Il celebre duetto “Pur ti miro”, posto a conclusione de L’incoronazione di Poppea, opera di Claudio Monteverdi, nell’interpretazione di Marie-Nicole Lemieux e Philippe Jaroussky. Sentiamone direttamente l’eloquenza musicale, senza il filtro di altre parole.
Che cosa abbiamo ascoltato? Pura armonia di due voci. Due nitide linee melodiche che restituiscono dell’amore l’abbandono alla passione. Ogni giudizio è sospeso, ogni conseguenza non prefigurata: l’amore è adesso, finalmente. Ogni incontro di suoni, tra le note del duetto, dice questo. Ogni singolo verso del testo, e l’intero svolgersi dell’azione scenica, mettono al centro la passione amorosa, sottraendola al tempo. Nerone e Poppea, finalmente soli l’uno di fronte all’altra, non si curano di quello che sarà, come non si curarono di chi li ostacolava: la moglie di Nerone, Ottavia, fu neutralizzata; Seneca, come figura etica, costretto al suicidio. Si realizzano le premesse poste nel prologo dell’opera: Amore vince su Virtù e Fortuna. Siamo al vertice alto della finzione letteraria.
Ma perché il libretto di Giovanni Francesco Busenello, spietato nel soggetto e sublime nella lingua, è così apertamente contrario all’etica? La risposta, sul piano di una geopolitica ante litteram, sta nel modo in cui Venezia percepisce Roma nella prima metà del Seicento, ovvero quale corrotta sede di un potere esercitato senza scrupoli. Sentimento che si rispecchia sul piano biografico nella sfiducia nei confronti della giustizia da parte dello stesso Busenello: “Giudice vien da Giuda” ebbe a dire; sfiducia che il letterato stesso estende cosmicamente alle istituzioni decadute, attribuendone la causa alla natura egoista e amorale del genere umano. E siamo al vertice basso dello stato depressivo.
Noi ascoltatori, immuni dal terribile bipolarismo dei poeti e dei compositori, abbiamo ancora una volta il privilegio di “convibrare” con le voci coinvolgenti e talentuose di Marie-Nicole Lemieux, impeccabile contralto canadese dalla formidabile presenza scenica, e Philippe Jaroussky, controtenore francese di registro mezzo-sopranile specializzato nel repertorio barocco. I due artisti, accompagnati dall’Ensemble Artaserse, interpretano per noi un’armonia perfetta, il cui autore, con ogni probabilità, non è Monteverdi, ma un esponente della scuola fiorita intorno alla figura del maestro. Stilisticamente il passaggio di mano non comporta discontinuità: l’innesto è magicamente riuscito e l’opera si offre unitaria all’ascoltatore. Quest’ultima pagina, estrapolata dal contesto, a distanza di quasi quattro secoli brilla ancora di luce propria.
Gli ingredienti musicali, i processi compositivi che suscitano in noi le passioni, in questo brano fanno leva su un sottile gioco di equilibri tra consonanza e dissonanza. Ovvero tra una fluidità rassicurante dello scorrere dei suoni e una liquescenza vagamente increspata degli incontri tra le note, la quale ultima trasmette quella quota di tensione che un coinvolgente sentimento porta sempre con sé.
Per chi ha dimestichezza con l’artigianato musicale, quel si insieme al do che sentiamo al culmine della ripresa della prima strofa (più non peno/più non moro) risulta inatteso e vertiginoso: agrodolce ghiottoneria sonora che viene da uno scontro di note di per sé troppo vicine. Una dissonanza ben trattata, si direbbe in gergo musicale. Ma non è indispensabile distinguere gli ingredienti della pietanza, e conoscerne i tempi di cottura, per gustarsi ad occhi chiusi un saporoso bocconcino. Il potere della musica sta proprio in questo: agganciare il sentimento a scavalco dei linguaggi.
Sotto questo aspetto, possiamo considerare l’applicazione della musica come l’uso di una chiave universale, un passe-partout che apre la porta ai sentimenti, alle passioni, agli umori e agli stati d’animo, tanto dell’ascoltatore quanto del musicista. Il suono organizzato sussume infatti entrambi in una diade dialogica. Vivere un evento musicale, o in termini psico-evolutivi un’esperienza musicale, è un accadere da cui scaturisce sempre un dialogo: l’ascoltatore entra in dialogo con sé stesso e con la musica.
Più o meno quello che accade a noi quando ci poniamo in ascolto di un brano. Per quanto mi riguarda ascolto sul divano, di fronte alla fonte sonora, o variando approccio e obiettivo, mentre attendo alle faccende di casa. A volte lo faccio in cuffia, guardando scorrere i quartieri dal finestrino del tram. Non ascolto mai mentre lavoro, mai mentre scrivo. Mi piacerebbe sapere come ascoltate voi.

Se applichiamo al contesto terapeutico questo tipo di relazione, in tal caso gestita da un operatore specificamente formato, la musica mette in dialogo il paziente con sé stesso, con la musica, e con il terapeuta. Anche il terapeuta entrerà in dialogo con sé stesso, con la musica, e con il paziente, orientando questa rete di relazioni alla salute della persona di cui si prende cura.
