L’arte di Morricone non smette di stupire. A sei mesi dalla scomparsa gli spunti di riflessione si moltiplicano, dando luogo a nuovi temi di ricerca e inaspettate stratificazioni di pensiero. Quasi si trattasse di un intero campo del sapere, la produzione musicale del maestro appare un dominio che travalica, nella sua multiforme fisionomia, la semplice linearità della parabola artistica di un compositore di successo. L’emozione che produce la sua musica acquista spessore prospettico nel suo ciclico rinnovarsi nell’esperienza di ascolto di temi scolpiti nell’aria, e nella visione di pellicole girate da registi di talento che in alcuni casi hanno segnato la storia del cinema. Sempre in bilico tra due forme di espressione dotate di storia e vita autonome – cinematografia e composizione musicale – l’arte di Morricone rappresenta qualcosa di più della somma delle due parti: è musica per film, un nuovo canone artistico. Il compositore romano ne incarna la natura e ne rappresenta l’essenza, ma per assurgere a questo ruolo è stato molto altro.
Anzitutto un uomo di spessore, mai autocelebrativo, sempre orientato al lavoro. Dal diploma in tromba agli studi di strumentazione per banda, la sua vita artistica trae origine dall’humus della musica di intrattenimento, senza mai elitariamente sublimarsi nella pura dimensione compositiva, che pure la rigorosa formazione musicale gli avrebbe permesso di eleggere a dimora stabile. Nato a Roma nel 1929, Morricone si diploma in composizione nel ’54 sotto la guida di Goffredo Petrassi, e in seguito si unisce al Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza – in cui la composizione si fa istantanea, eludendo ogni determinismo grammaticale – radicandosi in tal modo nella contemporaneità.
Negli anni intorno alla metà del Novecento, secolo dell’esplosione dei mass media, la contemporaneità è soprattutto cinema e radio, per la quale ultima lavora, all’inizio della carriera, in qualità di consulente musicale e arrangiatore. La preparazione musicale è solidissima, accademica, formale. Il repertorio della tradizione è pienamente padroneggiato, pertanto, l’esplorazione della dimensione sperimentale del linguaggio musicale giunge quale logica conseguenza di un processo di assimilazione. Non si tratta, per il giovane Morricone, di aderire a un progetto di avanguardia o abbracciare una moda. Si tratta di vivere il presente con la consapevolezza di avere esplorato compiutamente le possibilità espressive del linguaggio tonale e della composizione seriale, dirigendo l’attenzione creativa verso nuove soluzioni formali per la musica del nostro tempo.
Viene dunque da chiedersi quali siano i fattori alla base della capacità di Morricone di esprimersi con risultati tanto coinvolgenti attraverso una forma d’arte complessa e di nuova concezione come la musica per il cinema. Proviamo a cercare la risposta lasciandoci guidare dalle parole espresse in proposito del maestro, in un saggio autobiografico intitolato “Un compositore dietro la macchina da presa”, inserito nell’Enciclopedia della Musica dell’editore Einaudi nel 2001. “Direi che è un’arte molto particolare e diversa dalle altre: richiede creatività ma non quel tipo di creatività che si può imparare in una scuola come il Conservatorio, per quanto completi e solidi possano essere i suoi insegnamenti. La creatività della musica cinematografica deve essere, paradossalmente, priva di un orientamento stilistico proprio e univoco; un musicista che voglia fare buona musica per film non deve specializzarsi solo in musica classica o sinfonica, vecchia o nuova, non deve essere solo un musicista pop, un jazzista o un rocchettaro: deve specializzarsi in tutto e deve anche saper maneggiare bene le contaminazioni tra generi musicali diversi”.
La chiave del successo di Morricone sta dunque nella duttilità derivante da competenze musicali che oltrepassano l’educazione accademica offerta dal Conservatorio. Figlio di un musicista professionista, fa della musica il proprio mestiere guadagnandosi da vivere in sale da ballo, teatri e locali pubblici di vario tipo. Ha quindi modo di apprendere da autodidatta il mestiere dell’arrangiatore, che al di fuori dell’ambito della musica classica, e in particolare nel mondo del Jazz, richiede qualità e competenze elevate, in molti casi superiori a quelle richieste al compositore.
L’alchimia compositiva di Morricone attinge dunque all’intera gamma dei generi musicali utilizzando tutti i suoni dell’orchestra, anche emessi da strumenti suonati in registri atipici. L’orchestra di riferimento è ricca e polivalente, includendo strumenti elettroacustici come chitarre e piani elettrici, e la batteria jazz/pop in aggiunta alle percussioni orchestrali. L’intero spettro di sonorità reagisce a sua volta con la fusione dei linguaggi, ciascuno dei quali concorre a descrivere con temi melodici e atmosfere musicali le caratteristiche psicologiche dei personaggi. Anche e soprattutto quelle che la sceneggiatura non racconta.
Per raggiungere questo obiettivo il compositore si serve di tutti gli idiomi che la storia della musica mette a disposizione, ma è dal linguaggio contemporaneo e delle avanguardie musicali che Morricone trae ingredienti quali la dissonanza, l’uso di intervalli atipici e serie di note non coincidenti con le scale tonali: mezzi fondamentali, questi ultimi, per la descrizione di stati d’animo complessi. Tale insieme di elementi discordanti toglie all’ascoltatore medio i punti di riferimento che fanno dell’esperienza di ascolto un messaggio fruibile e rassicurante, ma diventa indispensabile per la trasposizione in musica di situazioni interiori sfuggenti e particolari, come ad esempio quelle legate all’insondabilità degli stati mentali patologici. Non si tratta di evocare semplicemente emozioni quali la tensione o la paura, compito in definitiva ordinario nella composizione di colonne sonore, ma di alludere a qualcosa che va al di là dell’esperienza comune – in quanto riguarda i vissuti connessi alla frammentazione della coscienza – di cui non è possibile avere un’idea oggettiva che vada al di là delle fredde descrizioni psichiatriche: strumenti potenzialmente validi in campo diagnostico, ma inservibili ai fini dell’empatia, dentro o fuori la relazione di aiuto.
