L’Italia torna ad invadere l’America di sapori, profumi, tradizione e innovazione. Sono tantissime le aziende italiane che partecipano quest’anno al Summer Fancy Food, l’evento di specialità gastronomiche più grande del Nord America che ogni inizio estate porta al Javits Center di New York migliaia di aziende dell’alimentare da tutto il mondo.
L’Italia, anche quest’anno, si presenta in grande. Non soltanto è la nazione con l’area espositiva più estesa (oltre 2.400 metri quadrati) che raccoglie più di 300 aziende, ma è anche paese partner della fiera stessa: per la prima volta nella storia del Fancy Food, iniziata con la prima edizione del 1955, la Specialty Food Association, organizzatore della manifestazione, ha coinvolto direttamente una nazione come partner. “La scelta è ricaduta sull’Italia che da sempre è il paese con la presenza più grande al Fancy Food” ci dice Donato Cinelli della Universal Marketing, agenzia che organizza e promuove l’area italiana al Fancy Food in collaborazione con l’Italian Trade Agency – ICE.
Donato Cinelli della Universal Marketing eMaurizio Forte, direttore dell’ICE tagliano il nastro del padiglione italiano al Fancy Food
In un momento in cui l’America sembra sempre più scoprire che la salute passa prima di tutto dal piatto, la cucina italiana ha una chance in più di farsi notare ma allo stesso tempo entra in un campo affollato di aziende dal marketing aggressivo. “L’Italia è sempre stata competitiva nel campo dell’alimentazione salutare – commenta a La VOCE Maurizio Forte, nuovo direttore dell’ICE – Anche la nostra industria è naturalmente portata, per tradizione, ad una certa attenzione verso gli ingredienti, i processi produttivi, la provenienza territoriale: le nostra aziende da sempre limitano al minimo conservanti, additivi, ogm. Ora questa sta diventando una tendenza negli USA e i prodotti italiani sono in linea con questa tendenza. Ma l’Italia vive una sorta di paradosso: se è vero che tutti gli americani includono prodotti e cucina italiani tra le proprie scelte perché li riconoscono come buoni e gratificanti dal punto di vista del gusto, da ricerche da noi condotte, risulta che invece non tutti gli americani, anzi ancora troppo pochi, riconoscono il cibo italiano come cibo anche salutare. Quando invece la dieta mediterranea è un patrimonio, addirittura tutelato dall’UNESCO, di cui l’Italia è il primo rappresentante”.
La dieta mediterranea non si batte in quanto a equilibrio, salute e valore nutrizionale, ma vaglielo a spiegare agli americani fissati col biologico, la paleodieta e il gluten/diary/fat/chipiùnehapiùnemetta-free. Correggere questa percezione è compito delle aziende italiane che vendono all’estero e delle istituzioni che le rappresentano: “Credo ci sia stato un nostro difetto di comunicazione. Proprio per questo motivo dall’autunno in poi avvieremo una serie di campagne promozionali in cui punteremo molto su questi aspetti”.
Naturalmente sano
Lo stand della De Cecco. Sulla destra, Marco Auriti, sales manager food service. Foto: Gabrielle Grudza
Sia per le piccole aziende che per quelle più grandi la sfida è quindi quella di far capire che la cucina italiana non è solo buona ma fa anche bene. Ci provano quelli della De Cecco, l’azienda abruzzese della pasta che in America ha una presenza più che consolidata. Ci spiega Marco Auriti, sales manager food service, che la sua azienda, che negli Stati Uniti esporta un prodotto identico, anche nel packaging, a quello che produce per l’Italia, è costantemente alla ricerca di nuovi modi per comunicare ai clienti americani la naturalità del prodotto. “A volte non è facile spiegare in Italia che gli americani sono interessati a questi aspetti e vogliono vedere queste informazioni sul packaging – dice Auriti – Poi è vero che ci sono anche tante mode e convinzioni che non riflettono dei valori reali: per esempio la convinzione che la pasta integrale faccia dimagrire o la tendenza a comprare prodotti biologici. Le nostre materie prime sono comunque tutte di alta qualità e naturalmente ogm free”. La cucina italiana, insomma, non ha bisogno di sforzarsi troppo per incontrare gusti e tendenze: “La cucina italiana è già adeguata alle mode alimentari di questi anni: sono le mode che calzano a pennello i prodotti italiani e non i prodotti italiani che si adeguano alle mode”. Per espandere la conoscenza del pubblico americano rispetto a un prodotto simbolo dell’Italia, tanto amato quanto spesso tradito e contaminato, De Cecco sta ora iniziando a diffondere negli Stati Uniti formati di pasta regionali per offrire un’esperienza ancora più autentica.
