13th Avenue, New York. 1959. Lucia Berlin osserva i figli Mark e Jeff. I loro giochi si sono fatti più complessi anche se hanno pochi anni. I bambini hanno un modo lento e silenzioso di trasformare l’ambiente, di decodificare tutto quello che li circonda in una casa. Sono molto più bravi di lei in questo. Lucia si avvicina al suo diario e scrive:
Race mi ha perdonato il tradimento con Boody, credo. In ogni caso abbiamo deciso di cominciare una nuova vita a New York. Abitiamo in un monolocale piccolissimo sulla tredicesima strada, al quinto piano. È luminoso e soleggiato, le finestre affacciate sui tetti con camini come minareti. Piccioni e parrocchetti azzurri smarriti. La prima sera sono rimasta seduta alla finestra a osservare una vera scala antincendio e scorgere un tramonto rosa tra gli edifici marroni. Le persone negli altri appartamenti si gridavano contro o parlavano sottovoce dolcemente. Ero elettrizzata. Questa è la vita. Questa è New York! Ma poi mi son resa conto che quelle voci provenivano dalla TV anche se sul momento non l’avevo mica capito.
Estratto tratto da Welcome Home: A Memoir with Selected Photographs and Letters (Welcome Home, traduzione di Manuela Faimali, Bollati Boringhieri)
Lucia Berlin aveva appena ventitré anni quando andò a vivere a New York con due figli piccoli e il marito Race, ma Buddy Berlin, il suo ex amante e musicista jazz, si presentò a casa sua di notte con quattro biglietti per Acapulco. Lei lasciò il suo secondo marito per scappare con Buddy Berlin che si rivelò il più grande amore della sua vita.
Il Publishers Weekly (tra gli altri) ha definito Lucia Berlin “la più grande scrittrice americana di cui non avete mai sentito parlare”. Nel corso della sua vita ha pubblicato settantasei racconti, molti dei quali sono apparsi su riviste come The Atlantic e The Noble Savage. “My Jockey” ha vinto il Jack London Short Prize per il 1985 (qui il video dove lo legge dal vivo).
Nel 2015 è stata pubblicata la raccolta postuma A Manual for Cleaning Women: Short Stories (La donna che scriveva racconti, traduzione di Federica Aceto, Bollati Boringhieri), la prima settimana ha debuttato al numero 18 della classifica dei bestseller del New York Times. La raccolta non era eleggibile per la maggior parte dei premi (sia perché l’autrice era deceduta sia perché si trattava di materiale di recupero), ma è stata inserita in un gran numero di liste dei migliori libri di fine anno, tra cui quella dei “10 migliori libri del 2015” del New York Times Book Reviews al 14° posto nella lista dei bestseller Indie dell’ABA e al 5° posto in quella del Los Angeles Times.

Lucia Berlin, nata nel 1936 a Juneau, in Alaska, e morta nel 2004, il giorno del suo sessantottesimo compleanno, ha basato molte delle sue storie su eventi della sua vita. Mark Berlin, uno dei suoi figli ha dichiarato al Granta: “Le nostre storie e i nostri ricordi di famiglia sono stati lentamente rimodellati, abbelliti e modificati al punto che non sono sempre sicuro di ciò che è realmente accaduto. Mia madre diceva che questo non importava: la storia è l’importante”.
Lucia Berlin si trasferì per sfuggire agli spacciatori di eroina che perseguitavano Buddy Berlin, a metà degli anni Sessanta. Si è trasferita perché non riusciva a pagare l’affitto. Una volta si è trasferita perché aveva accidentalmente bruciato la sua stessa casa. Si è spostata per trovare lavoro: come governante, assistente di un medico, insegnante di scuola e centralinista. Si è trasferita per assumere un incarico come professore ospite di scrittura creativa presso l’Università del Colorado a Boulder nel 1994. E poi, alla fine della sua vita, si è trasferita a Marina del Rey per stare vicino ai suoi quattro figli.
Durante questi numerosi spostamenti, la scrittura di Berlin è stata la sua costanza. Al Granta, il figlio Jeff Berlin ha raccontato che i suoi primi ricordi sono quelli di “quando andavamo in giro in triciclo nel nostro loft del Greenwich Village mentre la mamma batteva sulla sua macchina da scrivere Olympia” nel 1961. L’autrice ha continuato a scrivere per decenni, tra matrimoni difficili, alcolismo, guarigione e problemi medici ricorrenti, tra cui la scoliosi che le ha perforato un polmone.
