Si è chiusa il 12 ottobre la 52ª edizone del New York Film Festival: 16 giorni di proiezioni, conferenze stampa, conversazioni e master class di autori, attori, produttori e registi.
Un festival senza concorso né sezioni competitive, questo che si tiene ogni anno al Lincoln Center ha dimostrato ancora una volta di essere un appuntamento culturale fondamentale a New York, programmando film e documentari fra i più interessanti sul piano internazionale e portando in città attori e registi in un'atmosfera rilassata e informale, creando numerose occasioni di incontro tra ospiti e pubblico, occasioni per saperne di più sul film, dalla produzione alle riprese, oltre a qualche immancabile pettegolezzo e curiosità. Registi di successo, autori impegnati, star, scrittori, divi e eterni caratteristi, tutti disponibili a raccontare, rispondere alle domande, scambiare battute, dedicando tempo e attenzione a stampa e pubblico, cosa non consueta ai grandi festival.
Ed è proprio questo forse uno degli aspetti più interessanti di questo festival.
Attesissimo e applauditissimo il film di apertura del festival, Gone Girl (nelle sale in questi giorni) di David Fincher, un thriller d'amore, segreti e tradimento, tratto dal best seller di Gillian Flynn, con un impeccabile Ben Affleck – personaggio e interpretazione migliori del film – disponibile e brillante nell'incontro con stampa e pubblico, accanto a un'inglesissima (un po' fuori parte, sia nel film che nella situazione) Rosemund Pike e a un David Fincher misterioso ed estremamente parco di risposte. Attesissimo e applauditissimo anche il film di chiusura, Birdman or The Unexpected Virtue of Ignorance di Alejandro G. Inarritu, un'entusiasmante black comedy che arriva nelle sale americane il 17 ottobre. Alla conferenza stampa, era presente il cast al completo, da Michael Keaton a Edward Norton a Naomi Watts a Zach Galifianakis, per citarne solo alcuni.
L'altro titolo importante e atteso presentato quest'anno è stato Inherent Vice, di Paul Thomas Anderson, una detective story strampalata, ambientata nel 1970 (meravigliosi i costumi e la colonna sonora, sempre perfetta nei film di Anderson), con un Joaquin Phoenix che qui dimostra, ancora una volta, di essere con ogni probabilità il migliore tra i giovani attori del momento. Il personaggio ricorda un po' (troppo forse) l'indimenticabile Big Lebowski/Jeff Bridges dei fratelli Coen, ma visto il meraviglioso termine di paragone lo si può perdonare, sia a Joaquin Phoenix che a Paul Thomas Anderson. Il film uscirà negli Stati Uniti il 9 gennaio. Altra presenza importante al festival è stata quella di Richard Gere, interprete dell'ottimo film di Oren Moverman Time Out of Mind, sicuramente tra i più amati di questa edizione, insieme all'applauditissimo Foxcatcher di Bennett Miller. Quello di Moverman è un film intimo, minimo, poco parlato e osservato da lontano, sulle giornate, e le notti, di un homeless a New York. Gere si è immerso nella vita di strada della metropoli, ed è lui che al festival racconta, spiega ragioni, situazioni, apre la porta verso un mondo di emarginazione e sofferenza a cui la città continua a rimanere troppo indifferente. Gere è un attore impegnato, di spessore spirituale, lontanissimo da quell'American Gigolo (ruolo avuto quasi per caso) che gli aveva dato il successo. Ma tra i giornalisti non manca chi gli chiede di fare, tra il gigolò di allora e l'homeless attempato di adesso, un improbabile paragone…
Ottima la selezione di documentari: tra i più belli si segnalano Iris, l'ultimo lavoro del grande Albert Maysles, un esuberante ritratto di Iris Apfel; il potente The Look of Silence di Joshua Oppenheimer, sui massacri nell'Indonesia negli anni Sessanta, i cui mandanti sono ancora oggi al potere; e Seymour: An Introduction di Ethan Hawke, un'opera prima personale in cui l'incontro e il confronto tra il pianista newyorchese, ormai anziano, Seymour Bernstein e Hawke è in sé interessante: un momento di passaggio nella vita artistica dell'attore e la chiave, semplice eppure così difficile, trovata negli anni da Bernstein per vivere al meglio vita e carriera, secondo le proprie inclinazioni, e con tanto lavoro.
I film di produzione o argomento italiano hanno suscitato attenzione da parte del pubblico del New York Film Festival, e apprezzamenti alterni. Un ottimo riscontro per Le meraviglie di Alice Rohrwacher, molta curiosità per Incompresa di Asia Argento, e reazioni decisamente contrastanti per Pasolini di Abel Ferrara (interpretato da un somigliantissimo Willem Dafoe). Chi conosce il cinema di Ferrara sa che il regista newyorchese non avrebbe mai potuto raccontare Pier Paolo Pasolini in altra chiave, e in altro modo, se non questo. Certo, per noi italiani il ritratto che fa di Pier Paolo Pasolini è sicuramente riduttivo, il ruolo fondamentale che ha avuto nella società e nella cultura italiana è appena accennato, e anche la scelta delle citazioni, dei brani di saggi, romanzi, articoli, pensieri, non è stata forse la più giusta. Insomma, su quel fronte anche Ferrara (e con lui i suoi consulenti) poteva fare di meglio. Ma è lo sguardo personale di un autore controverso e sopra le righe, che cerca di raccontare al pubblico americano (e internazionale) almeno una parte di quello che è stato e che ha significato nella storia recente italiana Pier Paolo Pasolini. Pochi tra il pubblico sapevano chi è Pasolini, molti invece tra i giornalisti lo conoscevano, ma di lui sapevano pochino… E Pasolini è stato uno dei film più visti a questa edizione del New York Film Festival.
Per chi non avesse potuto seguire il festival, la speranza è di vedere presto il maggior numero di film possibile nelle sale americane, mentre le conversazioni e i panel con alcuni dei registi, degli autori e degli attori presenti al festival si possono vedere e ascoltare sul sito del NYFF.