La professoressa Annalisa Andreoni, toscana, scrittrice e studiosa della modernità letteraria, scrive di letteratura e cultura sull’ “Huffington Post” e tiene il blog culturale Generazione Goldrake. Oltre a ciò condirige la “Nuova Rivista di Letteratura Italiana” ed è autrice di molte opere universitarie e di libri. La sua più recente pubblicazione è Ama l’italiano. Segreti e meraviglie della lingua più bella , edito da Piemme. Con questo libro, da italianista appassionata, Annalisa Andreoni si rivolge a tutti i lettori mandando il messaggio che il nostro idioma è uno strumento di enorme potenzialità, dimostrandoci come l’italiano abbia lasciato il segno nel mondo della musica, delle arti e della scienza. Questo dovrebbe riempire tutti gli italiani di ammirazione e di orgoglio per la lingua più bella del mondo.
Tra le altre pubblicazioni di Annalisa Andreoni citiamo “Omero italico. Favole antiche e identità nazionale tra Vico e Cuoco” (Roma, Jouvence 2003), “La via della dottrina. Le lezioni accademiche di Benedetto Varchi” (Pisa, ETS 2012) e l’edizione del romanzo “Platone in Italia. Traduzione dal greco” di Vincenzo Cuoco (Roma-Bari, Laterza 2006, con Antonino De Francesco). La professoressa insegna letteratura italiana all’Università IULM di Milano. Le sue attuali ricerche riguardano le scritture femminili del Novecento.
Professoressa Andreoni, l’italiano è la nostra identità: può citare le caratteristiche descritte nel suo libro che definiscono la nostra lingua uno degli idiomi più amati al mondo?
“A partire dal Settecento viaggiatori, poeti artisti e scrittori hanno attribuito all’italiano le caratteristiche della dolcezza, della musicalità, della varietà e della libertà. La lingua italiana «dice tutto ciò che vuole, mentre la lingua francese dice solo ciò che può» scriveva Voltaire in riferimento alla grande libertà sintattica della nostra lingua; le parole italiane giungono all’orecchio «brillanti come un giorno di festa» scriveva Madame de Staël nel romanzo Corinna; per John Keats l’italiano era «pieno di vera poesia», e il poeta si augurava che soppiantasse il francese nel sistema scolastico inglese. Osip Mandel’štam nella Conversazione su Dante parlava addirittura di un «congenito dadaismo» della lingua italiana, per la sua «stupenda infantilità» e la sua «vicinanza al cinguettio dei bambini»: «prendete l’intero vocabolario italiano e sfogliatelo a piacere… Qui tutto rima con tutto». L’italiano è una lingua anche molto ricca lessicalmente, grazie alla possibilità di creare assai liberamente parole nuove attraverso la suffissazione.
Ma anche molti autori stranieri contemporanei mostrano di amare e ritenere unica la nostra lingua. Elizabeth Gilbert, autrice del romanzo Mangia, prega, ama, definisce l’italiano una lingua «più bella delle rose», «una delle più belle e affascinanti lingue del mondo»; Jhumpa Lahiri ha scritto direttamente in italiano il suo ultimo libro, In altre parole, riconoscendo nell’italiano la prima lingua “liberamente” sua propria, dopo essersi sempre sentita colpevolmente divisa fra la lingua madre, il bengalese, e la lingua adottiva, l’inglese”.
Lei racconta la storia della nostra lingua citando poeti medievali e cantanti rock. L’Italia nasce con il Rinascimento e l’Umanesimo, grazie a Dante, Petrarca, Boccaccio, e Pietro Bembo che scrivono in una lingua comune, l’italiano. Qual è il suo poeta preferito?
