Lesya Kalynska vive a New York da oltre dieci anni. Dopo aver studiato regia e sceneggiatura alla NYU, ha diretto e prodotto film e documentari che hanno ottenuto riconoscimenti prestigiosi a festival come il Sundance e il Tribeca. Nel novembre del 2013 ha deciso di tornare a Kiev “per riprendere quello che stava succedendo a Maidan: un movimento di giovani che chiedeva un'Ucraina libera e democratica”. Leysa è rimasta a Maidan per quattro mesi e mezzo, e quello che doveva essere un breve reportage è ben presto diventato qualcosa di più grande: un progetto multimediale, a cui collaborano filmmaker (Nastia Lysenko, Taras Tomenko, Anna Borysova, Nikon Romanchenko) e artisti (fra cui il fotografo Serhii Mykhalchuk e lo scultore Oles Dzyndra), che racconta Maidan attraverso diverse forme d'arte e di comunicazione. O meglio, racconta le tante Maidan del paese, dove in questi ultimi giorni purtroppo la situazione è precipitata.

Lesya Kalynska parla alla Union Docs di Williamsburg
Maidan significa piazza, e la piazza era fatta di “giovani che protestavano prima di tutto contro la corruzione sovietica, che di fatto non è mai stata toccata”. Questa protesta è presto diventata una battaglia, dopo che la polizia di Yanukovich e le forze speciali hanno cominciato a picchiare, rapire, uccidere, e i cecchini a sparare sulla folla”. Lesya ha presentato un estratto del suo documentario Heaven Admits No Slaves (diretto insieme a Ruslan Batytskyi) Sabato 3 maggio, alla Union Docs di Williamsburg, insieme ad altre filmmaker – Olha Onyshko e Vanessa Black – che come lei hanno girato e stanno continuando a girare in Ucraina, portando le loro immagini al pubblico ucraino e internazionale, attraverso incontri, dibattiti, sul web, e spesso inviando le loro immagini a emittenti televisive come la CNN; pochissime televisioni internazionali infatti (tranne quelle russe) hanno le loro troupe sul campo. E anche questo è un aspetto che fa pensare.
“Il mio documentario è parte di un progetto più ampio e complesso, e io stessa, arrivata lì da sola insieme ad un operatore, ho dovuto ben presto organizzarmi con altre telecamere, altri operatori, fonici, un co-regista, perché quello che stava succedendo era più grande di noi… stiamo vivendo un momento storico cruciale e non solo per l'Ucraina ma per tutta quell'area geografica. Questo è un problema geopolitico di fondamentale importanza, e mi stupisco che ancora non venga trattato come tale dalla politica internazionale”.

Un’immagine del documentario Heaven Admits No Slaves
Dopo una breve introduzione di Andrij V Dobriansky (Ukrainian Congress Committee of America) per inquadrare la situazione ai giovani e giovanissimi presenti alla serata, Lesya ci racconta che inizialmente avevano selezionato venti persone da seguire nel documentario, poi per esigenze pratiche, logistiche e narrative, queste venti persone sono diventate sei: “Persone diverse tra loro, persone comuni, che avevano un diverso ruolo e coinvolgimento a Maidan, e venivano da diversi posti dell'Ucraina. Uno degli aspetti più importanti, che non so quanto sia noto all'opinione pubblica, è che Maidan è un movimento orizzontale e internazionale. Partecipano donne e uomini che arrivano da ogni parte del paese, e arrivano in piazza perché vogliono un'Ucraina democratica, libera dall'oppressione economica, politica e culturale della Russia. Ma in piazza ci sono anche georgiani, armeni, bielorussi, polacchi, americani, italiani, francesi, ci sono lingue diverse, religioni diverse, ed è odioso quello che è stato fatto dalla propaganda russa, che ha raccontato quello che voleva raccontare: ci hanno chiamati fascisti, nazisti….”.
Lesya non trattiene le lacrime, è arrabbiata, ma soprattutto è distrutta dal dolore per quel che sta succedendo nel suo paese, e per quel che il mondo non sa, o che crede di sapere. “Tra le sei persone che seguivamo e raccontavamo nel documentario, c'era un ragazzo, Sergej. Stavo montando le immagini dell'intervista che gli avevamo fatto il giorno prima, quando è arrivata la notizia che Sergej era stato ucciso da un cecchino – ora la commozione non è solo nella voce di Lesya ma negli occhi di tutti i presenti. “Non è accettabile, capite. I cecchini sui tetti sparavano sulla folla, sui giornalisti, sui fotografi. Io stessa, come molti altri miei amici e colleghi, ho rischiato la vita. Ho avuto tanta paura, ma sono rimasta. Sono rientrata negli Stati Uniti dopo un viaggio in treno fino a Lviv (Leopoli), poi in macchina fino alla Polonia, e poi in areo fino a New York, per salvare il materiale che avevo girato. Molti miei colleghi hanno 'perso' in aeroporto a Kiev le immagini che avevano girato, io volevo essere sicura che queste immagini arrivassero fino a voi… Il mio co-regista Ruslan Batytskyi è ancora in Ucraina, in questo momento sta girando nell'Est del paese”.

Un’immagine del documentario Heaven Admits No Slaves
Il materiale girato da Lesya non è solo una testimonianza importante, è un bellissimo pezzo di cinema: la narrazione, il punto di vista, la fotografia rivelano talento, un'attenzione alle parole e a quei dettagli che raccontano una storia, una persona come uno specifico momento storico, come in questo caso. Nell'estratto presentato nella sede della Union Docs, il protagonista è un ragazzo di poco più di vent'anni, che nelle prime inquadrature indossa un casco da moto, e se ne sta seduto annoiato accanto a una scatola per la raccolta fondi per Maidan. Nelle ultime inquadrature indossa un elmetto, ha vistose ferite alla schiena, e piange. Quella di Lesya è una splendida sintesi cinematografica di quel che è successo e sta succedendo al popolo di Maidan.
Lesya Kalynska presenterà alcuni estratti di Heaven Admits No Slaves martedì 6 maggio alle 19.00 alla NYU – Tisch School of the Arts, per chi volesse partecipare alla visione e anche alla discussione, che in questi giorni si fa quanto mai urgente: da qui alle elezioni ucraine del 25 maggio è molto probabile purtroppo un'escalation di violenza nel paese. E nel frattempo, il New York Times (unica voce tra la stampa internazionale) ricorda che a Maidan sono scomparse oltre 400 persone, per ora mai ritrovate.