Punta tutto sull’autenticità, dando per implicito che autentico significhi anche salutare, il consorzio Legends from Europe che riunisce all’interno di un progetto finanziato con fondi europei, quattro marchi dell’eccellenza italiana: Prosciutto di San Daniele, Grana Padano, Prosciutto di Parma e Montasio. Il loro stand al Fancy food è tutto un affettare prosciutti e formaggi e tutto un affollarsi di americani che finalmente, ci spiega Jason Stemm, vice presidente della Padilla Act che si occupa del marketing del gruppo, sanno riconoscere la differenza tra ham e prosciutto, tanto che il termine inglese non è più utilizzato per definire le varietà italiane di crudo.
La guerra del parmigiano
Il team di Parmigiano Reggiano: la terza da sinistra è Nancy Radke. Foto: Gabrielle Grudza
E tuttavia anche quando i marchi sono riconoscibili e per definizione legati a un territorio specifico, non è facile emergere in un contesto in cui tante aziende sbattono il tricolore sulle confezioni di prodotti che con l’Italia non hanno nulla a che fare: né provenienza, né gusto, né qualità. È il noto fenomeno dell’Italian sounding di cui vittima d’elezione è da sempre il Parmigiano Reggiano che da anni combatte per preservare il proprio nome dagli attacchi dei vari Parmesan, Parmella, Parmazano e via dicendo. Ne sa qualcosa Nancy Radke che per anni ha rappresentato il consorzio Parmigiano Reggiano negli USA: “Abbiamo fatto registrare il marchio Parmigiano Reggiano negli anni ’90: ero personalmente convinta della necessità di farlo registrare per tutelarci dalle tante imitazioni. Abbiamo fatto la nostra prima causa nel 1994 e abbiamo chiuso l’ultima nel 2002: si trattava sempre di aziende che volevano sostituire la parola parmesan con quella parmigiano. Purtroppo quando abbiamo fatto registrare il marchio non c’era più niente che potessimo fare per parmesan che comunque era e resta una denominazione ingannevole perché fa riferimento a uno specifico territorio italiano con cui quei formaggi non hanno nulla a che fare”.
Sul banco degli imputati c’è in particolare il famoso barattolino verde della kraft, onnipresente nei supermercati americani, che presenta come parmesan una miscela di formaggio grattugiato (e altri ingredienti tra cui la polvere di cellulosa) di cui gli americani spolverano generosamente pasta, pizza e molto altro pensando che quello sia, appunto, parmigiano. Radke ha un interessante punto di vista sul come e il perché i prodotti italiani siano rimasti vittima di tali atrocità: “Prima della Seconda guerra mondiale gli americani sapevano perfettamente che il parmigiano era un formaggio italiano che veniva importato negli USA. Non esisteva una produzione domestica. Poi, quando per via della guerra, il commercio tra USA e Italia si è interrotto e per sopperire alla mancanza dei prodotti italiani sono state avviate delle produzioni interne, c’è stata una dimenticanza collettiva delle origini e dei nomi di quei prodotti. Dopo la guerra, l’industria italiana era distrutta e ci sono voluti quarant’anni perché riuscisse a esportare di nuovo all’estero. Nel frattempo gli americani avevano abbracciato la cucina italoamericana e le imitazioni dei prodotti italiani. Solo negli anni ’80 è ripreso un processo di ri-familiarizzazione ed educazione dei consumatori”.
La pazzia del risotto
Allo stand di Riso Melotti, Alberto Pomello, general manager Risotteria Melotti e Gianmaria Melotti, della famiglia proprietaria dell’azienda. Foto: Gabrielle Grudza
Se per alcuni marchi e prodotti di lunga tradizione e ampia fama il processo di riappropriazione dell’identità è fatto di marketing e cause legali (molto costose, come ci ha confermato Nancy Radke), per aziende più piccole e per prodotti meno noti il terreno è ancora da seminare. Se, infatti, alcuni prodotti sono identificati immediatamente come italiani e per questo riconosciuti e apprezzati, altri devono ancora farsi conoscere. La chiave è l’educazione. La pensa così Gianmaria Melotti di Riso Melotti, un’azienda che sta cercando, anche attraverso la sua risotteria nell’East Village, di far conoscere e apprezzare il risotto negli USA: “Quando uno pensa all’Italia pensa alla pasta e non al riso, ma il risotto è un piatto italianissimo, è un piatto simbolo ed è nato in Italia. Il nostro sogno, o forse la nostra pazzia, è di far esplodere la moda del risotto e di farlo arrivare ad essere famoso quanto la pasta e la pizza. È un piatto sano, naturalmente gluten free e questi sono tutti elementi che noi vogliamo comunicare ai consumatori americani. Ma il primo messaggio con cui ci presentiamo è l’Italia: questo è un prodotto italiano ed è la cucina italiana stessa ad essere sana e di qualità. Per far passare queste idee è necessario educare il consumatore americano: la cosa positiva è che l’americano si lascia educare volentieri, è curioso e attento”. E come spesso avviene con le aziende italiane, la strategia di comunicazione è nello stesso DNA dell’azienda : “Non siamo sicuramente un prodotto industriale. Siamo un’azienda agricola che segue tutti gli step, dalla semina alla vendita. Ci mettiamo la faccia e abbiamo una storia: dietro il nostro prodotto c’è una famiglia che da sempre mette passione in quello che fa. Quando presentiamo i nostri prodotti spieghiamo che il risotto è un piatto tradizionale e raccontiamo la storia della nostra famiglia”.
