Fabio è appena sceso dal treno. Nella stazione di Sanremo si guarda intorno con aria determinata e spaesata. Tira con la mano destra una valigia piena di sogni, sparsi tra i vestiti da gran serata. Si avvicina e si racconta. Abita a Roma, ad occhio e croce non raggiunge i 25 anni, e ogni anno ritorna nella città ligure per sedersi in platea all’Ariston, per tutta la settimana del Festival. Paga 180 euro a serata per stare vicino a quello che lui vorrebbe fosse il suo futuro. “Ne sono sicuro, io su quel palco prima o poi ci salirò. È solo questione di tempo”. Quello che Fabio non sa è che per poter cantare a Sanremo dentro al ventaglio dei giovani e quindi delle nuove proposte, sedersi e guardare forse può aiutare ma di sicuro non basta. È un percorso lungo, fatto di curve piene di frustrazione, di strade cieche dove il meglio che possa capitarti è prendere una porta in faccia, di no quando va bene, di assenza di risposte nella norma.
Le storie e i volti dei giovani di questa 65ª edizione del Festival della canzone italiana raccontano che solo chi l’ha dura, ma tanto dura, la vince accedendo ad una serata della kermesse, magari però poi per uscirne cinque minuti dopo. Il meccanismo è interessante ma impietoso: i giovani compaiono in tre delle cinque serate, cantano ad inizio serata, come in un duello, uno contro uno. Il voto della giuria è immediato. Carlo Conti alza la mano del vincitore e al secondo tanti cari saluti. Sono otto, vince uno. Gli altri sette restano con l’amaro in bocca di una fame ancora più presente di prima. Perché per emergere come cantanti in Italia serve sfruttare la tv e la TV parla una lingua chiamata Talent o, per i più fortunati, Sanremo.
Li incontro nei loro momenti di relax, sulla terrazza che guarda l’entroterra, in hotel di fronte ad una camomilla. Si lasciano andare e si raccontano senza paure. Senza riflettori e parrucchieri addosso, sono ragazzi normali che si giocano tutto. Hanno storie diverse ma è impossibile non notare un fil rouge che diventa fluorescente e brilla come i loro occhi: la tenacia e la determinazione, anche oltre il buon senso. “Perché nessuno può decidere per te. Ed è finita solo quando tu lo vuoi”.
Anima jazz – Serena Brancale, canta: Galleggiare
Serena Brancale è pugliese, ha 26 anni, una bellezza inconsueta e leggera e questa mattina ha pianto. “Da sola, però, che non mi piace lagnarmi in pubblico, nemmeno con le persone più vicine”. Nonostante una voce che emoziona e fa scendere i brividini lungo la schiena ieri sera è stata eliminata dalla gara con il suo brano dal titolo Galleggiare. Sorseggia camomilla ed è giù di voce. Ma non di umore, nonostante il piantino. “Ero certa sarebbe andata così, ho portato un brano jazz con sonorità soul che ho scritto quattro anni fa. Ho voluto fortemente portare questo pezzo perché mi rappresenta: mi emoziono ogni volta che lo canto e per me questo è molto importante. Vorrei che di un mio brano restasse l’emozione e non il ritornello facile da ripetere in radio – racconta mentre sgranocchia biscottini – Ieri sera mi tremava la voce e la considero una cosa bella, significa che vivo la musica in una determinata maniera”.
Serena si innamora ufficialmente della musica a dieci anni, quando inizia a studiare pianoforte e violino, poi passa agli studi di canto in Conservatorio a Bari. Figlia di musicisti, scrive le sue canzoni e le porta in giro per l’Italia. Ma quanta fatica serve per farsi conoscere? “Sanremo non è una cosa immediata. Avevo presentato un pezzo anche l’anno scorso ma era stato bocciato. Quest’anno, assieme ai miei produttori Michele Torpedine e Bruno Tibaldi, abbiamo optato per Galleggiare”. Ma ora che si torna a far musica dietro ai riflettori non ha paura: “Ho ricevuto tanti messaggi e buone recensioni in questi giorni. Ieri è uscito il mio album che si chiama come la canzone e mi impegnerò al meglio per promuoverlo. Non ho paure per la mia carriera, solo una preoccupazione: che la mia musica non venga inizialmente capita perché troppo di nicchia”. Pino Daniele, Eduardo De Crescenzo e Fabio Concato i suoi modelli italiani uniti a tutto l’r&b americano, da Stevie Wonder in poi. Spera di tornare a Sanremo anche l’anno prossimo, “ci tornerei perché è visibilità ma anche un’ottima occasione di crescita: qui sei costretto a fare i conti con te stesso e parlando di te ti scopri tu per prima”.
