“Non mi devo integrare, io qua ci sono nato, io non sono mio padre, non sono un immigrato, non sono un terrorista. Mangio pasta e pizza. Io sono un italiano”. Solo le parole-manifesto di Amir Issaa, rapper italiano, romano, figlio di un’italiana e un immigrato egiziano, che in America ha appena iniziato il tour di Vivo per Questo (Chiarelettere 2017), il suo primo libro a metà tra memoir, romanzo autobiografico e di iniziazione.
Un racconto che diventa anche la fotografia dell’Italia che cambia, dagli anni Ottanta ad oggi. Amir, cresciuto nel quartiere romano di Tor Pignattara, vive un’infanzia difficilissima a causa delle vicende giudiziarie del padre che portano la sua famiglia a vivere sempre in bilico sull’orlo della legalità.
Lui sceglie la strada del riscatto, della costruzione, dell’ambizione, della rivalsa, della musica, quando quella della violenza e della criminalità poteva essere la più scontata, la più facile. Imbraccia prima lo skate e poi lo spray e afferma la sua identità attraverso il writing, i graffiti, la breakdance, per arrivare infine al rap impegnato di cui oggi è uno dei principali protagonisti della scena italiana. Un destino, quello del rap e della musica, che sembra essere inevitabile, se si pensa che il nome Amir, al contrario è rima.
“Uomo di prestigio” è il suo primo album da solista dopo il debutto con il collettivo Rome Zoo di cui è uno dei fondatori.
Le sue rime raccontano un’Italia che cambia. Sono testi impegnati che affrontano temi come lo ius soli, l’integrazione, la multiculturalità. Come Caro presidente, un video-appello rivolto al presidente della Repubblica e dedicato al tema dello ius soli e alla cosiddetta seconda generazione di italiani che Amir rappresenta e racconta nei sui testi. La sua musica arriva anche al cinema, dove compone la colonna sonora del film Scialla! Di Francesco Buni, il cui brano principale ottiene la nomination ai David di Donatello.
Impegnato nel sociale con progetti educativi e musicali rivolti alle scuole per combattere stereotipi e pregiudizi, nel suo libro Vivo per questo, ci consegna una storia vera, senza filtri, intensa, vertiginosa, senza sbavature e violenza.
Amir ripercorre insieme ai lettori le fasi principali della sua vita, quelli della sua famiglia, dall’infanzia ad oggi. E lo fa con ritmo incitante che sembra seguire quello dei beat della musica rap, dando vita ad una scrittura fresca, dinamica ed incisiva che ha lo slancio del racconto liberatorio e terapeutico.
Sullo sfondo una Roma che cambia, dalle periferie ai quartieri borghesi. E insieme alla capitale, cambia l’Italia, che dal racconto di Amir è già l’Italia multicultuale e pluralista del futuro.
“Ognuno di noi è frutto di un percorso individuale, culturale, che trascende la razza. La nostra identità, storia personale, è il risultato di un complesso di fattori che non possono essere solo ricondotti al colore, la forma degli occhi, il paese di origine”, dice Amir.
Hai appena iniziato il tuo tour americano al Mount Holyoke College di Amhrest (Massachusetts) che ti porterà nelle università americane, tra le quali la NYU venerdì 23 febbraio, a parlare del tuo libro. Quale messaggio vuoi dare ai ragazzi americani e a chi verrà ad ascoltarti?
“Porterò la mia storia, la mia testimonianza e anche il racconto di un pezzo di Italia, quella di oggi, che sta vivendo un periodo di transizione. La mia storia è quella di un ragazzo italiano che ha avuto una vita di certo non facile ma che grazie alla musica, all’arte, al rap, alla scrittura, è riuscito a riscattarsi da un passato difficile e duro.
È una storia di rivalsa, di ambizioni, della potenza del rap nel veicolare certi messaggi sociali molto importanti, della musica come strumento di riscatto. Una storia costruttiva perché il riscatto passa attraverso valori positivi come l’arte e la musica, l’amicizia. Insieme alla mia storia personale, il mio libro racconta un pezzo d’Italia che cambia, dagli anni Ottanta ad oggi. Un’Italia multiculturale che è già presente e non futuro”.
Non è la prima volta che incontri il pubblico americano per parlare della tua musica e dei tuoi testi. Qual è stato il feedback dei ragazzi che hai incontrato durante i tuoi workshop negli Stati Uniti e cosa ti ha colpito di questa America?