Berlin ha un umorismo cupo, una prosa diretta e un’audace mancanza di integrità strutturale: se le sue raccolte fossero case, i loro corridoi cambierebbero direzione senza preavviso e le loro stanze sarebbero semplici ma piene di colori e di odori. Amava la musica (il suo brano preferito era Polka Dots and Moonbeams del jazzista Lester Young) e la mancanza strutturale nelle storie ricorda proprio alcune sessioni di improvvisazione jazz (in alcuni racconti parla con il lettore, in altri cambia tra la terza e la prima, altri ancora ricordano delle confessioni).
I suoi lavori possono essere facilmente letti come precursori dell’autofiction, e molti dei suoi protagonisti portano il suo stesso nome. Ma quando alla fine degli anni Cinquanta la Berlin iniziò a pubblicare per le riviste, il termine “autofiction” non era ancora stato coniato. I redattori non sapevano cosa fare delle sue storie insolitamente personali, e nemmeno alcuni dei suoi amici: Il poeta Robert Creeley liquidò il suo lavoro come quello di una “dilettante” e le raccomandò invece di “essere come un albero per tuo marito“.

Il poeta Ed Dorn, invece, la sostenne sempre: di tutti i legami che Berlin costruì attraverso la scrittura, l’amicizia con Dorn fu la più importante. Lo aveva conosciuto nel New Mexico negli anni Cinquanta grazie al suo secondo marito, il pianista jazz Race Newton. Nel 1959, Berlin inviò a Dorn uno dei suoi primi racconti, “El Tim“, insistendo sul fatto che, sebbene “Creeley dica che sono una dilettante”, lei sapeva di non esserlo. Dorn fu d’accordo con lei e la esortò a continuare a scrivere e a inviare i suoi lavori. El Tim” fu pubblicato su The Critic nel 1961.
La corrispondenza tra Berlin e Dorn continuò per decenni. A metà degli anni Settanta, lui le presentò i fondatori di Zephyrus Image, la casa editrice di San Francisco che pubblicò la sua prima raccolta di racconti nel 1977. Berlin aveva quarantuno anni e aveva trascorso i quindici anni precedenti lottando per finire le storie mentre lavorava, beveva e cresceva da sola i suoi quattro figli. Vedere il suo lavoro stampato le rinnovò la fiducia e l’aiutò a superare l’alcolismo (nascondeva bottiglie di Jim Beam dietro la lavatrice e si svegliava ripetutamente nei reparti di disintossicazione della contea). Ma attraverso le storie che scriveva, ha creato dei contatti, che sono diventati amici, che sono diventati una rete di supporto.
Dorn offrì a Berlin un posto di insegnante alla CU Boulder, dove trovò una “comunità di pari” di “un tipo che non aveva mai avuto prima”, secondo le parole di un altro caro amico, Stephen Emerson. La comunità letteraria che circondava Berlin a Boulder la aiutò a rimanere sobria e la incoraggiò a scrivere. I racconti della Berlin ebbero relativamente pochi lettori fino a un decennio dopo la sua morte. È stato solo quando è stata pubblicata la sua raccolta postuma A Manual for Cleaning Women nel 2015 che la Berlin è diventata nota al mondo.
In Italia il libro ha avuto così tanto successo che il Festival delle Letterature di Roma ha ospitato, nel 2015, un reading dedicato alla “donna che scriveva racconti”, a cui hanno partecipato scrittrici come Simona Vinci, Teresa Ciabatti e Valeria Parrella. Il regista spagnolo Pedro Almodóvar ha rivelato a Indiewire che dirigerà Cate Blanchett in un film su Lucia Berlin.
Dopo il successo sono stati pubblicati un’altra raccolta di racconti Evening in Paradise (Sera in paradiso, traduzione di Manuela Faimali, Bollati Borighieri editore) e il memoir Welcome Home: A Memoir with Selected Photographs and Letters.
Mark Berlin, nella postazione di Sera in paradiso scrisse
“Da giovane, mamma ci portava in giro per le strade di New York; nei musei, a incontrare altri scrittori, a vedere una tipografia in funzione e pittori al lavoro, ad ascoltare il jazz. E poi all’improvviso eravamo ad Acapulco, e dopo ad Albuquerque. Le prime tappe di una vita in cui restammo in media nove mesi in ogni abitazione.”
Lucia Berlin ha trasformato i traslochi, gli incontri, la sua stessa vita nelle storie con una tale onestà, con una tale bravura che quando si finisce un suo racconto non solo si crede fermamente che lei abbia vissuto quel momento, ma anche il lettore.
In una delle ultime interviste ha dichiarato: “Quando scrivi una frase è lì e non cambia e non si muove, quindi per me è un luogo”. In qualche modo la sua unica e vera casa sono state davvero le storie, solo le storie.