Tutte le sfumature delle bollicine
Lo stand di Zonin propone in assaggio i tra nuovi spumanti tagliati con pinot grigio, bianco e nero. A destra: Paolo Dal Gallo, accounts manager
Un’altra azienda che ci tiene a legare la propria identità a quella della famiglia di cui porta il nome è Zonin che, ormai marchio largamente diffuso negli USA dove nel 2014 ha registrato un fatturato di 70 milioni di dollari, rappresenta orgogliosamente l’Italia con uno slogan che potrebbe raccontare tante delle aziende italiane presenti al Fancy Food: innovazione nella tradizione. Allo stand di Zonin bisogna farsi largo tra la folla che si ammassa intorno ai cestelli in cui stanno al fresco le bottiglie di spumante in degustazione: sono i tre nuovi nati della casa vinicola vicentina, presentati proprio in occasione del Fancy Food di New York. “È una nuova linea – ci spiega Paolo Dal Gallo, prestigious account manager New York – fatta di tre spumanti, ognuno con un 15 per cento di una di tre uve diverse: pinot nero, grigio e bianco, ognuno presentato in una bottiglia del corrispondente colore. Lo stiamo facendo assaggiare qui in fiera e la gente lo sta apprezzando molto: dicono che ha un gusto più complesso rispetto al prosecco tradizionale e che è piacevole anche bevuto da solo, come aperitivo, senza bisogno di accompagnarlo a un pasto”. Per Zonin, che ha l’arduo compito di rappresentare un prodotto italiano che spesso viene erroneamente paragonato allo champagne, l’elemento distintivo sta nella qualità: “Secondo il nostro presidente – dice ancora Dal Gallo – la qualità è la chiave del successo e quando si presentano dei prodotti di qualità la distribuzione e il prezzo diventano elementi secondari. Tutte le nostre aziende hanno un agronomo e un enologo e il processo produttivo è seguito con attenzione in tutte le sue fasi”.
La carica dei piccoli
La 500 decorata con i motivi dei carretti siciliani ├¿ il simbolo dell’azienda Agromonte. Foto: Gabrielle Grudza
Oltre ai colossi ormai ben sedimentati sul mercato USA, al Fancy Food l’area italiana pullula anche di piccole e giovani aziende, alcune delle quali sono riuscite in brevissimo tempo a farsi conoscere a amare dai consumatori americani. Ne è un esempio la siciliana Agromonte che, nata nel 2002, già vende la sua salsa di pomodori ciliegini e le sue composte di verdure in grandi catene di supermercati come Fairway. Ad attirare i visitatori intorno allo stand dell’azienda non solo solo i crostini con salse di carciofi, pomodori secchi, olive, peperoni e pesti preparati con ricette tradizionali siciliani, ma anche una coloratissima Fiat 500 decorata con i motivi e i colori dei carretti siciliani. “È il nostro simbolo – ci spiega Simona Tagliarini, export manager dell’azienda – perché come la 500 rappresenta il boom italiano degli anni ’60, la nostra azienda, con 200 dipendenti in provincia di Ragusa, rappresenta il boom di una nuova categoria merceologica siciliana. Rappresentiamo la sicilianità autentica attraverso un prodotto moderno che è molto apprezzato dalle nuove generazioni ma che di fatto non fa altro che riprendere le vecchie abitudini culinarie di una volta”.
La giovane azienda abruzzese Ursini produce olio extravergine d’oliva e conserve di verdure. A sinistra: Martina Ursini. Foto: Gabrielle Grudza
Muove invece i primi passi in America un’azienda abruzzese dell’olio, alla sua prima volta al Fancy Food, ma decisa a non farsi sfuggire le occasioni che il mercato americano rappresenta. Ursini produce olio extravergine d’oliva e conserve di verdure con una forte componente di artigianalità. Ce lo spiega Martina Ursini: “Noi abbiamo una vera e propria cucina in azienda, dove ci sono delle signore che cucinano e preparano le conserve. Tutti i prodotti che usiamo sono locali, a parte alcune specialità che non ci sono sul territorio abruzzese. Le ricette sono uniche e sono sviluppate dagli chef della scuola di Villa Santa Maria, una delle più prestigiose d’Italia”. I prodotti e gli oli di Ursini al momento sono in vendita da Eataly dove sembra che riscontrino il favore dei consumatori, soprattutto per l’ottimo rapporto qualità prezzo.