“Tra i contemporanei amo diversi poeti, ma se devo scegliere, scelgo Giovanni Raboni. Tra gli antichi, invece, senza alcun dubbio Petrarca. Ma quello che fa grande l’italiano è la continuità di una tradizione e di una lingua poetica che dal Medioevo arriva fino alla contemporaneità. Ogni grande autore e ogni grande autrice hanno lasciato nella nostra lingua un’impronta inconfondibile, che ha contribuito a plasmarla e a renderla una delle grandi lingue di cultura nel mondo”.
Se l’italiano è musicalità, dolcezza, amore, e poesia, come si spiega l’uso esagerato di inglesismi e altre parole straniere nel linguaggio degli italiani?
“Una lingua si diffonde soprattutto grazie alla forza del sistema socioeconomico e culturale che la sostiene. In questo senso, oggi la cultura angloamericana è egemone e l’inglese viaggia con essa. Ciò detto, gli anglicismi in italiano sono diffusi al momento oltre ogni ragionevolezza, perché difetta, da parte di chi si occupa di comunicazione, sia nella società che nelle istituzioni, il senso civico. Un malcostume nazionale diffuso è quello di voler incutere soggezione piuttosto che preoccuparsi di essere capiti. È il vecchio vizio del latinorum di Don Abbondio: ci si fa scudo di parole incomprensibili alla maggioranza della popolazione, che non parla inglese, per ammantare di esotismo cose che chiamate con il loro nome italiano sarebbero assai meno attraenti. E si seguono le mode del momento, parlando di spending review invece che di tagli alle spese, di endorsement invece che di sostegno, di jobs act invece che di legge sul lavoro. A ciò si aggiungano atteggiamenti di snobismo che fanno dire location al posto di luogo. Molti anglicismi sono in realtà usati a sproposito e in un senso che gli anglofoni non userebbero mai”.
Le lingue cambiano ed evolvono. Professoressa Andreoni, secondo Lei l’italiano manterrà la sua alta reputazione estetica e culturale di bella lingua?
“Certo, perché al di là del cambiamento della lingua dell’uso, l’italiano è legato alla bellezza della nostra poesia, della nostra opera lirica, dell’arte, del paesaggio e in generale alla bellezza dell’Italia tutta. Ma vede, il problema non è la buona reputazione, della quale noi godiamo senza alcun dubbio, ma trasformare la buona reputazione in capacità attrattiva culturale ed economica insieme. E questo non lo si fa senza crederci e senza investire tempo e denaro”.
Leonardo Sciascia, nel suo romanzo “Porte aperte” scrive: “L’italiano non è semplicemente l’italiano. L’italiano è il ragionare”. Secondo la sua esperienza di docente i giovani di oggi dimostrano equilibrio tra linguaggio e pensiero?
“La capacità di svolgere pensieri complessi è naturalmente legata al linguaggio. Organizzare un periodo con una sintassi complessa non è solo una questione di grammatica, ma anche di capacità logiche e di pensiero. Perciò non dobbiamo rinunciare a insegnare queste abilità insieme. Non possiamo rassegnarci all’idea che i giovani si esprimano solo con brevi frasi giustapposte e non abbiano la capacità di creare architetture sintattiche complesse. La semplificazione della lingua va di pari passo con la semplificazione del pensiero. E purtroppo, sì, i giovani sono, per vari motivi e spesso non per loro colpa, molto esposti a entrambe. Devo dire che anche valutarli attraverso test a risposta multipla, se rende più facilmente misurabile il livello di certe conoscenze, non aiuta a innalzare il livello della complessità”.
Pirandello, nel suo romanzo “Uno, nessuno, e centomila” dice che le parole sono vuote e ognuno le riempie nel proprio senso. Lei pensa che Pirandello avesse ragione?
“Senza dubbio, per buona parte è così. Ma penso anche che per costruire qualcosa insieme agli altri dobbiamo fare leva sulla piccola parte di senso delle parole che è comune e condivisa da ognuno di noi”.
La lingua italiana è un tesoro d’influenza politica e di sviluppo economico, eppure il suo futuro dipende dagli italiani che la parlano. Come spiegare la decadenza dell’italiano tra gli studenti? È colpa dei mezzi di comunicazione o dagli italiani che li adoperano?