La passionaria – Amara, canta: Credo
A proposito di ritorni, c’è una ragazza tosta che ne sa qualcosa. Amara, al secolo Erika Mineo, 30 anni di Prato, ha vinto il concorso Area Sanremo per ben quattro volte, nel 2008, 2009, 2010 e 2011 senza essere mai selezionata per partecipare al Festival. L’artista toscana allora, che come scelta di look indossa sempre un turbante realizzato con una pashmina, si prende due anni di pausa e indirizza il proprio interesse verso una ricerca spirituale. È il 4 dicembre del 2014 quando Amara vince per la quinta volta Area Sanremo e viene finalmente scelta per le nuove proposte con il brano Credo.
Ti prende le mani quando si racconta, guarda dritta negli occhi senza esclusioni di colpi e non smette di sorridere. “Quando continui a battere contro un muro prima o poi si rompe- spiega con tutta l’energia che ha – Si nasce per alcune cose e non ci si può far fermare da niente e nessuno”. Ma lei, dopo vittorie accompagnate da frustrazioni, due anni di pausa se li è presi: “Ho dovuto. La mia stava diventando un’ossessione e l’ossessione è il contrario della passione. Mi sono detta che avevo una percezione di me che però non arrivava agli altri. Mi sono interrogata su cosa non andasse, mi sono messa a cercare la mia essenza e ho capito: prima mi mancava l’umiltà, dovevo dimostrare sempre di più di ciò che ero in realtà. Ora invece ho smesso di avere paura, sono piena di belle emozioni e se dovessi uscire dalla gara sorriderò comunque. Credo nelle cose semplici, dice la mia canzone, Donna Libera è il titolo del mio album. Sono convinta di una cosa: nessuno può fermare la tua vita a parte te”.
Speranza via e-mail – Enrico Nigiotti, canta: Qualcosa da decidere
La pensa allo stesso modo, e forse anche lui per un percorso sofferto, Enrico Nigiotti, livornese ventisettenne. Seduto al tavolino di un bar abbraccia la sua chitarra Gibson acustic con finta indifferenza. Abbronzato, racconta le sue paure: “Ho le classiche paure che ti creano quando partecipi ad un concorso, sull’andamento, è un meccanismo che tira fuori le tue insicurezze”. Nigiotti, prima di arrivare al Festival, ha seguito tutta la trafila classica: i primi gruppetti, i concerti nelle scuole dell’autogestione, un demo inciso a 17 anni in inglese maccheronico, le prime canzoni in italiano registrate in modo più professionale sono il regalo dei genitori per aver superato l’esame di maturità. E mentre lui pensa che la musica sia divertimento e non debba diventare per forza una professione, i genitori, di nascosto, spediscono quel demo alla Sugar, l’etichetta del “re Mida” Caterina Caselli. Il provino di fronte a lei è il passo successivo, il contratto quello dopo.
A 23 anni Enrico partecipa alla trasmissione Amici dalla quale decide anche di autoeliminarsi per la presenza asfissiante delle telecamere. “Da un giorno all’altro mi è caduto il mondo addosso. Per un anno e mezzo ho vissuto come se fossi un personaggio di Bukowski. Scrivevo sempre cose tristi, mandavo e-mail a chiunque ma nessuno mi rispondeva. Per sbarcare il lunario mi misi a lavorare in un magazzino di giocattoli. Poi iniziai a fare il contadino nel podere di mio nonno Tommaso. Avevo la sensazione di aver perso tutto, che non mi avrebbero mai più offerto un’altra possibilità”. E invece. La rinascita si chiama Adele di Palma, storica manager di Fabrizio De Andrè, Ivano Fossati e Gianna Nannini. “Le mandai, come a tutti, due miei pezzi via e-mail.” Lei li ascolta e lo porta alla Universal. “Inizio così a fare da gruppo spalla a Gianna Nannini, in acustico, chitarra e voce. E tutto inizia a girare per il verso giusto”. Poi si blocca e quasi in dialetto dice: “Se te vuoi fare una cosa non puoi smettere. I potenti non possono decidere sull’andamento della vita di una persona. È finita solo quando lo dico io”.
