Nell'attenzione rivolta agli italo-americani, tra i quali si rende spesso omaggio, a buona ragione, a figure come Joe DiMaggio e Fiorello LaGuardia, un personaggio di forte rilievo è completamente assente, perché sono in pochi a sapere. È tempo che La VOCE vi ponga rimedio.
Nella gloriosa era dello swing, in cui le big band suonavano per grandi folle danzanti e le vendite dei dischi jazz facevano numeri da musica pop, due band dominavano la scena. Tutti gli altri gruppi imitavano, ammiravano e tenevano aperte le porte dei club e delle sale da ballo fino alla successiva visita di una delle “big two”. Una di queste era la rilassata ma focosa band di Count Basie, da Kansas City. L'altra, quella che spiccava su tutti, era la Duke Ellington Orchestra (Benny Goodman arrivò un po' dopo).
Molti critici e musicisti preferivano la band di Basie, che gettò le fondamenta della moda degli assoli improvvisati che sono il cuore del jazz. Ma se i biglietti, i record di vendite e i cachet pagati alle band sono un parametro, allora era senza dubbio la Duke Ellington Orchestra la band più importante d'America. Si muoveva in un alone di raffinatezza e cultura alta. Con tutti i componenti in smoking (Ellington amava indossare scarpe e smoking bianchi) la band aveva qualcosa di una filarmonica: grandi composizioni formali, in cui anche gli assoli erano scritti, dai titoli di "suite" e "fantasia". Liddove la band di Basie includeva nel suo repertorio isolati, semplici riff che si limitavano a condurre agli assolo più importanti, Ellington e i suoi colleghi scrivevano composizioni e canzoni che entrarono a far parte dell'American songbook. Almeno venti pezzi di Ellington sono oggi ancora ampiamente suonati, e sono diventati lo "standard". Non è andata così per Basie.
Ellington era così determinato a volare ad alta quota che definiva la sua band "orchestra", e si rifiutava di usare la parola jazz, che gli suonava dozzinale. Così dichiarò che la sua orchestra non suonava jazz (anche se lo faceva), ma "Negro Music", e inserì in repertorio alcuni motivi pseudo-africani che attiravano bianchi in cerca di esotismo.
Ma allora perché tanti musicisti e ascoltatori acculturati preferiscono Basie? La risposta sta per lo più in una qualità misteriosa e ineffabile che è centrale per la maggior parte del jazz, la qualità dello swing. Non Swing con la lettera maiuscola, che è un genere musicale, ma swing, scritto minuscolo, che descrive quella inebriante, sottile qualità che ti fa ballare sulla sedia, che ti fa iniziare a schioccare le dita ("popping" nel gergo jazz), e produce quella euforia che non trovi da nessun'altra parte. Se si chiede ai musicisti jazz di definirlo scuotono la testa e la lingua si paralizza; spesso utilizzano una variazione al motto di Louis Armstrong secondo cui “se devi chiedere, non lo saprai mai”.
Fondamentale per lo swing di una big band è il batterista. Swing non è solo un tempo preciso: i metronomi non oscillano. In quegli anni la band di Basie beneficiò della spinta propulsiva del grande Jo Jones e, successivamente, del ferocemente-swinging Sonny Payne. Duke Ellington, invece, aveva un problema. Le sue composizioni pesanti e complesse offrivano soltanto qualche occasionale momento di libertà per uno swing come si deve, ma al centro di ogni speranza per quel decollo ritmico c'era un batterista nei confronti del quale Ellington mostrò una solida lealtà nel corso degli anni: Sonny Greer. Fin dai primi giorni di Ellington a Washington, subito dopo la Prima guerra mondiale, Greer fu come un membro della famiglia. Era un uomo di spettacolo, abile nel far volteggiare le sue bacchette e dall'aspetto sempre curato. E aveva una buona tecnica, con il suo modo di suonare fatto di tempi precisi e sincopati. Ben diverso dallo swing. Un'ulteriore difficoltà fu che Greer, nel corso dei due decenni dell'epoca Swing, passò dall'essere uno con il vizio della bottiglia ad essere un alcolista vero e proprio. Tanto che alla fine degli anni '40 era ormai talmente mal ridotto che Ellington fu costretto ad assumere un secondo batterista per mantenere quel ritmo deciso che Greer non riusciva più a tenere.
Avrebbe potuto non avere avuto alcun peso. Gli affari delle sale da ballo erano al collasso e, per molti musicisti, band come quella di Ellington stavano diventando niente più che un lavoro part-time. La popolarità della band di Ellington stava rapidamente svanendo. E il crollo di Greer era ormai così evidente che, nel 1951, nonostante la decennale fedeltà di Ellington, Greer fu sostituito con un batterista della band di Harry James di nome Louie Bellson.
Di colpo, la band si trasformò. Bellson era un batterista trainante e propulsivo il cui swing era ipnotizzante. Ellington lo chiamava "il paradigma della perfezione". Può darsi che Bellson si fosse imbarcato su una nave che stava affondando, ma ora sarebbe affondata a ritmo di swing.
Quando Bellson lasciò la band (portando Ellington a dire, stando a quanto riporta il biografo di quest'ultimo, Terry Teachout: "Sarà terribilmente difficile sostituirlo … Ha aiutato a tenere insieme la band come un tutt'uno, con la sua potenza e la capacità di trascinare") , la band era sulla buona strada per arrivare a godere di una seconda tornata di successo, quasi al livello delle vecchie glorie. Un trionfo al Newport Jazz Festival, la copertina di Time Magazine, e un aumento nelle vendite (nel nuovo formato LP) erano all'immediato orizzonte.
Ci sono due fatti interessanti su Louie Bellson, l'uomo a cui in gran parte si deve il rilancio della più popolare orchestra jazz americana. In primo luogo, questo trascinante batterista dal ritmo swing che diede vita al periodo più stravagantemente swing nella "Negro Music" della Duke Ellington Orchestra, era bianco: il primo musicista bianco che Ellington abbia mai ingaggiato. Significava che Bellson doveva condividere tutto il dolore e gli insulti subiti da una band nera le cui tournée toccavano anche il Sud. Ma significò anche che Duke Ellington fu costretto a rimangiarsi un bel po' di cose su chi poteva suonare questo tipo di musica. Ellington finì per definire Bellson "non soltanto il più grande batterista del mondo … ma il più grande musicista del mondo".
La seconda cosa interessante su questa figura storica del jazz è ben poco nota. Louie Bellson era un nome d'arte. Il suo vero nome era Luigi Paulino Alfredo Francesco Antonio Balassoni.
*Stanton H. Brunett, già direttore degli studi del Center for Strategic and International Studies di Washington, DC, è l'autore di The Italian Guillotine: Operation Clean Hands and the Overthrow of Italy's First Republic (Rowman & Little Field, 1998).
Traduzione dall'originale inglese di Maurita Cardone.