Avevo 13 anni o forse 14, chi se lo ricorda più? Fatto sta che i miei genitori, all’epoca, ne avevano solo quaranta, un età splendida per vivere la stagione romana più bella di sempre, quella della cosiddetta Dolce Vita. La sera i miei uscivano spesso e andavano a passeggiare in via Veneto, si sedevano ai tavolini e chiacchieravano con un sacco di gente. Lì c’erano davvero tutti. Scrittori famosi come Flaiano, Moravia, Calvino, Ettore Patti e Pasolini sedevano a fianco di rampanti costruttori romani, stelline del cinema in cerca di notorietà, giornalisti di sinistra come Eugenio Scalfari e Mario Panunzio, produttori di Hollywood, poeti come Cardarelli, pittori come Renato Guttuso, grandi attori come Burt Lancaster, Frank Sinatra e Ava Gardner, il grasso re Faruk, in esilio dall’Egitto e chi più ne ha più ne metta. Tutti seduti da Doney oppure al Cafè de Paris, all’Harry’s Bar e al Bar Rosati. Tutti a cercare libri tra gli scaffali della libreria Rossetti, mentre sulla strada sfrecciavano la Ferrari di Rossellini, la Jaguar di Raf Vallone, la B21 di Renato Rascel, la Mercedes di Anthony Quinn.
Papà, che faceva l’ingegnere, aveva conosciuto, non so come, il produttore cinematografico Alfredo Bini, marito della splendida attrice Rosanna Schiaffino. Avevano anche fatto una piccola società insieme, dando vita al cosiddetto Teatro di Mezzanotte, prendendo in gestione i locali del cinema Jolly di via Bari, ma solo dopo le ore ventiquattro, quando la gente, dopo la cena e le chiacchiere in via Veneto, avrebbe potuto terminare la serata con uno spettacolo teatrale. L’idea non era male, anzi ancora oggi a me sembra piuttosto brillante, ma funzionò solo in parte, per una certa ritrosia dell’epoca alle novità teatrali e agli spostamenti di orari. Comunque, frequentando Bini, i miei genitori conobbero svariata altra gente del cinema, tra cui Virna Lisi, Domenico Modugno, Ugo Tognazzi, Franca Bettoja e anche Alberto Sordi.
Albertone era già molto famoso, aveva girato grandissimi film e lavorato praticamente con quasi tutti i più famosi registi dell’epoca, da Fellini a Monicelli, da Dino Risi a Luigi Comencini. Dal 1958 aveva abbandonato il suo appartamento di via dei Pettinari per andare a vivere in una grande villa, in via Druso, ai confini delle Terme di Caracalla, insieme alle sue due sorelle, Savina e Aurelia, entrambe zitelle, le uniche persone al mondo di cui si fidava veramente. C’erano in casa anche il fratello Giuseppe e l’onnipresente segretaria Annunziata che aveva il compito di sbrigare tutti gli appuntamenti e di occuparsi delle pratiche più seccanti.
I miei erano spesso ospiti in questa casa. Li invitava, insieme ad altri amici, a vedere i suoi film appena usciti nel piccolo, ma perfetto cinematografo privato che si era fatto costruire nel piano interrato.
“Allora, che ne pensate?”, chiese loro al termine della proiezione di Fumo di Londra, il primo film che aveva girato come regista.
“Ti posso dire una cosa, Alberto?”, disse mia madre.
“Dimmi pure, mia cara Nina”, rispose lui.
“Be’, se proprio te la devo dire tutta, visto che ce l’hai chiesto, per me sei meglio quando dietro la macchina da presa ci sta qualcun altro. Come regista, invece, sei insomma”.
“Insomma?”.
“E sì, Albè. Insomma”, confermò mia madre, senza alcuna pietà.
E aveva ragione. Il Sordi regista non riuscì mai neanche ad avvicinare la bravura del Sordi attore e, film dopo film, andò incontro a risultati sempre peggiori, su cui i suoi grandi fans riuscivano a passare sopra comunque, vista la sua mitica grandezza da interprete.
Qualche volta i miei riuscivano a stanarlo dalla sua villa bunker e lo portavano da noi, per qualche festa danzante o soltanto per due chiacchiere tra amici. E una sera, svegliato da una risata e da un vocione profondo che mi sembrava di conoscere molto bene, mi alzai dal letto e, con il mio bel pigiamino di flanella, andai a piedi scalzi fino in salotto dove trovai lui che teneva banco con qualcuno dei suoi aneddoti di vita e di lavoro.
“E tu chi sei, giovanotto?”, mi domandò. Poi costrinse mio padre a mettere sul giradischi un 45 giri che lui gli aveva appena regalato. Il titolo della canzone era You never told me, cantato da una certa Julie Rogers proprio per il suo film Fumo di Londra. Era molto bella quella canzone. La musica era di Piero Piccioni, suo grande amico e collaboratore.
“Che ne pensi, giovanò?”, mi domandò ancora.
“È bella. Ma non capisco le parole”.
“Manco io – rispose lui – infatti ne ho appena scritto una versione in italiano. E lo sai chi la canterà? Mina. Che ne dici?”.
“Dico che è mejo”, risposi io.
“Io pure dico che è mejo”.
“Ma il film com’è?”, domandai ancora io che, nel frattempo, mi ero fatto coraggio.
Lui non rispose subito. Guardò per un istante mia madre negli occhi.
“Chiedilo a mamma tua com’è il film”, rispose poi, scuotendo un po’ la testa.