Si tratta, nel caso della terapia, di un ascolto più consapevole rispetto all’ascolto che dedichiamo spontaneamente a noi stessi, privato o condiviso che sia. Cionondimeno, indipendentemente dal grado di consapevolezza, l’ascolto resta un’applicazione della musica cui facciamo ricorso per modificare il nostro umore, per esplorare nuovi orizzonti o semplicemente per recuperare uno spazio personale che la vita ci nega. Come ad esempio avviene in una postazione di lavoro rumorosa, o quando siamo invasi da suoni altrui in un mezzo di trasporto pubblico, casi in cui ricorriamo con profitto all’ascolto in cuffia.
Tornando alla Coronatione di Poppea, opera di cui non disponiamo dell’originale, bensì di due fonti tra loro assai diverse, va precisato che essa appare di incerta attribuzione. Esaminando i manoscritti disponibili, si distinguono infatti alcuni interventi di fattura musicale diversa, rispetto al tratto generale dell’opera, la cui mano è riconducibile alla generazione dei compositori immediatamente successiva a quella a cui appartiene Monteverdi.
Per quanto riguarda il nostro Claudio, nato a Cremona nel 1567 e spentosi a Venezia nel 1643, limitiamoci per il momento ai tratti biografici essenziali. Nel 1590 Monteverdì entrò a far parte della corte del Duca di Mantova, Vincenzo Gonzaga, il quale ultimo, amante delle lettere e delle arti, aveva fatto della sua corte un centro culturale all’avanguardia. In seguito alla morte del Duca, avvenuta improvvisamente nel 1612, il compositore decise di abbandonare Mantova. Accettò quindi l’incarico di “maestro di cappella” della Serenissima Repubblica di Venezia, posto prestigioso e ambitissimo, in cui fu preceduto dai compositori che resero celebre la cosiddetta Scuola Veneziana, tra i quali Willaert, di Rore, Zarlino, e Gabrieli. Una simile opzione non si rivelò affatto semplice, dal punto di vista logistico: Venezia era nel primo Seicento un vero e proprio arcipelago raggiungibile solo via mare. Cionondimento la scelta fu compiuta, e presso la Basilica di San Marco, dotata di due cori posti frontalmente su entrambe le navate, il compositore ebbe modo di perfezionare ulteriormente la sua arte, scrivendo pagine indimenticabili della storia della musica vocale e strumentale, sulle quali dovremo soffermarci a parte, e in più stazioni.
L’aspetto di maggiore interesse, per chi guarda alla matrice psicologica dell’arte, sta nel fatto che si tratta del primo libretto d’opera il cui soggetto è tratto dalla storia e non dalla mitologia. Abbiamo già fatto cenno all’autore del testo, Francesco Busenello, e alla critica rivolta al cinismo dispotico del potere imperiale da parte degli intellettuali veneziani del Seicento. Il tema appare molto attuale, a un primo sguardo, ma vi è una differenza fondamentale nella direzione da cui soffia il vento antiromano: una direzione repubblicana e colta, in quella fase storica, e non autoritaria e populista, come invece avviene ai giorni nostri.
Lo sfondo storico della trama, che con questo melodramma inizia ad alternarsi a quello mitico, implica un rovesciamento di genere ancora solo apparente, nel senso che il personaggio storico al centro dell’intrigo, tende in quest’opera a farsi mito. La figura di Nerone è infatti sfumata e controversa, le fonti storiografiche su cui si basa sono discusse, ed è altrettanto noto che le più clamorose accuse a lui rivolte siano state abbondantemente ridimensionate. Restano lati ombrosi e avvilenti, come l’immenso rimorso per aver approvato l’assassinio della madre, che ingenerò nel soggetto la persecuzione psicotica dell’incubo ricorrente. L’imperdonabile delitto commesso da Nerone, come del resto le trame messe in atto dalla madre Agrippina, o quelle intessute dall’amante Poppea con il medesimo scopo di fregiarsi del titolo imperiale, sono atti riconducibili a un unico movente: il potere.
Cuspide malata del desiderio umano, il potere è anche l’aspetto seducente che ingenera infatuazioni sconfinanti in modo equivoco in forme deviate di sentimento, ancorché perfettamente in grado di chiamare in causa Amore, motore immobile dell’opera, quasi sempre sullo sfondo, salvo intervenire tra l’attentatore Ottone e la dormiente Poppea per salvare la vita alla protagonista.

Nell’opera attribuita a Monteverdi viene in ultima analisi ricondotto alla figura divina di Amore il sentimento passionale scatenato dal fascino del potere, prerogativa della divinità e oggetto della bramosia dei mortali, i quali vogliono conquistarlo ad ogni costo, peccando per questo di hybris, tracotanza umana che gli dei non perdonano. Poppea morì infatti in seguito a un incidente di gravidanza, o a causa dell’eruzione del Vesuvio, nella sua villa di Oplontis, l’odierna Torre Annunziata; Nerone, deposto dal Senato in seguito alle rivolte dei governatori, morì suicida qualche anno dopo. È dunque nel contesto dei complessi rapporti che legano i personaggi del libretto alle divinità, molto presenti nella trama visto che Amore, Pallade e Mercurio intervengono in tre momenti cruciali dello sviluppo narrativo, che il soggetto storico su cui si incardina L’incoronazione di Poppea tende a farsi mitico.