“L’italiano non è una lingua in decadenza. È una lingua che, grazie all’istruzione obbligatoria di massa, è passata in alcuni decenni dall’essere usata da pochi all’essere di uso comune e spontaneo tra la quasi totalità della popolazione italiana. Un simile salto, in un tempo relativamente breve, non si fa senza grandi cambiamenti. Da ciò dipende, in buona parte, l’impressione che si ha di una “corruzione” della lingua. A ciò si sommano altri fattori, come lo slittamento, in atto ormai già da un secolo, della nostra cultura dalla comunicazione scritta a quella audiovisiva. Le nuove tecnologie, poi, hanno accelerato il movimento in questa direzione: ricerche recenti mostrano che l’ascolto si sta sostituendo sempre più alla lettura. In questo contesto, se vogliamo che i nostri giovani mantengano alta la competenza nella scrittura, dobbiamo mettere in atto strategie mirate nell’insegnamento scolastico e universitario. Limitarsi a deplorare l’incapacità di scrivere dei nostri giovani come segno della decadenza dei tempi non sarebbe di alcuna utilità”.
Citando una poetessa statunitense, Rita Mae Brown, “La lingua è la mappa di una cultura. Ti spiega da dove vengono le persone e dove stanno andando”. Da italiani sappiamo da dove proveniamo ma comprendiamo dove sta andando la nostra lingua?
“Sarebbe facile rispondere che si va verso un mondo sempre più globalizzato e che dunque anche le lingue seguiranno questo destino, con le lingue egemoniche più forti che sottrarranno terreno alle altre. In realtà le cose stanno in maniera molto più complessa e non prevedibile. Tra i fattori da non sottovalutare, per esempio, vi è il grado di acculturazione di una popolazione, che può favorire l’uno o l’altro esito. Ma vi sono anche le scelte politiche che fa la classe dirigente di un Paese, la quale porta su di sé una grande responsabilità. Per esempio, il ceto politico attuale ha il dovere di scegliere se vuole o meno sostenere l’italiano come lingua della ricerca o vuole dare l’ordine di smobilitazione totale sotto questo profilo.
Il Ministero dell’istruzione ha appena promulgato un bando per Progetti di ricerca di Rilevante Interesse Nazionale (PRIN) che richiede progetti scritti obbligatoriamente in inglese; la presenza di una versione italiana è solo facoltativa. Ciò per tutte le discipline, comprese quelle umanistiche e italianistiche, per le quali la mancanza di sensatezza della scelta è palese. Ciò, oltre a dare una precisa indicazione di rinuncia alla lingua italiana come lingua della ricerca, con tutte le conseguenze negative che a pioggia ne derivano, è lesivo nei confronti della lingua italiana in quanto «vettore della cultura e della tradizione immanenti nella comunità nazionale», secondo le parole della sentenza della Corte costituzionale 42/2017, che ha definito come «costituzionalmente indefettibile» il «primato della lingua italiana».
Vorrei ribadire che questo non è affatto un concetto retorico, perché significa avere rispetto dei propri connazionali, i cittadini che, con le loro tasse, pagano i fondi di ricerca e hanno, in linea di principio, il diritto di poter leggere i progetti nella loro lingua.
Mi impressiona molto, da parte di chi ha responsabilità di governo, la totale assenza di questo tipo di sensibilità. Voglio dire che certamente è la comunità scientifica a dover valutare i progetti e decidere ciò che deve essere finanziato, ma è doveroso che ciò che si fa con i fondi pubblici sia accessibile a tutti i cittadini nella lingua nazionale. Chiedere la stesura dei progetti anche – non solo, naturalmente – in lingua italiana serve anche a questo: a mantenere vivo un concetto di cittadinanza forte, attiva e partecipe. Sono valori ai quali non dobbiamo rinunciare”.