L’unione fa la forza
Ursini e Agromonte sono due esempi di coraggio imprenditoriale, ma i casi di piccole aziende che si lanciano alla conquista degli Stati Uniti non sono poi così tanti, dal momento che spese e rischi sono elevati. Per questo c’è chi pensa che per le piccole aziende possa essere utile riunirsi sotto il cappello di un marchio più grande e consolidato. Questa è la filosofia con cui Granarolo inizia ad affacciarsi al mercato USA. Fabio Fanetti, business development manager, ci spiega che l’azienda non ha ancora una presenza considerevole negli Stati Uniti ma ha intenzione di cambiare presto le cose: “Negli ultimi tre anni Granarolo ha messo sotto il suo ombrello diverse aziende produttrici di di eccellenze italiane fino a diventare l’unica azienda che può offrire un così ampio range di formaggi a pasta dura. In questo modo diventiamo un interlocutore interessante per questa categoria e possiamo fare quello che le piccole aziende singole non riescono a fare. Infatti non si tratta semplicemente di mettere i prodotti sugli scafali, ma di istruire il consumatore su quei prodotti: ogni azienda è portatrice della storia di quel prodotto e del suo territorio. Cerchiamo di trasmettere questi contenuti ai consumatori attraverso comunicazioni nel punto vendita, degustazioni e materiale informativo che proponga anche ricette che siano in linea con i gusti e le tradizioni del paese in cui ci presentiamo: puntiamo sul made in Italy ma inserendolo in un contesto locale”.
I visitatori sembrano gradire il formaggio italiano in degustazione allo stand di Granarolo. Foto: Gabrielle Grudza
L’obiettivo è di allargare l’uso dei formaggi rappresentati da Granarolo e allargare l’azienda stessa che, entro fine anno, spera di poter aprire una filiale negli USA. E intanto testa il terreno facendo assaggiare cubetti di formaggi dai sapori tipicamente italiani ai visitatori del Fancy Food che sembrano decisamente apprezzare, come apprezzano un po’ tutto quello che c’è di italiano in questa variopinta festa del palato. Il settore italiano è affollato e i visitatori girano tra uno stand e l’altro alternando a mormorii di piacere esclamazioni di felice riconoscimento davanti ai vari “proshuto”, “mozarela”, “ricota”, “brusceta” e “nioki”. Come ci dice John, chef arrivato dal New Jersey per vedere le novità al Fancy Food, “in Italia tutto è delizioso, anche la cosa più semplice”, mentre sua moglie commenta tra un fetta di prosciutto e l’altro: “Italians do it better”.
Fuori salone
Gli speciali cocktail a base di tartufo offerti da Urbani
Usciti dal Fancy Food c’è ancora tutto un mondo di eventi e bontà italiane. Quest’anno, infatti, il Fancy Food si presenta come Fancy Food Week, con una serie di eventi “fuori salone” che celebrano il gusto e la nutrizione. L’evento più mondano, quello offerto da Urbani Tartufi che lunedì sera ha presentato i suoi prodotti in associazione con riso (Melotti), arancini (della Arancini Bros. Di Brooklyn), formaggi e caviale rigorosamente allevato in Italia (Calvisius Caviar), accompagnati da originali cocktail a base di tartufo. Olga Urbani ci ha raccontato che l’azienda quest’anno ha un motivo in più per celebrare: “Siamo finalmente riusciti a produrre il vero olio al tartufo: non fatto con l’aroma di tartufo, ma con veri pezzi di tartufo. È un brevetto e siamo gli unici a farlo. Ci sono voluti 15 anni, tanti soldi spesi e lunghi studi in collaborazione con università e centri di ricerca. Ma siamo soddisfattissimi, perché vogliamo che il nome Urbani sia associato a un prodotto vero. Per questo lo abbiamo chiamato Unico. Lo abbiamo lanciato qui a New York ma lo venderemo presto in tutto il mondo e vogliamo venderlo al prezzo dell’altro olio, quello fatto con aromi. Eataly sarà il primo ad averlo perché nei suoi negozi finora non aveva mai voluto vendere l’olio al tartufo proprio perché fatto con aromi: ora c’è un vero e proprio olio al tartufo”. Un altro esempio di innovazione nella tradizione, tutto made in Italy.