Writing Retreat. West Coast. 10 maggio 2022. Tarda notte. Vanessa Veselka si gira nel letto. Non riesce ad addormentarsi. Succede sempre così quando dorme in un letto nuovo. Nel silenzio immobile della camera da letto della residenza per scrittori, il suo cellulare vibra. Allunga il braccio e lo afferra. Lo sfiora con il polpastrello e un fascio di fredda luce grigia le illumina il viso.
Un certo Michele Crescenzo l’ha taggata in un post su Instagram affermando che The Great Offshore Grounds (Le grandi terre del largo, traduzione di Margherita Emo, Einaudi) è il più bel libro che ha letto quest’anno. L’autrice statunitense si passa una mano sul volto. È sorpresa. Nei suoi articoli, racconti e romanzi lei affronta i temi delle donne, della violenza e della strada (come in The Truck Stop Killer, dove ha raccontato di aver preso un passaggio da uno che si dichiarava serial killer), nonché dello stupro, della salute mentale (con l’inchiesta These Memory Care Workers Went on Strike to Save Lives, dove analizza le criticità di una casa di cura in Oregon) e della lotta (come in “The Wake of Protest“, dove ha raccontato le manifestazioni di Occupy).
Ecco, come può essere piaciuto il suo romanzo a questo italiano? Mette la mano sul labbro in modo pensieroso. The Great Offshore Grounds racconta la storia di due sorelle in cerca di sé stesse durante gli sconvolgimenti del mondo di oggi. È un esame dettagliato del femminismo, delle vite vissute ai margini. Le sorellastre Livy e Cheyenne, entrambe trentatreenni, sanno soltanto che “una delle loro madri voleva dei figli e l’altra voleva inseguire la Stella Polare”. Quella che voleva dei figli è Kirsten, che è madre biologica di una di loro ma che ha cresciuto da sola sia le sorellastre che Essex, il loro fratello adottivo trovato per strada.
The Great Offshore Grounds è un romanzo incentrato sulla complessità dei personaggi: analizza il difficile rapporto tra le sorellastre, la scelta di Essex di arruolarsi come Marine, la battaglia di Kirsten contro la malattia. Segue il viaggio di Cheyenne che finisce in una yurta nella Carolina del Nord, e di Livy, la cui serie di disavventure (e l’essere vittima di un abuso) su barche da pesca in Alaska la portano a innamorarsi di una donna, spinta dal suo attivismo anticapitalista.
Vanessa Veselka scuote il capo. Cosa davvero può aver colpito così tanto questo italiano? Forse l’ha letto per i premi che ha ricevuto, forse no. Nel dubbio gli scrive. Chattano per un po’ e dopo poco si rende conto che questo Michele Crescenzo non sa nemmeno che The Great Offshore Grounds è stato nominato per il National Book Award 2020 e che si è aggiudicato il Ken Kesey Award degli Oregon Book Awards 2021. Lui ha semplicemente iniziato il romanzo e non è riuscito più a smettere.
Le è simpatico. Chattando scopre che è di Napoli ma vive e Milano. Così gli racconta di dell’ultima volta che ci è andata (sarà stato nel 1987) ed è stata presa dalla polizia.
Viaggiavo senza soldi. Dormivo sui treni, mi procuravo qualche moneta suonando la chitarra per strada. In un giorno molto freddo di dicembre sono arrivata a Milano. Vendetti una collana d’oro in un bar per un espresso e una bottiglia di Johnny Walker. Il giorno dopo le strade erano vuote e faceva freddo, così ho iniziato a suonare sempre più vicino al Duomo. Le porte erano aperte e il suono iniziava a riecheggiare. Ho una voce forte e mi piaceva l’acustica. Come diciottenne non avevo grandi pensieri riguardo al rispetto degli altri. Ero un sacrilegio ambulante. Mi hanno preso il passaporto e hanno cercato di farmi pagare soldi che non avevo. Uno sconosciuto ha pagato per me e mi hanno detto di lasciare Milano. Ecco l’ultima volta che ci sono stata.
Prima di salutarsi, Michele Crescenzo le racconta che scrive per La Voce di New York e che vorrebbe fare un pezzo su di lei. Le chiede uno spunto, un’idea, perché ogni articolo si concentra sugli scrittori e il loro rapporto su New York. Così su due piedi non gli viene in mente nulla, ma le piace l’idea. Ci penserà. Saluta e spegne il cellulare. Prova a dormire, ma non ci riesce. La prima notte in un posto nuovo è sempre più difficile.
Così cerca di pensare a qualcosa che la leghi a New York, ma in quel momento le viene in mente solo quando se ne andò via, quando scappò di casa da adolescente, viaggiando da clandestina sui treni merci, lavorando come cameriera e operatrice del sesso, frequentando l’ambiente musicale e lottando come sindacalista. Ripensa a quando i suoi racconti sono apparsi su Tin House e ZYZZYVA, su GQ, The Atlantic, The Atavist, Bitch Magazine, Smithsonian, The AtavisteThe American Reader.
