Conosciamo il Francesco De Gregori cantautore, artista, musicista. Conosciamo meno, come lui stesso ha tenuto a ribadire nel corso della sua conversazione con Stefano Albertini presso la Casa Italiana Zerilli Marimò della New York University, il Francesco De Gregori uomo, privato, se non per quello che soggettivamente ne traspare dalle sue canzoni. Ancora meno noto, perlomeno fino alla vigilia del suo attesissimo concerto newyorchese, il De Gregori teorico dell’arte e dell’estetica, intesa come disciplina filosofica che studia il bello, la sua percezione e concezione, e l’arte in generale. Che cos’è la poesia per Francesco De Gregori? Qual è la missione dell’artista? Che cos’è, in ultima istanza, l’arte e qual è il suo compito?
Nella ricchissima e preziosa intervista (concessa prevalentemente in inglese, con qualche invasione di campo della lingua natìa) ad Albertini, il cantautore (orgogliosamente) romano ha regalato ai suoi tanti estimatori la sua personale concezione dell’arte e della sua missione, alla luce della quale si potrebbe forse rileggere la sua intera carriera, nonché il concerto tenuto l’indomani, al teatro The Town Hall. Con le piccole ma significative perle sull’arte dispensate in quella conversazione, De Gregori si è inserito, di fatto, in un dibattito culturale che dura dalla notte dei tempi, alimentato non soltanto dai filosofi ma anche dagli artisti stessi: perché – è inevitabile – in ogni pittore, poeta, scrittore, musicista vi è non solo l’inclinazione a fare arte, ma anche a ragionare sull’arte, interrogandosi, talvolta anche con tormento, sulle sue ragioni, sul suo rapporto con la morale e l’utilità e, dai primi scampoli del Novecento, sulla sua stessa possibilità nel variopinto e sonnambulo mondo moderno.
Dal gustoso dialogo con Albertini scopriamo, ad esempio, che per De Gregori l’arte non deve educare: l’artista non ha alcuna vera responsabilità nei confronti del suo pubblico, se non quella di “essere se stesso”, ed “esprimere se stesso”. Una concezione moderna, a prima vista radicalmente lontana dall’imperativo categorico greco che voleva il “bello” automaticamente anche “buono”. Nel mondo greco vigeva la filosofia del “kalòs kaì agathós”: come osservava opportunamente Hegel, nella classicità non si operavano scissioni tra etica ed estetica, sfera pubblica e privata, ma la tensione al recupero della dimensione “totale” era costante. La bellezza, insomma, era un attributo ontologico del bene. Per non parlare, poi, del Medioevo: secondo san Gregorio, le immagini erano i testi degli illetterati: “in ipsa legunt qui litteras nesciunt” (“in esse leggono coloro che non conoscono le lettere”). A tale missione, se ne aggiungeva una di devozione, fortemente legata alla sfera religiosa. Anche l’arte umanistica e rinascimentale, per certi versi, deve qualcosa alla morale: la tendenza idealistica di quell’epoca, infatti, porta alla riscoperta di Orazio e della sua Ars Poetica, dove, secondo il noto precetto del “miscere utile dulci” (“mescolare l’utile al dolce”), viene tematizzata la finalità pedagogica del testo letterario. Con la modernità si assiste invece a una rivoluzione della concezione dell’arte, anche se il dibattito non può mai considerarsi davvero concluso. Oscar Wilde, ad esempio, scriveva che “in un artista un intento morale è un imperdonabile manierismo stilistico”, per non citare D’Annunzio, Baudelaire o lo stesso Kant, secondo cui il bello rappresentava una “finalità senza scopo”.
