Per avere un’idea di quanto zelo il regime fascista abbia impegnato in meschine crociate come quella in favore del “voi”, basta rivedere le caricature e i disegni della Mostra anti-Lei organizzata nel 1939 dal gerarca fascista Achille Starace, con la convinzione che l’ironia, tutta d’intonazione funerea, fosse il mezzo più idoneo per denunciare atteggiamenti e forme tipici della mentalità borghese. E l'uso del "lei", in forma allocutiva era stato messo al bando perché considerato straniero, femmineo, sgrammaticato, nato in tempi di schiavitù. Il pittore e romanziere Alberto Savino arrivò ad affermare addirittura che il “lei” era un mezzo linguistico usato da chi aveva qualcosa da nascondere. “Sia pace all'anima del lei”, esclamò la giovane Elsa Morante.
In un clima di delirio nazionalistico la rivista di attualità femminile, Lei, fu costretta a cambiare il nome in Annabella, anche se, in questo caso, il riferimento era diretto alla donna. Mentre c’era chi, come Totò, incurante di eventuali e temute rappresaglie, costruì una gag su Galileo Galilei trasformato in Galileo Galivoi, o chi, come Benedetto Croce, con amore del paradosso, passò per polemica al “lei” dopo esser rimasto sempre fedele al tipico “voi” napoletano.
La guerra dei pronomi rientrava nell’esperimento, durato vent’anni, tentato dal regime fascista per disciplinare l’intero repertorio linguistico italiano, al fine di recuperare “la purezza dell’idioma patrio”, come disse da Mussolini in un discorso del 1931. Una storia poco conosciuta che viene adesso raccontata nel documentario dell’Istituto Luce presentato a Venezia 71, Me ne Frego! Il fascismo e la lingua italiana a cura della linguista Valeria Della Valle e del regista Vanni Gandolfo. “L’idea di ricostruire per immagini le varie tappe della bonifica linguistica del fascismo mi è venuta quando mi sono resa conto, durante i miei corsi all’università, che le nuove generazioni sono totalmente all’oscuro di alcune iniziative del regime fascista, esemplari di un certo modo di intromettersi della vita sociale e persino nelle abitudini e nei costumi degli italiani”, rivela Della Valle, docente di Linguistica italiana all'Università La Sapienza di Roma.
Una carrellata di filmati e immagini d'epoca, molti inediti, ripercorrono così la campagna linguistica condotta dal fascismo contro gli esotismi, ritenuti lesivi dell’identità e del prestigio nazionali, avviata con l’introduzione di una tassa sulle insegne straniere l’11 febbraio 1923 e perseguita con accanimento attraverso una capillare propaganda intimidatoria che coinvolse la scuola, la radio e la stampa. Il quotidiano La Tribuna, nel 1932, bandì un concorso per sostituire 50 parole straniere, fra il 1932 e il 1933; il famoso scrittore Paolo Monelli tenne una rubrica sulla Gazzetta del Popolo chiamata Una parola al giorno, dove sceglieva una parola straniera e dimostrava che esisteva quasi sempre una parola italiana da proporre in sostituzione (che poi raccolse in un libro, Barbaro dominio).
Nel 1940, in un clima di crescente xenofobia e di caccia ai forestierismi, l’Accademia dei Lincei (allora Accademia d’Italia) nominò una commissione col compito di esaminare i singoli termini stranieri, e di proporne l’accettazione, l’adattamento o la sostituzione. Fra i linguisti maggiormente accreditati, Bruno Migliorini, introdusse nella lingua italiana alcune parole destinate a restarci per sempre, come “regista” al posto di “régisseur” e “autista” per “chauffeur”. Per “film” venne adottata la parola “pellicola”, per apache “teppista”, per claxon “tromba o sirena”, “primato” per record, “slancio” per “swing” e negli alberghi i “menu” divennero “liste”.
“Ma in molti casi furono scovate soluzioni davvero stravaganti”, aggiunge Della Valle. Il colore bordeaux divenne “color barolo”, il tessuto principe di Galles fu semplicemente “il tessuto principe”, e termini come insalata russa e chiave inglese, in quanto evocatori di nazioni nemiche, diventarono “insalata tricolore” e “chiavemorsa”. Nel cinema anche allo scopo di censurare ed adattare i film stranieri, si proibì il doppiaggio all'estero. Per doppiare i film americani, francesi, tedeschi, furono chiamati attori di teatro.
Un tentativo che alla fine si rivelò goffo e autoritario, anziché credibile ed autorevole in quanto si scontrava con la realtà di un paese caratterizzato da bilinguismo e plurilinguismo, considerando le molte comunità alloglotte, dove l’uso del codice dialettale era adottato da ampi strati della popolazione negli scambi comunicativi quotidiani. “Un esperimento che non ha portato ad alcun risultato pratico – ha concluso la linguista – la questione dell’alfabetizzazione degli italiani non è stata risolta, le parole straniere non solo sono rimaste ma addirittura dopo la fine della guerra, con la fortissima influenza della lingua inglese, c’è stato un eccesso di gusto nell’usare anche parole inutili, come 'trend' in luogo di 'tendenza'. Ma con quel precedente è stato inevitabile”.
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