A questo proposito possiamo citare Il film di Elio Petri “Un tranquillo posto di campagna”, del 1968, imperniato sulla figura di un artista di avanguardia dalla mente fragile, manipolato da soggetti che approfittano dal suo talento, spingendolo a dipingere per venderne le opere. I brani musicali che Morricone ha concepito per sonorizzare le scene in cui l’artista sogna, o vive esperienze allucinatorie, sono in parte composti e registrati e in parte realizzati direttamente sul filmato, in collaborazione con il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza.
I risultati sonori, come racconta lo stesso compositore, si rivelano bellissimi, sebbene il film sia stato un fiasco dal punto di vista degli incassi. Sentire il Gruppo nel suo fulgore timbrico interpretare in musica gli incubi del protagonista, è un’esperienza raccomandabile a chiunque sia interessato ai rapporti tra musica e psicologia, musica e terapia, visione artistica e mercato. Chi desidera farsi un’idea del piacere che può dare l’ascolto dell’improvvisazione radicale, troverà nella dialettica tra musica e immagini messa in gioco dal film le indicazioni più adeguate e chiarificanti. La musica improvvisata dal gruppo, secondo strutture in parte definite e in parte aleatorie, è suonata da musicisti di alto livello dotati di solidissima tecnica, e scaturisce da intense prove di insieme sottoposte al vaglio di ripetuti ascolti collettivi, attraverso i quali i componenti hanno affinato la difficile arte della composizione istantanea. Leggiamo su queste sedute il ricordo di Morricone, in un’intervista con Valerio Mattioli: “La musica che facevamo era improvvisata a partire da esercizi mirati: facevamo mesi e mesi di improvvisazione su parametri molto precisi, ci registravamo, la sera ci riascoltavamo e ci criticavamo. Era una cosa molto attenta”
Un così intenso retroterra di esperienze di studio porta alla creazione di suoni organizzati da una sintassi che sembra evanescente e oscura, ma il cui effetto sonoro appare invece limpidissimo – basti pensare ai luminosi glissati in crescendo del trombone con sordina – a condizione di essere disposti a mettere in discussione il proprio armamentario di aspettative, e aprirsi alle sorprese del suono.
Il dibattito sulla ricezione della musica contemporanea è vasto e animato, e una rubrica dedicata al piacere dell’ascolto considera con particolare interesse l’argomento. La posizione di Morricone in questo senso è chiara. Il compositore romano è dell’avviso che l’utilizzo di stili e tecniche della musica contemporanea, oltre ad essere funzionali al commento musicale di scene ad alto contenuto emotivo, è utile alla divulgazione delle forme più avanzate del linguaggio sonoro, aumentando progressivamente il livello di familiarità del pubblico nei confronti di tendenze troppo facilmente etichettate come indecifrabili e pertanto inascoltabili.
Un altro punto di vista utile al riposizionamento critico rispetto a idee preesistenti che limitano il concetto di musica, è quello proposto dal compositore Robert Wyatt. Il cantante e polistrumentista inglese suggerisce una metafora molto semplice e immediata per rappresentare due approcci all’ascolto di segno opposto, mettendo in primo piano l’atteggiamento di fondo dell’ascoltatore: “c’è musica che va all’orecchio, e orecchio che va alla musica”. Quasi a chiedersi: vogliamo essere passivamente raggiunti o vogliamo attivamente cercare? Lasciamo al mondo l’iniziativa, accettando la cultura-ambiente così come ci viene data, o vogliamo acquisire strumenti critici per modificarla? Siamo sicuri che la libertà del mercato liberista coincida con la nostra libertà di ascolto? E potremmo proseguire, tenendo a mente l’opera meritoria di Wyatt, che ci ha insegnato con capolavori quali “The End Of An Ear”, del 1970, ad amare della musica gli aspetti più asimmetrici e avventurosi, meno appiattiti sulla levigata superficie dell’abitudine.
L’Uccello dalle piume di cristallo, opera prima del regista Dario Argento – siamo sempre nel 1970 – è un’altra prova del fuoco per Morricone, il quale impegna anche in questo caso il Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza in esecuzioni funamboliche registrate mentre scorrono le immagini. La componente psichiatrica riguarda in questo film la schizofrenia dell’assassino, che fa la sua comparsa in una galleria d’arte, in cui sono esposte enigmatiche sculture di animali di grandi dimensioni. Ancora una volta il talento del compositore romano rende con le caratteristiche del linguaggio della musica contemporanea l’idea psicopatologica della scissione – difesa primaria della personalità schizofrenica – con migliore efficacia e precisione di qualsiasi descrizione nosografica.
Anche il protagonista del capolavoro di Elio Petri, Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto, è nel suo intimo abissalmente fragile e insicuro ad onta dell’atteggiamento inflessibile e vigoroso che ostenta. Il commissario di polizia dall’espressione dura, inneggiante all’ordine e alla repressione, è descritto in musica da Morricone con cinica precisione, dipingendo con un tema esposto da un pianoforte non troppo accordato, fuso con la metallica sonorità di un mandolino, il ritratto e al tempo stesso la caricatura dell’uomo di potere. Avvinti dal trascinante arrangiamento, siamo portati a cogliere attraverso la musica – con maggior chiarezza di quanto si possa evincere dalla sceneggiatura e dalle immagini – il carattere e il temperamento del soggetto, insieme al castello di sabbia delle certezze che ostenta.