Nel 1974 l’acrobata francese Philippe Petit compì l’impresa di attraversa su una fune di ferro la distanza che separava le Torri Gemelle, a più di quattrocento metri d’altezza. Una performance altamente rischiosa, studiata per mesi e messa in atto eludendo la sorveglianza degli edifici ancora non aperti al pubblico.
Cosa ha spinto Petit a mettere così a rischio la propria vita? Quale insostenibile ossessione l’ha guidato nella ricerca di una simile, radicale performance artistica? Questi e altri quesiti legati alla natura umana e alla sua ricerca di limiti avrebbero potuto essere la base portante per un dramma umano di enorme portata emotiva, oltre che ovviamente di un film altamente spettacolare. Perché allora il regista Robert Zemeckis ha deciso di realizzare The Walk come una favoletta edificante?
Il problema principale del film, che ne mina alla base la presa emotiva, è infatti il tono con cui la storia viene raccontata. La messa in scena che il regista ha allestito fin dalle prime immagini si pone come una sorta di commedia surreale, incentrata su un giovane testardo che insegue il suo sogno di diventare un grande equilibrista. Tra momenti comici alla Buster Keaton e la cornice romantica della Francia, la prima parte di The Walk è di una leggerezza quasi disarmante, che permette magari allo spettatore di divertirsi con il protagonista Joseph Gordon-Levitt ma non di entrare in empatia con lui.
Se non si parteggia per il protagonista, se non ci si connette con la sua motivazione – tra l’altro una motivazione così particolare – come ci si potrà veramente emozionare al momento della verità? E infatti in The Walk non ci si emoziona.
La sequenza di preparazione all’impresa sulle Torri Gemelle è ingiustificatamente lunga, prolissa, zeppa di dettagli e sospensioni della tensione. Quando poi si arriva allo showdown finale – visivamente portentoso: Zemeckis rimane comunque uno dei più grandi registi contemporanei – la presa emotiva del film non è comunque sufficiente a sentire che Petit è veramente in pericolo sospeso nel vuoto a una simile altezza. E ciò perché il pericolo della sua impresa il lungometraggio non ha mai veramente fatto assaporare allo spettatore, e forse non voleva proprio farlo.
Dietro una confezione accattivante e a tratti spettacolare, l’ultimo lavoro di Robert Zemeckis che verrà presentato alla prossima Festa del Cinema di Roma e uscirà successivamente nelle sale italiane il 22 ottobre (negli States è uscito a fine settembre), è un’esibizione purtroppo innocua di virtuosismo cinematografico. Non c’è epica, non c’è ossessione, non c’è un vero e proprio viaggio narrativo nella messa in scena dell’impresa di Petit. Ciò che rimane è immagine elegante, magari anche mirabolante. Ma non essendo accompagnata dall’emozione, rimane un quadro privo di vera vita.
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