La città raccontata da Cassavetes, Scorsese, Lumet, Schlesinger, nel bene o nel male non esiste più. La New York di Husbands (Mariti), Mean Streets, Serpico, Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede) è rimasta su quelle pellicole, mentre le sue strade, i palazzi, le stazioni, i negozi, sono scomparsi insieme ai suoi abitanti, per far posto ad altre strade, altri palazzi, altre stazioni, altri negozi, e a newyorchesi che di quella città non sanno più nulla, un po' perché se la sono dimenticata e un po' perché non l'hanno mai conosciuta.
Accanto a Woody Allen o Spike Lee, che con i loro film hanno registrato il cambiamento, oggi troviamo quel che di vero rimane di New York in certe incursioni di Noah Baumbach o Lena Dunham, per lo più in quartieri di Brooklyn o del Queens rimasti illesi (o quasi) dalla feroce gentrificazione che li ha resi più sicuri ma anche tutti uguali, in una corsa sfrenata a rimettersi in sesto per future e futuribili avventure immobiliari, ad accogliere chi Manhattan non se la può più permettere. La New York del cinema oggi è generalmente fatta di passeggiate nel parco, brunch disinvolti, shopping vintage e impeccabili loft con vista sull'Hudson. La verità è che spesso chi gira a New York oggi rimane in superficie.
I newyorchesi sullo schermo sembrano essere diventati tutti uguali, in quella che invece continua ad essere la città più multietnica del mondo. Bisogna spingersi nell'indie più estremo per trovare altro, spulciare tra film e documentari di autori resilienti che continuano a raccontare la New York autentica che ancora esiste, seppur duramente provata e totalmente ignorata dall'industria cinematografica.
Oppure bisogna andare più in là, oltre l'East River, e addentrarsi In Jackson Heights, quarantesimo documentario di Frederick Wiseman.

Il regista Frederick Wiseman
Con questo film Wiseman racconta per la nona volta una delle tante facce di New York, la complessità della città e delle sue istituzioni osservate attraverso la vita dei newyorchesi: l'American Ballet Theatre (Ballet), Central Park (Central Park), il mondo della moda (Model), la scuola pubblica (High School II) , l'ippodromo di Belmont Park (Racetrack), il New York's Metropolitan Hospital (Hospital), il Madison Square Garden (Garden), il sistema del welfare (Welfare), in quello che è forse il suo film più bello, più importante e artisticamente riuscito, che racconta l'assurda complessità di un sistema che dovrebbe assistere e supportare chi ne ha bisogno, mentre per sua stessa natura non fa che ostacolare e umiliare quelle stesse persone che vi si rivolgono in attesa di un sostegno a cui in teoria hanno diritto ma che potrebbe non arrivare mai, come Godot. Macchine economiche, culturali, commerciali, sportive, assistenziali, educative, finanziarie, nei cui ingranaggi la gente vive e lavora ogni giorno, con tutta la bellezza e la brutalità che ne consegue, con i riti e i ritmi della città.
In Jackson Heights è il terzo film con cui Wiseman documenta una comunità, dopo Aspen (1991) e Belfast, Maine (1999). Anche questa volta il principale interesse dell'autore è quello di osservare e raccontare “come la gente in America organizza la propria vita attraverso le istituzioni”, in questo caso come vive la gente in un quartiere che è il più diverse al mondo in termini linguistici, etnici e culturali e come si relaziona alle istituzioni di quel territorio, quelle che rappresentano la gente a tutti i livelli – religione, scuola, uffici municipali, associazioni.

