di esperienza nello store-line retail e divisional director of retail alla Ralph Lauren, nonché professore al LIM College – è necessario che possieda un’identità ben consolidata, data da un mix di cultura, commercio e creatività. La moda si trasforma, muta nello stile della città a cui appartiene e diventa il faro di quella città, rendendola un individuo unico e diverso dagli altri, rendendola un punto di riferimento, una capitale appunto”.
A dare concretezza a questi concetti sono i dati relativi alla città di New York forniti durante il convegno. L’impatto economico che questa industria ha sulla città è enorme: 180.000 persone lavorano in questo settore, generando dei salari annuali pari a 10 miliardi e 900 milioni di dollari. Solo la New York Fashion Week impiega 180.000 persone (il 6% della forza lavoro della città) e produce un fatturato annuo di 850.000.000 dollari. Si stima che circa 900 aziende di moda abbiano sede a New York. La connessione tra infrastrutture economiche, culturali e tecnologiche (grandi magazzini, musei, mezzi di comunicazione, teatri, fiere, turismo, associazioni), la modernità, la multiculturalità, sono tutte caratteristiche necessarie affinché una città possa definirsi capitale della moda. Qualità presenti e vive nella metropoli di New York.
“Oggi, però, la moda è condizionata profondamente dai media e dai mezzi di comunicazione, vittima dei consumatori e delle vendite. Ha inesorabilmente perso creatività”, ha detto Joseph “Joe” Henry Hancock, esponente di fama internazionale nella disciplina del fashion branding come forma di story telling. Secondo Hancock è necessario dare una nuova definizione al termine moda. Un invito accolto dai partecipanti al secondo panel della giornata, composto da
llo stilista coreano Minn Hur, Elizabeth Wissinger, ricercatrice nel campo della moda, Elizabeth Cline, giornalista e Tabitha St. Bernard, stilista.
Nel corso della giornata di studi, si è parlato anche di futuro, di sostenibilità, di innovazione, di far rivivere la manifattura negli Stati Uniti. Di un ritorno al passato con uno sguardo verso il futuro. Tabitha St. Bernard, co-fondatrice e stilista del brand Tabii Just Zero Waste, linea di abbigliamento disegnata e prodotta interamente negli Stati Uniti, ha raccontato che la sua azienda che crea accessori come pochette, foulard, cinture dagli scarti della lavorazione dei tessuti. Un’azienda giovane, con sede a Brooklyn, che cerca di far rivivere l’idea di una moda tutta newyorchese, dove i professionisti dell’artigianato esistono ancora e vanno valorizzati, senza dimenticare l’ambiente, in una visione etica della moda.
Nella seconda parte della giornata è stato proiettato il film documentario The True Cost (2015) del regista Andrew Morgan che, al termine della visione, ha partecipato alla discussione tramite Skype, rispondendo alle numerose domande dei presenti, scaturite dall’intensità del tema trattato. Il film descrive il reale impatto che l’industria della moda ha sul nostro pianeta. L’industria moda è una delle più grandi fonti di inquinamento mondiale, seconda solo al petrolio. Il fast fashion e la moda low cost sollevano problematiche profonde. Il binomio Primavera-Estate/Autunno-Inverno è scomparso lasciando il posto ad un mercato che propone decine se non centinaia di collezioni all’anno. Ma con quali conseguenze? L’abbattimento dei costi, l’esportazione della manifattura nei paesi in via di sviluppo, ha creato danni non solo all’economia nei paesi sfruttati per la produzione massiva di capi d’abbigliamento, senza compenso adeguato, ma anche alle economie dei paesi ricchi dove l’artigianato tessile subisce irreparabilmente la competizione internazionale. L'utilizzo di coloranti chimici e di diserbanti tossici per le piantagioni di cotone stanno facendo ammalare intere popolazioni la cui unica responsabilità è quella di confezionare abiti che noi acquistiamo per poche decine di dollari o euro.

Da sinistra: Eugenia Paulicelli, Joe Hancock, Veronica Manlow, Lisa Small, Travis Haglin
Eugenia Paulicelli, fondatrice e direttrice del dipartimento di Fashion Studies del Graduate Center e organizzatrice della conferenza è però ottimista: il vento del cambiamento sta soffiando forte in direzione di una inversione di tendenza nel mondo della moda. “Il concetto di capitale della moda va sicuramente rivisto – dice – certamente dal punto di vista industriale ma anche soprattutto dal punto di vista culturale, come rapporto tra spazi e urbanizzazione. Si deve cercare di dare maggiore spazio e sostegno a designer emergenti, i giovani devono essere parte attiva ed è necessario far capire loro quanto sia complesso il mondo della moda. Lo scopo di questo convegno e dello studio sulla moda è stato proprio questo”.
Perché un cambiamento avvenga è necessaria una riflessione profonda sulla moda, che avvicini questo settore agli studi sociali, con un approccio multidisciplinare. “L’informazione e l’educazione sono fondamentali per infondere un sapere e una conoscenza profonda del 'sistema moda', oggi più che mai complesso – prosegue Paulicelli – Al Graduate Center siamo stati i primi ad offrire corsi di PhD sulla moda (dal 1998) e nel 2002 abbiamo realizzato il primo convegno internazionale sulla moda italiana. Attraverso un approccio interdisciplinare, con questo evento, abbiamo voluto dare dimostrazione di come noi intendiamo trasmettere la conoscenza del mondo della moda. È necessario far crescere la consapevolezza riguardo a cosa si cela dietro le cose che indossiamo. Ma è un percorso faticoso e lungo, che richiede studio e approfondimento. Attraverso la discussione e il dialogo su questi temi è possibile diffondere una maggiore sensibilità ed un eventuale recupero di valori che nell’ultimo decennio si sono via via perduti. Approcciarsi ad uno studio accademico della moda diventa quindi un’opportunità per cercare di comprendere maggiormente questi processi e radicarli nei propri comportamenti quotidiani”.
Per usare le parole di Coco Chanel, “la moda non è qualcosa che esiste solo negli abiti. La moda è nel cielo, nella strada, la moda ha a che fare con le idee, il nostro modo di vivere, con che cosa sta accadendo”.
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