Al festival con nonno – Kaligola, canta: Oltre il giardino
Per Kaligola invece è appena iniziata. All’anagrafe Gabriele Rosciglione, ha 17 anni, frequenta il liceo scientifico ed è il più giovane partecipante in gara. Sul palco dell’Ariston ci è salito con il nonno Giorgio Rosciglione in veste di direttore d’orchestra. Li incontro entrambi sulla terrazza sopra al teatro, è una bella giornata tiepida di sole e nonno e nipote fanno una gran tenerezza. “Per me è un’emozione bellissima – racconta il nonno che è stato per più di 30 anni componente dell’orchestra della Rai – È un’opportunità che mi ha dato mio nipote e per questo lo ringrazio”.
Tra i due, è visibilmente più emozionato il nonno: “È la mia prima volta da direttore e non avrei mai immaginato”. Ma da nonno non ha un po’ il timore di buttare il giovane Kaligola in pasto ai lupi, mettendolo in un circuito più grande e cattivo di lui? “Mio nipote ha una grande sicurezza, ha la testa sulle spalle, è vero potrebbe essere un momento di disillusione ma è anche vero che per noi ora è una festa di famiglia, siamo qui tutti, genitori e zii, la nonna anche, siamo sempre tutti assieme e cerchiamo di festeggiare.”
Un nonno con 30 anni di esperienza nell’orchestra del Festival e ora il nipote in gara, non ci si sta forse muovendo in uno scenario che ricorda le raccomandazioni? “Io spero di avere aiutato mio nipote, con la mia esperienza anche nell’arrangiamento. È naturale che qualche orchestrale si sia mostrato amichevole verso Kaligola. C’è il rischio sì che si parli di raccomandazione ma quando poi si è sul palco è un aspetto che non influisce”. Il nipote intanto, finché chiacchiero col nonno, sta insaccato in attesa. Arriva il tuttologo di turno e si mette a spiegarli che così no, che non è l’atteggiamento giusto, che la postura dice tanto. Kaligola slega le braccia conserte e si difende, “Ma non so dove mettere le mani…”. Poi inizia: “Mi conforta e mi dà sicurezza che il nonno sia con me. Vivo questo palco con una grande gioia e divertimento”. Nonno a parte, chi ha portato Kaligola a Sanremo? “Sono stato scoperto da Antonio Rospini della Rwm Records che mi segue da quando è uscito nel 2012 il brano dal titolo Ego sum Kaligola. Con questa etichetta ho pubblicato anche altri due singoli nel 2014”.
Il vincitore – Giovanni Caccamo, canta: Ritornerò da te

Giovanni Caccamo vince il Festival di Sanremo 2015 per le nuove proposte
Forse per arrivare a Sanremo serve avere una buona stella in cielo, l’abbiamo capito. Per questo c’è anche chi quella stella l’ha aspettata tre ore accovacciato dietro ad un cespuglio. È Giovanni Caccamo, venticinquenne di Modica, il vincitore di Sanremo giovani 2015. “Era l’agosto del 2012. Venivo da tre anni e mezzo di negatività musicale. Avevo ricevuto moltissime porte in faccia e avevo pensato più volte di mollare, diciamo pure che ci pensavo tutti i giorni. Una mia amica mi diede una soffiata: Franco Battiato era in vacanza a Donnalucata e lei sapeva anche in che appartamento. Mi appostai dietro ad un cespuglio per tre ore, lo aspettai. Quando uscì gli diedi in mano il mio demo. Nel pomeriggio mi richiamò”. Caccamo inizia così ad accompagnare Battiato in tour e l’incontro porta al suo primo singolo intitolato L’indifferenza. Ma non si accontenta di avere un papà per la sua carriera, cerca anche una mamma e la trova in Caterina Caselli. Dopo qualche provino, Caccamo entra alla Sugar, una delle etichette più potenti del mercato musicale italiano. Lavora al suo album Qui per te, prodotto in studio a Los Angeles da Daniele Luppi. E negli States ci viene anche lui: “In America c’è una grande apertura musicale, anche di suono. È stata una bella esperienza”.