“Gli americani sono stati sempre molto incuriositi da questo concetto di “seconda generazione” di cui si parla molto in Italia. Mi hanno chiesto cosa significhi e quali dinamiche implichi quando si parla di integrazione, multiculturalismo nell’Italia di oggi. Per loro, che hanno conosciuto un processo di costruzione nazionale che si identifica in un melting pot, è sicuramente qualcosa di non nuovo ma sono curiosi di capire cosa succede nel nostro paese. Quanto all’America, facendo musica rap, per me è stata sempre un riferimento stilistico. L’hip hop, il rap americano sono un riferimento essenziale per chi vuole fare questo genere di musica anche se i contenuti del rap italiano devono essere per forza diversi da quelli americani.
Quando per la prima volta ho visitato New York mi sono reso conto di quanto questa città sia poco rappresentativa dell’America e che questo paese sia molto più complesso di come in Europa lo immaginiamo. Oltre New York e Los Angeles, c’è un’altra America, quella vera, che merita di essere conosciuta, esplorata, approfondita. Nel mio tour sarò a New York, Ohio, Massachusetts, in California e alla Georgetown University e sono contento di portare la mia testimonianza in diverse parti degli Stati Uniti”.
Il tuo libro Vivo per questo, a metà tra memoir, romanzo autobiografico, di formazione, nasce da un’esigenza terapeutica e liberatoria. Come è stato scrivere un libro rispetto alla scrittura dei testi delle tue canzoni?
“Ho scritto oltre duecento brani ad oggi e nel rap devi, in circa tre minuti e mezzo, provare a sintetizzare quello che racconti e tagliare le parole sulla metrica dei beat. Il libro mi ha dato un respiro più ampio per raccontare alcuni fatti della mia vita che non sarei riuscito a raccontare con le parole”.
Sei stato definito un rappresentante della cosiddetta G2, la seconda generazione, e sei stato un pioniere nell’affrontare attraverso la tua musica rap argomenti come lo ius soli, l’integrazione. Cosa pensi del fallimento politico della riforma legata allo ius soli?
“Il fallimento è legato alla paura di non accettare il presente, la realtà. Si parla di ius soli come di qualcosa che deve avvenire mentre non ci accorgiamo che la realtà attuale è un’altra. L’Italia sta vivendo una forte transizione verso una società multietnica, pluralista, dove i suoi cittadini non solo si chiamano Mario Rossi ma anche Amir Issaa. È un processo inevitabile che la politica non può sottovalutare perchè il cambiamento è già avvenuto a livello della società. Basta andare nelle scuole dove gli studenti non fanno nessuna differenza rispetto alla loro origine. Siamo tutti italiani, cresciamo e viviamo in questo paese, parliamo la stessa lingua. Ma una legge non vuole riconoscere i diritti di questi ragazzi che nascono, crescono in Italia e non si sentono legislativamente riconosciuti come italiani. E’ come sentirsi abbandonati da una mamma che ti ha cresciuto ma che poi ti volta le spalle”.
Tu sei italiano, nato e cresciuto in Italia da mamma italiana e papà egiziano. Come hai vissuto questa tua dimensione tra due culture e cosa hai risposto a chi ti ha detto “vai a casa tua”?
“Io sono italiano e mi sento italiano. Sono stato cresciuto come ogni altro bambino italiano e sono stato anche battezzato. Purtroppo non ho avuto modo di conoscere a fondo la cultura egiziana perchè mio padre non è stato con noi quando siamo cresciuti; non mi ha insegnato l’arabo, non mi ha cresciuto secondo il credo musulmano. Sono stato in Egitto in tutto due volte: quando avevo quattro anni , in vacanza, e qualche anno fa in un viaggio alla ricerca delle mie origini. E’ un paese che mi affascina, sento il mio legame a livello ancestrale attraverso gli odori, i profumi. Mi piacerebbe conoscere di più il paese di mio padre e imparare anche la lingua.
A chi mi ha fatto sentire uno straniero in Italia ho sempre risposto che questa è casa mia”.
Cosa significa essere italiano e vivere in Italia, con un cognome egiziano, negli anni del terrorismo, dei pregiudizi, di una politica propagantistica che fa leva sulle paure?
