Quando ero piccolo andavo con mio padre alla stadio Olimpico a vedere giocare la nostra squadra del cuore, la Roma. Avevamo i posti fissi assegnati in tribuna, sempre gli stessi per tutto il campionato. Il mio vicino di posto si chiamava Renato, proprio come mio papà. Era sempre vestito bene, in blazer blu, pantaloni di flanella grigia e, nelle giornate più fredde, indossava un bel cappotto di cammello.
La gente si girava in continuazione a sbirciare dalla nostra parte. All’inizio pensavo guardassero me, forse perché mi ero sporcato con il cioccolato oppure perché ero vestito male. Papà mi disse che invece guardavano tutti il mio vicino, perché era famoso, anzi perché era molto famoso. Infatti, Renato Rascel era davvero molto famoso in quei tempi. Alla fine degli anni cinquanta lui era proprio uno di quei romani molto ma molto famosi, un vero romano doc. Era stato battezzato a San Pietro, abitava a Borgo Pio, cantava nel coro della Cappella Sistina e a tredici anni suonava la batteria e ballava il tip tap alla sala Bruscolotti, noto ritrovo artistico della capitale. Allo stadio, quando segnava la Roma, ci alzavano tutti in piedi e ci abbracciavamo. Lui era alto praticamente come me che ero ancora un ragazzino delle elementari, però sembrava più alto, sembrava altissimo, per quanto era simpatico, allegro, sorridente. Emanava un alone di semplicità e nello stesso tempo di sicurezza.
Lui era uno che il successo se l’era guadagnato con una gavetta dura, sugli scalcinati palcoscenici dell’avanspettacolo e poi su quelli delle operette, negli anni trenta. Aveva inventato un tipo di umorismo surreale con filastrocche davvero provocatorie per il regima fascista di quei tempi, tipo “E’ arrivata la bufera, è arrivato il temporale, chi sta bene e chi sta male e chi sta come gli par !” e poi c’erano i suoi testi strampalati e surreali arrivati molti anni prima di quelli di Fo, Jannacci e di Elio e le storie tese. I titoli, molto buffi anch’essi, erano, ad esempio, Mi chiamo Viscardo, La canzone del baffo, Torna a casa che mamma ha buttato la pasta e La canzone della zanzara tubercolotica.
Innamorato della sua città e desiderando restarci il più tempo possibile, Rascel aveva trovato un nuovo fantastico sodalizio destinato a durare nel tempo, quello con Pietro Garinei e Sandro Giovannini che, per gli anni a venire, lo avrebbero ospitato nel loro meraviglioso Teatro Sistina con tutta una serie di scintillanti commedie musicali come Il piccolo corazziere, Alvaro piuttosto corsaro, Attanasio cavallo vanesio, Tobia candida spia, Un paio d’ali, Enrico ’61, La strana coppia e, infine, Alleluia brava gente. Tutti i romani, così, potevano andare ad applaudire il proprio beniamino, quel simpatico piccoletto che li faceva tanto divertire.
Nel 1952, il regista Alberto Lattuada lo scelse per un ruolo assolutamente inedito, in un film drammatico, Il cappotto, tratto da un bel racconto di Gogol. Era la storia di un modesto impiegato comunale con il semplice sogno di comprarsi prima o poi un bel cappotto con il bavero di pelliccia. Rascel riuscì ad essere convincente anche in quell’inedito ruolo tanto che vinse il Nastro d’argento. Fu quello l’inizio di una nuova carriera che lo portò a lavorare in diversi film negli anni successivi. Qualche anno dopo girò anche Policarpo, ufficiale di scrittura su regia di Mario Soldati, vincendo il David di Donatello. Ma è nel 1957 che lui conquistò definitivamente il cuore dei suoi concittadini scrivendo la semplice e meravigliosa canzone Arrivederci Roma che gli fece conquistare fama e successo anche all’estero. Quanti turisti, lasciando la nostra città, hanno cantato quella famosa strofa “Arrivederci Roma, Goodbye, Au revoir” ?
Continuò a scrivere canzoni sempre più belle come Nevicava a Roma, Vogliamoci tanto bene, Con un po’ di fantasia, Ninna nanna del cavallino, Aspettando che spiova e poi quella canzoncina amatissima dai bambini dell’epoca Dove andranno a finire i palloncini. Nel 1960 vinse il Festival di Sanremo con Romantica, in coppia con quello che allora era definito come il re degli urlatori,Tony Dallara.
Da allora continuò la sua incessante e poliedrica attività dividendosi sempre in tutti i settori artistici, dalla radio alla televisione, dal cinema al teatro e alla musica.
Ma in tutti quegli anni, quando la domenica giocava la sua squadra del cuore, continuava ad andare allo stadio e a sedersi vicino a quello che, da bambino, era diventato prima un ragazzo e poi un uomo.
“Ciao Renà”, gli dicevo.
“Che facciamo oggi? Vinciamo?”, rispondeva lui, mentre la gente continuava a fissarlo e i fotografi scattavano le solite fotografie.
Quando se n’è andato per sempre, nel gennaio del 1991, su quel suo posto allo stadio misero un grande mazzo di fiori. Ricordo che, trattenendo a stento le lacrime, ho alzato gli occhi al cielo e, dentro di me, ho visto un piccoletto che volava verso l’alto tirato su da un grande mazzo di palloncini rossi. Contemporaneamente ho sentito le note di una canzone stupenda e commovente, Arrivederci Roma. Sono sicuro che tutti i romani che erano allo stadio con me l’hanno visto e sentito e non avrebbero potuto fare altrimenti perchè quel piccoletto, mentre saliva, diventava sempre più grande e imponente, un vero meraviglioso, unico, simpaticissimo e gigante piccoletto de Roma.