Battiato su una spalla, la Caselli SUll’altra, la vittoria su tutti, un punto di arrivo per i tanti giovani cantanti impantanati nella panacea del vorrei ma non posso. A loro Caccamo consiglia di “non mollare, chi molla vuol dire che non ha abbastanza fuoco. Cinque anni fa mi trovavo dall’altra parte della barricata, seduto di fronte ai cantanti a fare interviste e domande come inviato per una radio siciliana. Ci ho sperato tanto ma ho anche lottato tanto e rifarei ogni cosa. Sento che il bello deve ancora venire”. Facile dirlo ora. E se quel cespuglio non ci fosse stato? “Ce ne sarebbe stato di sicuro un altro: è solo questione di tempo”. Un trampolino di lancio e una possibile grande carriera davanti ma tra 10 anni dove si vede Giovanni Caccamo? “In Sicilia, la mia terra, il posto che amo”.
I fratellini di Alex Britti – Kutso, cantano: Elisa
Sono già al loro secondo album invece i Kutso, romani, un gruppo irriverente anche nel nome, specie se letto all’inglese. “Però noi siamo dei giovani per modo di dire – dice Matteo Gabbianelli, il frontman e cantante del gruppo – Abbiamo suonato al Concerto del Primo Maggio a Roma di fronte a 700.000 persone e abbiamo aperto il concerto di Caparezza a Miami in occasione del Hitweek Festival. Non voglio dire che Sanremo è una passeggiata ma…”. Sul palco si dimenano come dei forsennati. Con la loro dissacrante Elisa ricordano l’audacia di Elio e le storie tese. Nella prima serata uno di loro si presenta vestito da cespuglio di fiori gigante, nella finale lo stesso musicista diventa un box doccia con tanto di maschera in cartone di Carlo Conti.
La stella, manco a dirlo, c’è anche nel loro cielo e si chiama Alex Britti. “Conosco Alex da quando eravamo bambini – spiega Matteo – Siamo amici di famiglia”. Che gliel'abbia dato un aiutino, visto che Britti è pure in gara tra i big? “Stando qui sto capendo come funziona tutto il meccanismo. È chiaro che tutte le giovani proposte sono portate da etichette o personalità: nel nostro caso la personalità è Britti che è il coproduttore del nostro disco Musica per persone sensibili. Non avevamo mai considerato l’opportunità di partecipare al Festival, è lontano dal nostro genere e dal nostro modo di percepire la musica. Ma Alex, che per noi è un fratello maggiore, ci ha invitati. Siamo nonsense ma anche pura vitalità incontrollata”.
Alex Britti nel loro caso pesa fino ad un certo punto: 18.614 follower su Facebook, fan scatenati pronti a votarli ogni sera, un gran seguito, una gavetta che inizia nel 2006, più di 100 concerti solo nel 2014. “Riusciamo tutti e quattro a vivere di musica, guadagniamo quanto un operaio ma non ci lamentiamo. Sanremo è la nostra levetta del flipper che lancia la pallina e mette in circolo la nostra musica, facendoci conoscere al grande pubblico. Paure? Nemmeno una. Abbiamo già vinto il nostro Festival semplicemente facendone parte con un progetto anti-Sanremo come il nostro”.
La cosmopolita – Chanty, canta: Ritornerai
Il percorso più facile per entrare tra i giovani di questo Sanremo è stato quello della cosmopolita Chanty, vero nome Chantal Saroldi, nata in Tanzania e vissuta a Taiwan prima di arrivare a studiare e lavorare in Italia. Dopo aver studiato jazz al Conservatorio di Cuneo vince una borsa di studio per la Berklee’s College of Music di Boston.