“Mia mamma all’inizio voleva che mi chiamassero Massimo e così è stato fino a quando da grande ho capito che non dovevo vergognarmi delle mie origini in parte egiziane. Questo sono io e questa è la mia storia di cui sono orgoglioso. Da quando in Europa sono iniziati gli attacchi legati al terrorismo, ho subito più controlli, più atteggiamenti legati alla diffidenza e al pregiudizio. Tutto questo è frutto di paure, ignoranza. Io ho sempre affrontato tutto con molta serenità e con la mia musica ho sempre diffuso valori di tolleranza e accettazione. Non è stato facile e non lo è ma il mio messaggio, quando vado nelle scuole a parlare con i ragazzi, è quello di superare le paure, le diffidenze legate all’aspetto estetico, etnico.
Ognuno di noi è frutto di un percorso individuale, culturale, che trascende la razza. La nostra identità, storia personale, è il risultato di un complesso di fattori che non possono essere solo ricondotti al colore, la forma degli occhi, il paese di origine”.
In Italia si affaccia una generazione di nuovi rapper, come Ghali, Zanke El Arable Blanco, rappresentanti della famosa seconda generazione di italiani che come te affrontano anche le tematiche dell’integrazione attraverso le rime. Come spieghi questa crescente popolarità del rap impegnato che sta diventando anche un fenomeno generazionale?
“Il rap è stato sempre una forma artistica e musicale molto potente per parlare di certe tematiche. Innanzitutto é molto accessibile. Basta avere alcune basi e iniziare a comporre rime, nei garage, nella propria camera, come fanno molti ragazzi che si avvicinano a questo genere. E’ un genere popolare perché arriva ai giovani e riesce a far passare messaggi e tematiche importanti. In Italia il rap ha avuto un’origine legata all’impegno politico e sociale, un’estrazione diversa da quella americana. Il rap è strumento di affermazione della propria identità e di alcune tematiche sociali. E’ strumento di riscatto ma anche una forma artistica e musicale che ha la potenzialità di arrivare laddove altre forme non arrivano perché riesce a parlare in maniera diretta e senza filtri. Offre uno spaccato reale, una cronaca vera. I ragazzi si riconoscono e si rispecchiano in questi testi più di quanto non succeda con un pezzo melodico”.
Tuo figlio Niccolò, che oggi ha 17 anni, cosa ti ha detto quando ha letto il tuo libro?
“Mi ha detto che ha pianto. Questo mi ha riempito di orgoglio. Lui mi vede un po’ come un piccolo eroe perché sono un esempio di riscatto, rivalsa. Sono per lui il padre che io purtroppo non ho avuto. Ho amato mio padre con i sentimenti del figlio anche se lui non è stato un esempio positivo per noi ed è stato un padre assente che ha trascorso parte della sua vita in carcere”.
Nel libro la figura di tua sorella Fatima è importante e a lei riservi riconoscenza ed affetto.
“Mia sorella è stata ed è sempre un punto di riferimento nella mia vita, abbiamo un rapporto bellissimo. A lei è toccato il ruolo di fratello maggiore e di prendere in mano certe situazioni per via dell’assenza di mio padre. Ha un carattere forte e protettivo”.
Il tuo libro si chiude con uno spaccato dell’Italia di oggi che diventa anche iconografia di un paese moderno. Un’Italia multiculturale che riesce a stare insieme a tavola come nella società. Come immagini l’Italia tra 10 anni, questa italia che andrà al voto il 4 marzo minacciata anche da certe paure, un certo razzismo.
“La società è molto più avanti della politica che oggi purtroppo a volte fa leva sulle paure, sull’ignoranza della gente. Chi non accetta l’idea di un’Italia multiculturale non è in grado di vedere un processo inevitabile. Le migrazioni sono sempre esistite e sempre esisteranno. Sono nate con l’uomo e fanno parte della natura.
Chi vuole vedere l’Italia di oggi vada nelle scuole. Come l’istituto Pisacane, la scuola più multietnica d’Italia dove sono stato a parlare con i ragazzi. È li che si compie un processo di integrazione in maniera naturale. La politica oggi, secondo me, non è in grado di risolvere problemi e a volte li crea. Meglio intervenire con la cultura, la musica, l’arte, se si vuole cambiare in meglio. Immagino un’Italia dove il pluralismo e l’integrazione convivano in maniera pacifica. Questa è l’Italia del futuro”.