Ripensa al suo primo romanzo, Zazen, che è nato da un racconto pubblicato da Tin House nel 2010, e che è stato pubblicato a puntate online da Arthur Magazine e poi dall’editore Red Lemonade di Richard Nash e infine 25 agosto 2020 da Knopf.
Il libro è stato nominato per il Ken Kesey Award for Fiction e ha ricevuto il premio PEN/Bingham “per un’opera di narrativa d’esordio che rappresenta un’importante realizzazione letteraria e suggerisce una grande promessa”. Zazen racconta la storia di Della, una giovane paleontologa che vive in un’America parallela sull’orlo di una guerra, dove il coprifuoco e altre restrizioni danno alla polizia una scusa per la violenza.
Vanessa Veselka sta pensando a tutto tranne che a New York. Così si alza, accende il computer e inizia a scrivere:
La New York della mia infanzia è scomparsa ma è vivida nella mia mente. Sono cresciuta nel West Village quando Little Italy era più grande e i bambini dell’isolato accanto andavano tutti alla scuola cattolica e, per varie ragioni un po’ nefaste, le anziane signore della chiesa italiana erano più al sicuro lì che in qualsiasi altra parte del mondo.
Il mio fratellino comprò un fumetto a Bleecker Street e poi lo restituì perché era in italiano, e la donna che gestiva il piccolo minimarket come se fosse un ufficiale di marina si rifiutò di riprenderlo, accusandolo di essere un italiano ma di nasconderlo, e smise di parlargli in inglese ogni volta che veniva a comprare le sigarette per la mamma, cosa che a quei tempi poteva fare anche un bambino.
Ogni anno andavamo alla festa di San Gennaro, che si trovava a pochi isolati di distanza sulla Houston a est della Sesta Avenue. Quello era un lato del mondo. L’altro lato era costituito da pattini a rotelle, discoteche e preti episcopali gay. La mia madrina era una donna che aveva aperto il primo bar per lesbiche di New York con soldi presi in prestito proprio da italiani. Oggi forse si sarebbe identificata come trans, ma allora era una “lesbica maschia”. Il suo buttafuori, l’altro mio quasi padrino, era un uomo trans di nome Stormy che era solito mostrarmi una foto segreta di sé come giovane e bella donna a New Orleans.
Venivo da queste due tensioni nel quartiere, dai santuari cattolici e dalle discoteche a rotelle e dagli eroi di Stonewall e dall’AIDS e dalla vecchia metropolitana etichettata che emetteva il suo continuo di treni che si scontrano con il metallo. Il mio primo amore è stato sul treno L. Un ragazzo di Greenpoint di famiglie di Greenpoint. Sua madre era irlandese e suo padre portoricano, ma lui fingeva di essere italiano e prendeva il nome di Dante, cosa che nessuno di noi sapeva finché non confessò la verità durante una cena, inorridito dalla vergogna di essere portoricano.
Vivevo negli squat del Lower Eastside quando l’isolato in cui abitavo (il 13° tra A e B) era indicato come l’isolato più violento di New York nell’anno – 88? 89? – e ho partecipato alle rivolte di Tompkins Sq. Suonavo alle 4-6 del mattino in uno Speakeasy che si trovava sulla Nona tra la B e la C diverse sere alla settimana – e vagavo per gli orti urbani creati da Adam Purple sotto i manifesti di Seth Tobocman, suonavo al Pyramid Club e bevevo creme d’uovo all’edicola di Leshko’s.
Una volta ho trascorso un’intera estate portando in giro una chitarra senza custodia e un secchio per il compost bianco al posto della borsa. Nel secchio tenevo panini, tacchi alti, bourbon e corde di chitarra di riserva. Ogni volta che camminavo e un senzatetto mi chiedeva di suonare una canzone, scaricavo tutto nel secchio, mi ci sedevo sopra e suonavo. Quell’estate ho conosciuto tutti i senzatetto del Lower East Side, e ce n’erano molti. Ormai New York è come un luogo di passaggio, anche se mi manca sempre, mi mancano le tante e diverse parti di questa città. Non mi mancano i luoghi in cui sono cresciuta perché non ci sono più e non sono una persona nostalgica. Ora Manhattan e Brooklyn sembrano un’unica grande area di ristorazione di alto livello. Vedo amici nei ristoranti, guardo la gente sui treni. Immagino che potrei tornare a vivere lì, ma non conosco più nessuno, non proprio.
Vanessa Veselka clicca invio. Chissà cosa ne penserà l’italiano.
Si volta e torna a distendersi sul letto. Poggia una mano dietro la testa e rimane a guardare la notte scura fuori dalla finestra ancora per un po’ prima di chiudere gli occhi e, finalmente, addormentarsi.