Nessuna ricerca didascalica o educativa, dunque, risiede nella musica di De Gregori, ma neppure alcuna inclinazione all’adesione totale e diretta alla realtà, se per realtà intendiamo ciò che il verismo, il naturalismo e il realismo, letterari e non solo, si preoccupavano di rappresentare senza fronzoli nelle opere. E non perché nelle canzoni di De Gregori non ci sia questo tipo di appiglio al reale: si pensi ai suoi “ragazzi di terza classe” che “per non morire” vanno in America di Titanic. Piuttosto, perché ciò che prevale è l’adesione all’animo dell’artista, anche qualora ciò implichi la stesura di testi criptici, quasi ermetici, come quello di Alice, ma anche della stessa Donna cannone. Il cantautore romano, a proposito della prima, ha confessato di averla scritta in un periodo in cui era influenzato dai testi dadaisti, e di aver raccolto, nel corso della propria carriere, gli insistenti interrogativi dei propri fan che gli chiedevano: “Che cosa significa?”. Eppure, De Gregori ha spiegato, sempre con l’ironia che lo caratterizza, di non essere tenuto a fare esegesi: l’importante, per lui, è che la canzone rispecchi se stesso e le proprie esigenze espressive, e che dia emozioni a chi l’ascolta. Poi, l’interpretazione è un processo sempre aperto e profondamente soggettivo: ogni canzone regala, a ognuno di noi, immagini, emozioni, significati diversi a seconda del vissuto personale, dei caratteri, delle inclinazioni. E di quello che ciascuno, in ultima istanza, cerca dalla musica. Lo stesso “work of art”, per De Gregori, è un’opera d’arte perpetua, perché sempre aperta ad accogliere non solo nuove interpretazioni e nuovi significati, ma anche le correzioni che lo stesso artista apporta nelle sue performance live. L’arte, insomma, è un mondo fortemente soggettivo, continuamente spalancato sul mondo e progressivamente modellato dall’animo dell’artista e dalle emozioni dei fruitori.
La concezione di De Gregori richiama, a questo proposito, la semiotica di Pierce e della sua Grammatica speculativa. Per lo studioso, infatti, la semiosi è un processo triadico e il concetto di “segno” richiede la definizione di tre termini. “Un segno o representamen è qualcosa che sta a qualcuno per qualcosa, sotto qualche rispetto o capacità”, affermava, e che crea in questo qualcuno “un segno equivalente, o forse più sviluppato”, cioè un “interpretante”. Nel processo semiotico, voleva dire Pierce, bisogna considerare non solo l’oggetto a cui il segno rinvia nelle intenzioni dell’emittente, ma anche la soggettività dell’interprete, e dunque “l’interpretante” – l’effetto e le reazioni soggettive suscitati dal segno – che ne deriva.
Che dire, poi, della poesia? Al cantautore romano è infatti stato chiesto conto del suo rifiuto a considerare “poesia” le proprie canzoni. Per De Gregori, la poesia è un’altra cosa: capita, ha osservato ironicamente, di incontrare qualcuno per strada che fischietta una canzone, ma non che declami un testo poetico. A suo avviso, è l’insieme di testo e musica a fare una canzone: ed è in questo senso, e solo in questo, che la musica è anche letteratura, nell’accezione più ampia e complessiva del termine. Ecco perché il premio Nobel a Bob Dylan – suo grande ispiratore – è più che giustificato; ecco perché, in ultima istanza, oggi De André si studia sui banchi di scuola. Secondo la concezione di De Gregori, si potrebbe dedurre che la lirica greca, destinata anche all’accompagnamento musicale, più che poesia – come oggi è etichettata a causa della mancanza della musica – nella sua forma originaria sia anch’essa “letteratura”, e che oggi sia impossibile apprezzarla nella sua interezza proprio perché nulla ci è rimasto di una sua componente, non secondaria rispetto alle parole. Per non parlare di Shakespeare, esempio citato dallo stesso cantautore: non molto capiremmo della sua opera se la considerassimo avulsa dall’irrinunciabile contesto teatrale.
L’estetica di De Gregori, insomma, sembra essere intrisa di modernità sotto più punti di vista: nel suo rifiuto a legare l’arte a doppio filo con una finalità morale o comunque esterna a se stessa; nella sua concezione dell’opera d’arte come aperta alla soggettività dei fruitori e dello stesso artista; nel suo considerare la canzone come un tutt’uno tra musica e parole, nel definirla a pieno titolo un prodotto di “letteratura”, e negli influssi ermetici e dadaisti che troviamo nei suoi testi. Non sarà forse un caso la modalità con cui De Gregori ha raccontato di essersi accostato alla musica: iniziando con l’opera – fusione per antonomasia di musica, parole e performance -, di cui sua madre era grande estimatrice, per poi passare a Bob Dylan, con influssi della musica popolare, e con l’orecchio sempre teso ai grandi nomi americani e italiani che la musica la rivoluzionarono: solo per fare qualche esempio rigorosamente italico, De André e Iannacci.
Chissà se, poi, sia davvero questa l’estetica di De Gregori. Perché, a ben vedere, il cantautore romano che si è raccontato su quel palco è un artista che poco apprezza le verità assolute, le iperinterpretazioni univoche e le esegesi forzate appiccicate addosso alla sua musica. Forse – ci chiediamo ora, ad articolo quasi terminato –, spinti da un eccesso di entusiasmo, con questa breve dissertazione siamo caduti nella stessa trappola che lui ci aveva indirettamente raccomandato di evitare?