Le migrazioni rappresentano un dato costante della storia del genere umano, anche se di volta in volta cambiano di segno e assumono caratteri specifici. Per limitarsi all'occidente atlantico, intere popolazioni, come quelle dell'America settentrionale o centro-meridionale, si sono costruite, nel corso di secoli, in seguito al trasferimento volontario o forzato di masse di migranti che provenivano dall'Europa e dall'Africa. Dall'Ottocento, metropoli come Londra registrano la presenza di russi e polacchi, asiatici e africani. New York nasce con i caratteri del melting pot.
La complessità del fenomeno non ha bisogno di essere sottolineata. Basti ricordare come spesso l’abbandono del proprio paese sia la conseguenza di condizioni di grave necessità, guerre tra stati, guerre civili, persecuzioni etniche e politiche, congiunture economiche sfavorevoli. Ma come, non di meno, la migrazione sia anche la scelta di chi reagisce alle evenienze negative, ha le risorse mentali necessarie per fuggire, sceglie di tentare la sorte, cerca un futuro migliore. Un misto di necessità e di volontà, di masse perseguitate e di élite reattive, di umiliazioni e di sfide, che rende il popolo dei migranti diverso da qualunque popolazione sedentaria.
Naturalmente, i trasferimenti di popolazione coinvolgono in modo intenso i punti di arrivo, che sono spesso le città europee, americane, australiane, mediorientali, orientali. Da tempi più o meno storici, le enclave etniche costituiscono una realtà imprescindibile di metropoli come Londra e New York, Mosca e Berlino, Milano e Melbourne, Mumbai e Abu Dhabi. E significano ricchezza materiale e culturale. Lavoro, consumi, entrate fiscali, eccetera. E poi modi di vita specifici, linguaggi, modelli familiari, sistemi relazionali, religioni e pratiche di culto, valori politici, cibi e ricette. Anche in paesi come l'Italia, che sono stati toccati piuttosto recentemente da simili processi, l'opinione pubblica si sta familiarizzando con una fenomenologia della diversità che, pochi decenni orsono, avrebbe potuto conoscere soltanto attraverso la letteratura, il cinema o la televisione. E, grazie alla frequentazione dei nuovi vicini che vengono da lontano, inizia a superare il gap dell’etnocentrismo. Il multiculturalismo promette di diventare moneta corrente.
Naturalmente, l’inserimento dei migranti nel nostro mondo -questo grande processo che fa delle storiche città occidentali vere e proprie “città in movimento”- non è privo di problemi. Spesso le enclave sono viste con sospetto, lette nello specchio deformante del pregiudizio, isolate dal resto del tessuto urbano. Diventano facile materiale propagandistico per xenofobie e partiti xenofobi. Sono additate come la causa indiscussa della disoccupazione delle popolazioni residenti, dell’aumento della criminalità comune, degli episodi di terrorismo. E determinano, magari, nelle comunità dei migranti, reazioni simmetriche di chiusura etnocentrica e di ostilità verso le città che le ospitano. La storia recente europea e americana conosce, su questi temi, momenti di scontro violento tra nuove etnie, residenti e forze dell’ordine.
Oltre che delicate questioni di governance, del resto, il fenomeno pone problemi legali altrettanto difficili. Nel merito delle norme di accoglienza o del respingimento dei clandestini, dei permessi di lavoro, dell'accesso alla cittadinanza e insomma dei diritti e doveri che i paesi occidentali riconoscono ai migranti, la strada appare ancora lunga e controversa. In tutte le aree che hanno a che fare con il fenomeno. Non esiste paese europeo o extraeuropeo dove il rapporto formale tra migranti e popolazioni residenti sia stato risolto senza dibattiti pubblici aspri, divisioni politiche o, talvolta, referendum popolari.
D’altronde sarebbe astratto non riconoscere l’ambiguità fisiologica di simili problematiche. Per i ricchi paesi occidentali, accogliere i migranti e legittimarne la presenza nelle “città in movimento” appare un obbligo morale e, prima ancora, un’imprescindibile utilità materiale. Al tempo stesso, soprattutto in congiunture di grave crisi come quella odierna, è fin troppo prevedibile che i migranti possano essere visti -da un'opinione pubblica particolarmente insicura- alla stregua di competitori economici difficili da battere. O addirittura come una minaccia alla propria identità e alla propria stessa dominanza demografica. Fantasmi di fronte ai quali spesso la paura fa aggio sulla razionalità.
Negli ultimi anni, per altro, grazie alla maggiore diffusione e velocità dei mezzi di comunicazione e all’utilizzo della grande rete telematica, i migranti appaiono in grado di restare in contatto con i propri contesti di provenienza assai più che nel passato, finendo per vivere a cavallo tra più mondi, quello originario e quello di arrivo. Diventano cioè presenze transnazionali, in grado di proporre fenomeni di dialogo e di trasferimento culturale tra realtà fisicamente lontane o molto lontane tra loro. Il che ne fa preziose risorse connettive e, al tempo stesso, pone il non facile problema del rapporto tra le storiche culture nazionali dell’Europa europeo e le nuove opportunità transnazionali.
Sono questi alcuni dei temi che -attraverso dibattiti, conferenze, reading, mostre, eventi teatrali- il programma del Forum Universale delle Culture dedicato alle “Città in movimento” porta all’attenzione degli specialisti, ma propone -anche e soprattutto- a un pubblico non specialistico. Ne parleranno storici, demografi, giuristi, scienziati sociali, filosofi, scrittori, opinionisti provenienti da ogni parte del mondo. Nè mancheranno, negli eventi previsti dal 3 all’11 maggio 2014, i protagonisti balcanici, mediorientali, srilankesi, caraibici, africani, eccetera della grande migrazione contemporanea. Un’occasione per ragionare su fenomeni che ci toccano personalmente e sono destinati a crescere nel prossimo futuro.
*Università degli Studi di Napoli Federico II