“La musica nel mondo va ad un passo più veloce rispetto a quello italiano – racconta guardando da sotto il suo cappello nero a falda larga, che le incornicia i boccoli afro – Il mio è stato un percorso inaspettato. Ho presentato un brano al concorso Area Sanremo e mi sono stupita quando la giuria ha accolto il mio pezzo non convenzionale. Mi ero iscritta per capire più che altro come funzionasse, come affinare il tiro per partecipare in futuro. Non mi sarei mai aspettata di essere selezionata”. Chanty accetterebbe i compromessi in nome del successo? “Mai – risponde sicura – Per il futuro mi auguro di non stancarmi mai del mio lavoro e del canto. Se devo pensare ad una paura per la mia carriera temo che l’ego possa superare la passione e non voglio cadere in questo errore. Se dovesse succedere, se dovessi cercare più l’approvazione altrui che fare quello che sento io, smetterei di fare musica. Credo fortemente a ciò che faccio: l’arte per l’arte”.
Le idee chiare – Rakele, canta: Io non so cos’è l’amore
Vuoi un ringo?” Mi chiede Rakele, ovvero Carla Perlato, 19 anni, bionda e napoletana. Seduta su una poltroncina mi offre biscotti. È gentile e leggermente spaesata, anche se quando parla del suo brano, Io non so cos’è l’amore, si illumina. Il testo del suo brano dice: “Ho sentito fulmini attraversarmi in fretta e scaricarsi a terra. Se cadesse su di me un pezzo d’infinito, inferno e paradiso, saresti qui con me” e dietro ci sono Runco, Bungaro e Cesare Chiodo, gli autori di Laura Pausini, Ornella Vanoni e Fiorella Mannoia. “Canto dall’età di 9 anni ma sono stata scoperta da Bungaro ad un seminario di canto – racconta con la sua vocina esile che si trasforma quando canta – Quello che mi auguro è che la mia musica passi sempre senza filtri. Tornare nel dimenticatoio è un rischio ma non mi fa paura: questo accade a chi non ha personalità musicale. Per arrivare fino a qui ho fatto tanti sacrifici ma li ho fatti con amore, ad esempio rinunciavo ad andare in discoteca al sabato sera con le amiche per fare lezione di canto”.
A 19 anni e già con le idee chiare, ma da dove le viene tutta questa forza? “Le idee chiare è vitale averle, devi capire quello che vuoi fare e lavorare per questo. Spero di riuscire ad andare avanti un passetto alla volta, non voglio bruciarmi. Cerco qualcosa che non si sbricioli”. Al contrario dei ringo.
La direttrice – Carolina Bubbico, orchestra Rai
C’è un’altra donna bionda, venticinquenne e pugliese di Lecce sul palco dell’Ariston. Non fa parte delle nuove proposte ma addirittura dirige l’orchestra. È la quarta donna direttrice dell’orchestra della Rai e la più giovane di sempre. Si chiama Carolina Bubbico, dirige non solo Serena Brancale tra i giovani ma anche i favoritissimi de Il Volo. Nelle prove a porte chiuse ha appena finito di dirigere, scende dalla sua postazione e lascia il posto ad un collega. Si siede in platea per ascoltare gli altri brani, per osservare tutto. La raggiungo nelle poltroncine di velluto, parliamo durante i brani, un po’ ad alta voce e Carolina si racconta. Anche lei, figlia d’arte, canta. “Prima di essere direttrice ho un mio progetto personale, sono pianista e cantante, il mio disco si chiama Controvento ed è uscito nell’aprile del 2013 sotto l’etichetta indipendente Workin’ Label che gestisce mia madre e distribuito da GoodFellas. L’ho scritto e arrangiato tutto io e sta andando molto bene”.
Ma che percorso si deve fare per arrivare a dirigere l’orchestra di Sanremo a 25 anni? “Io mi sono diplomata al conservatorio in piano jazz, ora sto proseguendo con il biennio. Serena Brancale, mia amica e compagna di conservatorio, mi ha proposto di arrangiare il suo brano e dirigerlo e lei fa parte dello stesso gruppo di management de Il Volo. È iniziata così questa avventura che sta andando benissimo, sto ricevendo un sacco di complimenti dagli orchestrali ed è la cosa che mi rende più orgogliosa. Spero di portare un nuovo modo di percepire la canzone. In questo momento storico sento troppo appiattimento della struttura dei brani, in passato ci sono stati momenti molto più liberi musicalmente parlando. Ora siamo bloccati dalla paura che qualcosa possa non vendere”. Tra fare la direttrice e la cantante, Carolina cosa mette al primo posto? “La mia carriera artistica perché vorrei rendere la mia musica il più popolare possibile. E se un domani, o l’anno prossimo, dovessi ritornare a Sanremo ma questa volta in gara, credo verrei percepita in modo diverso. Spero insomma sia un buon punto di partenza”.
