Il linguista e neuroscienziato italiano Andrea Moro, è professore ordinario di linguistica generale presso la Scuola Superiore Universitaria (IUSS) di Pavia, dove svolge il ruolo di Rettore Vicario e dirige l’Area delle Scienze Cognitive, Comportamentali e Sociali. Responsabile anche del dottorato di ricerca in Neuroscienze Cognitive e Filosofia della mente, Moro ha studiato prevalentemente sintassi teorica e i fondamenti biologici del linguaggio e ha sviluppato un piano di ricerca sul legame tra cervello e linguaggio in collaborazione con neurochirurghi e ingegneri dell’Università di Pavia. Professore associato di linguistica anche presso l’Università di Bologna, è stato varie volte “visiting scientist” presso il MIT e la Harvard University, collaborando in passato e tuttora con Noam Chomsky, Professore Emerito di Linguistica al MIT. Moro ha tenuto corsi e seminari anche alla Scuola Normale di Pisa, la NYU, il Collège de France, la University of Cambridge, l’École Normale Supérieure a Parigi ed il Max Planck Institute a Lipsia.
Moro è autore di numerosi articoli in riviste scientifiche internazionali, e molti libri sulla mente, cervello, linguaggio e biologia della comunicazione, tra cui citiamo: Parlo dunque sono (Adelphi 2012; traduzione inglese I Speak Therefore I Am, Columbia University Press 2016, Impossible Languages, 2016, e I confini di Babele, II edizione ( Il Mulino, 2015; traduzione inglese The Boundaries of Babel, MIT Press 2015.
Alla Voce di New York, Andrea Moro ha concesso questa intervista.
Professor Moro, gli uomini hanno migliaia di linguaggi per esprimere i loro pensieri, ma di che cosa è fatto fisicamente il linguaggio umano?
“Il linguaggio umano vero e proprio è fisicamente fatto di onde ma il tipo di onda dipenda dall’ambiente fisico che si esamina. Se si prende in considerazione il linguaggio fuori da noi è fatto di onde d’aria (il suono) se invece si prende in considerazione il linguaggio dentro di noi è fatto di onde elettriche che sono il codice con il quale i neuroni comunicano tra di loro almeno quando si tratta di computare strutture cognitive come quelle pertinenti nel linguaggio. Ovviamente, fuori di noi c’è anche la scrittura che converte suoni in immagini, dunque anche in quel caso in onde elettromagnetiche”.
Come si elaborano le informazioni grammaticali delle parole nel nostro cervello?
“Si tratta sempre di attivazione di reti dedicate ma purtroppo la situazione è molto complicata: intanto bisogna capire che si sono almeno due famiglie diverse di parole, quelle che appartengono al gruppo dei nomi, degli aggettivi e dei verbi che normalmente possono variare di numero e rappresentano concetti, azioni, oggetti o qualità; poi ci sono le parole che invece servono per stabilire relazioni tra le altre parole come le congiunzioni, la negazione, gli articoli. Ci si aspetta che le due famiglie di parole attivino reti molto diverse, le prime ad esempio possono incorporare riferimenti a domini diversi, come quando dico “forbice” o “martello” e si attivano anche circuiti che si attivano quando si usano questi arnesi. Infine le parle si legano le une alle altre formando le frasi e allora in questo caso la situazione si complica ancora di più e nascono nuovi significati: si chiama sintassi ed è la caratteristica tipica del linguaggio umano”.
Qual è e da cosa dipende, il limite per formulare o imparare nuove parole per un individuo?
“Per le parole del primo tipo – rispetto alla classificazione cui ho fatto cenno – ci sono limiti logici: ad esempio una volta esaurite le preposizioni non posso metterne di nuove. Per le parole del secondo tipo invece potenzialmente potrei averne quante ne voglio, ci sono solo limiti di memoria e di opportunità”.
L’apprendimento dei nomi e le forme grammaticali, che rappresentano le azioni, dipendono dagli stessi circuiti cerebrali? Oppure da parti diverse del cervello?
“Se per ‘stessi’ si intende gli stessi che sottintendono alle azioni parzialmente sì: però le parole hanno una loro rete speciale che può al massimo solo sovrapporsi parzialmente con la rete che controlla un movimento o un’azione”.
Il nostro cervello è un enorme archivio di repertori e complessi schemi linguistici, eppure gli italiani hanno sempre usato il gesto insieme alle parole per comunicare. Come spiega la necessità di usare i gesti per esprimerci?
“Il concetto di archivio enorme vale soprattutto per le parole ma gli schemi linguistici non sono generati sulla base di un archivio enorme, anzi più si procede nella ricerca e più si capisce che gli schemi linguistici sono generati da poche istruzioni che però si ripetono potenzialmente all’infinito, un po’ come quando si genera un fiocco di neve. Per i gesti la questione è sottile: ci sono dei gesti che usano tutti (inglesi inclusi) e sono movimenti leggeri delle mani che in qualche modo danno per così dire il ritmo alla frase. Poi ci sono in vece dei gesti ben codificati ma questi non sono tipici di tutte le varietà dell’italiano: sono anzi ben radicati in realtà urbane e regionali precise”.
Secondo lei, i ragazzi dovrebbero muoversi durante la lezione per stimolare la corteccia motoria e facilitare l’apprendimento della lingua?
“Domanda interessante! Io quando spiego riesco a farlo solo se cammino… non sono sicuro che camminare sia comodo anche per chi mi ascolta, soprattutto se deve scrivere, però al di là delle battute muoversi può avere un effetto positivo sulla concentrazione. In fondo i peripatetici ne avevano fatto un metodo”!
Nel suo libro I confini di Babele evidenzia l’incontro di due culture: la linguistica e la neuroscienza cognitiva. Il pensiero e il linguaggio dipendono dalle stesse parti celebrali?
“È una domanda molto difficile anche perché è difficilissimo dire cosa si intende per ‘pensiero’: i cani, ad esempio, certamente pensano e comunicano ma non hanno un linguaggio nemmeno paragonabile al nostro. Dunque direi che si può assumere con certezza che esiste un pensiero non linguistico ma che il pensiero cosciente umano non può essere totalmente sconnesso dal linguaggio sennò sarebbe limitato a pochi riferimenti e quasi tutti al qui e ora”.
Che cosa accade nel nostro cervello quando pensiamo? Si può leggere il pensiero?
“Leggere il pensiero direi di no anche perché non si sa bene come definirlo. Se però ci si limita al pensiero che viene veicolato dalla parola, anche dalla parola interiore, allora la possibilità di leggere nel pensiero sembra quasi alla portata di oggi. Analizzando le onde elettriche delle reti che sottostanno al linguaggio risulta possibile immaginare di ricostruire il contenuto acustico e dunque le parole pensate. Questo potrebbe portare ad enormi vantaggi nel caso di pazienti afasici che avessero solo un problema motorio periferico (controllo della laringe e dell’apparato fonatorio della bocca) oppure portare ad un uso invasivo di questa tecnica per carpire pensieri che non si vogliono rivelare, ad esempio ad opera di una polizia del futuro che volesse un’informazione che una persona non vuole cedere”.
Il 45esimo presidente USA, Donald Trump, è molto criticato per il suo pessimo linguaggio. Secondo i suoi studi e osservazioni, parlar male significa non riflettere prima di esprimersi, oppure chi parla male pensa anche male, come diceva Nanni Moretti?
“Credo che dal punto di vista neuropsicologico non ci si possa esprimere senza riflettere; il che aggrava solo la situazione. Ad ogni modo – forse per fortuna – questi temi non pertengono alla linguistica ma alla psicologia…”