Un’immagine di “In Jackson Heights”
A Jackson Heights si parlano 167 lingue, qui vivono immigrati di prima, seconda e terza generazione, qui resistono ancora i piccoli negozi di quartiere, qui si studia inglese per diventare cittadini americani, qui si sfila per le strade con orgoglio LGBT, qui si celebrano santi, si macella la carne halal e kosher, si cucina nei forni tandoori, si chiacchiera seduti sui marciapiedi davanti casa, ci si riunisce in comitati per i diritti di cittadinanza e per tutelare il piccolo commercio della zona che rischia di essere fagocitato dalle grandi catene, qui si vive sotto alla sopraelevata di Roosevelt Avenue, dentro ad apartment buildings scarsi di fascino ma che cominciano ad attrarre professionisti e famiglie da oltre l'East River.
Con la sua tecnica ormai consueta, Wiseman osserva, raccoglie parole e immagini, con cui al montaggio costruisce il racconto. Nessuna tesi da dimostrare, praticamente nessuna preparazione, solo la vita che si svolge davanti alla sua telecamera. Quattro settimane di riprese a Jackson Heights, duecento ore di girato ed ecco che quel pezzetto di New York e quelle centinaia di persone le cui vite scorrono sullo schermo diventano una comunità che si struttura dentro al racconto di Wiseman nel modo più naturale possibile, in cui il montaggio mette in relazione persone e concetti, da cui scaturiscono nuovi concetti e grazie a cui si forma un pensiero, uno sguardo aperto su questa comunità e il suo quartiere, che è lo sguardo del regista ma diventa anche il nostro.

Un’immagine del film di Wiseman “Welfare” (1975)

Un’immagine del film di Wiseman ┬░Central Park┬░ (1989)
Negli anni in molti hanno chiesto a Wiseman se fosse possibile una vera oggettività, in quanto la macchina da presa (oggi la telecamera digitale) è sempre intrusiva, in quanto i comportamenti delle persone riprese si modificano davanti a una telecamera, in quanto il montaggio costruisce e anche cambia il significato delle immagini e del racconto stesso. Negli anni la risposta di Wiseman è sempre la stessa: lui si limita a registrare immagini, sequenze, e solo una volta che le ha raccolte tutte comincia a metterle insieme seguendo quello che queste sequenze raccontano, trovando connessioni e rivelando significati. Alcune sequenze sono molto lunghe, a volte persino noiose, ma la verità è che nella vita quotidiana, nelle istituzioni di cui la nostra società è composta, ci sono momenti lunghi e noiosi. Quanto alle persone, le persone prima si adattano ma poi si dimenticano anche della telecamera, e magari viene fuori qualcosa di loro che non si sospetta, ma fa parte del gioco, come spiega anche Wiseman in numerose interviste, “e comunque se per la gente fosse così facile interpretare qualcuno che non si è, sarebbero tutti attori, e il livello della recitazione a Hollywood sarebbe molto più alto!”.
Il cinquantennale lavoro di Wiseman è apprezzato ai festival di tutto il mondo (a lui è andato il Leone d'Oro alla carriera nel 2014) ma poco visibile nelle sale e nelle sempre più numerose piattaforme on line. Da due anni Wiseman e il suo staff scrivono a Netflix perché acquisisca i suoi documentari, mentre per le televisioni i suoi film sono decisamente troppo lunghi. Chissà che con In Jackson Heights qualcosa non cominci a cambiare, ora che il Queens sta diventando “hot” e persino la Lonely Planet quest'anno l'ha dichiarato località n. 1 da visitare negli Stati Uniti! Attendiamo fiduciosi.
Intanto, dal 9 ottobre al 7 novembre 2015 è in corso al Museum of the Moving Image di Astoria (a due passi da Jackson Heights) una rassegna dedicata ai 7 documentari newyorchesi di Wiseman, escluso Garden, purtroppo mai distribuito, e In Jakson Heights appunto, che è stato di recente presentato al New York Film Festival e precedentemente ai Festival di Venezia e Toronto, e uscirà al Film Forum di New York il 4 novembre 2015. Il 28 ottobre, Wiseman incontrerà il pubblico del MoMI in una conversazione sui suoi film girati a New York.
Frederick Wiseman racconta una New York autentica, quella New York che resiste a questi anni che livellano il mondo come anche il cinema, e Jackson Heights rappresenta l'America come dovrebbe essere: multietnica, multiculturale, multireligiosa, e solidale.
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