E poi un messaggio sentito troppo poco spesso in questo Festival per tutti: “Vorrei dire che la musica non è affatto per tutti: bisogna studiarla, conoscere i diversi timbri di tutti gli strumenti, le altezze. Serve tanta preparazione per pensare ad un arrangiamento. E poi ragazzi se volete fare musica curate anche le pubbliche relazioni, in questo ambiente sono fondamentali.”
Ritorni – Luca Marino, artista di strada, già nuova proposta
Ho ascoltato le storie dei nuovi cantanti, ho visto gli occhi lucidi, la luce della speranza, la bocca che si piega un po’ di lato in una smorfia quando parlano delle tante occasioni desiderate e non arrivate, prima del grande salto che cambia tutto. O quasi. La più giovane direttrice ha confessato che tornerà ma da cantante. Nella via principale di Sanremo, mentre da un hotel dove alloggia uno dei ragazzi raggiungo nuovamente l’Ariston, mi imbatto in quello che io penso essere un’artista di strada. Suona la sua chitarra acustica e canta a squarciagola. Gli passo davanti come tutti, non ci do peso. Poi lo ascolto, penso che potrebbe aggiungere un tocco speciale a questa panoramica su giovani, musica, sogni e futuro. Duecento metri dopo averlo superato mi blocco di colpo e faccio retrofront. E mi racconta quello che non mi sarei mai aspettata di sentire.
Mi chiamo Luca Marino, ho 33 anni e nel 2010 ho partecipato come nuova proposta al Sanremo condotto da Antonella Clerici”. Lo guardo sbalordita. Ma come? Dopo un Sanremo ancora a suonare in una strada? Mi chiedo, con i miei preconcetti. E la frustrazione di esserci salito su quel palco ed essere cinque anni dopo a qualche centinaia di metri di distanza dov’è finita? Questo cantante non ha una dignità? Ce l’ha eccome. “Avevo un contratto con la Warner, quell’anno avevo partecipato al Festival con il brano Non mi dai pace. Era uscito il mio album e un altro singolo. Ho vissuto quell’esperienza con innocenza e per me ha rappresentato il passaggio all’età adulta. Ma una volta scaduto il contratto ho accusato il colpo. Mi rendo conto oggi di quanto sono stato fortunato. Ora sono un cantante indipendente, autoprodotto. Il 22 gennaio è uscito il mio nuovo album dal titolo Guernica. Sono tornato perché nonostante tutto, anche da fuori, voglio rimettermi in gioco, recuperare contatti. Semplicemente cerco di fare il mio ottenendo più visibilità possibile. Certo, la musica per me è stata sinonimo di frustrazione, mi ha preso a schiaffi, ma bisogna capire che non è il mercato che ti vuole male. Là dentro conta solamente avere le idee molto chiare. In tutto questo mi consola pensare a Vasco e alla sua sconfitta sanremese che però non gli ha precluso di diventare un cantautore”.
Poi si ferma, sorride, è felice che qualcuno torni a parlare di lui, della sua storia che nessuno ha voglia di scovare. “Oggi è il primo giorno del mio ritorno a Sanremo. In effetti avevo un po’ di remore su come avrei potuto prenderla, mi sembrava una cosa strana. Ma ho voluto fortemente il ritorno in questo luogo così importante per me. È tempo di chiudere un cerchio e ripartire”.
Lo ringrazio e mi incammino nuovamente. Chissà se Marco Masini, scrivendo il ritornello della sua canzone sanremese, stava pensando a questi testardi sognatori, cocciuti, pronti a rialzarsi, con la fame di affermarsi e la fama come necessità.
Perché “non è finita fino a quando lo decidi tu”, dicono loro. Perché, “smettila di smettere” canta Masini nel manifesto di una generazione.