Se è vero che una fotografia è, secondo il significato etimologico, “scrittura di luce”, un album di foto di famiglia può farsi custode della memoria storica di un’intera dinastia familiare, celando persino segreti che non possono espressi a parole. È il senso dell’ultimo romanzo di Valentina Olivastri che, dopo aver compiuto studi rinascimentali presso l’University College di Londra e svolto attività di traduttrice, è ora Principal Library Assistant presso la Bodleian Library dell’Università di Oxford, dunque una donna italiana, nello specifico originaria della provincia aretina (particolare di non poco conto nella sua produzione letteraria), fruttuosamente trapiantata in UK. Dopo aver collaborato come pubblicista con il quotidiano britannico The Guardian e pubblicato il suo primo romanzo Prohibita imago nel 2009 per Mondadori e il secondo, La donna del Labirinto, per Miraviglia Editore nel 2013, esce nel 2021 con L’album di famiglia optando stavolta per l’autopubblicazione.
Scovato in una bancarella della fiera antiquaria di Arezzo, dunque, un album di foto di famiglia, “oggetto malinconico” che parla di una vita in parte vissuta, in parte sfuggita di mano, fa emergere segreti sepolti dalle coltri polverose dell’oblio, scuotendo non solo le sorti di una famiglia, ma di un intero paese. Nello scorrere le immagini sbiadite di un passato lontano, riaffiorano alla mente avvenimenti che, come sliding doors, se fossero andati diversamente, avrebbero cambiato la direzione di più di un’esistenza. La protagonista Edi, dopo anni vissuti a Londra, torna ad abitare a Borgo, uno dei tanti splendidi paesetti toscani in cui il tempo sembra fermarsi, inducendo a una riflessione sul senso profondo dell’esistenza da cui affiorano i ricordi veri, “di quelli che rimangono impigliati nel cuore”. E così la donna, straniera e, allo stesso tempo, radicata nel borgo natio, cerca di dare, varcato il “fragile crinale” dei quarant’anni e reduce da un matrimonio finito male, una svolta alla sua vita compiendo attività rilassanti concepite come pillole contro il mal d’amore. Si intrecciano nel romanzo altre storie di donne vittime di luoghi comuni e pregiudizi che, come Ofelia e Desdemona, sfidano le convenzioni patriarcali alla ricerca della definizione di un nuovo ruolo della donna nella società. Contrappunto del libro è il colore locale toscano, a partire dal tema gastronomico che sembra infondere nelle pagine le fragranze veraci della terra toscana.
Partiamo dal titolo del suo romanzo. Quanta verità e quanta vita può trattenere un album di fotografie di famiglia?
“Un album di foto è una sorta di sostegno della memoria, un’incursione nel passato che ci permette di fermare lo sperpero del tempo. Volti, gesti, sfondi irrompono in uno spazio dove i protagonisti sono in scena in un’impresa emotiva. Ma quanto somiglia alla realtà una foto? Una raccolta di immagini ci aiuta soprattutto a intravedere ciò che essenzialmente non è stato fotografato, a dispiegare uno stato d’animo, a fissare un punto di equilibrio tra ricordo e desiderio”.
Lei è originaria di Cortona, in Toscana, e vive in Inghilterra. Quanto c’è di autobiografico nella descrizione di Borgo?
“Renato Guttuso sosteneva che anche quando disegnava una mela, in quella mela vi fosse la Sicilia. Questo è altrettanto vero del rapporto tra me e Cortona. Durante la stesura dell’Album di famiglia, alcune memorie sono riemerse fra le righe come in una camera degli specchi e quei riflessi luminosi hanno fatto, a volte, virare Borgo e la sua storia verso una direzione inaspettata”.
Protagonista del romanzo è una donna di 40 anni, Edi, delusa e insoddisfatta dopo un matrimonio fallito. In un’epoca in cui molte donne di mezz’età si ritrovano ad essere single, può essere una buona soluzione quella di darsi alle avventure amorose, come Edi pensa di fare con Lorenzo?
“Edi è essenzialmente una romantica, ma la fine di un matrimonio non le ha tolto il gusto di intriganti avventure, e la sua crisi di mezza età non ha affatto toni drammatici. Sprezzatura e ironia sono le lenti attraverso le quali Edi guarda al chiaroscuro dei sentimenti e dunque una storia priva di complicazioni sentimentali può, certamente, rinfrancare lo spirito”.
Si intrecciano nel romanzo storie di donne vittime talvolta di luoghi comuni, a partire dalla protagonista che, quando torna in paese, si pensa sia a causa della menopausa incombente… Pensa siano ancora molte le realtà sociali, in Italia e altrove, vittime di pregiudizi maschilisti?
“Nel romanzo, la maggior parte delle protagoniste femminili si disfa dei luoghi comuni come di un fastidio passeggero e, con naturalezza, ne mette in evidenza la dappocàggine. La natura umana, tuttavia, è quella che è, e immagino che vi saranno sempre realtà sociali in cui le donne saranno vittime dei pregiudizi maschili. Tuttavia, se si rivolge lo sguardo al passato, ci si accorge di quanto sia già stato fatto”.
Il cibo è senza dubbio uno dei protagonisti del romanzo. Quanto è importante nella cultura toscana, e in generale, italiana?
“L’importanza del cibo è sancita dal fatto che le più antiche ricette conosciute sono scritte in cuneiforme nell’argilla della Mesopotamia e risalgono a circa 4000 anni fa. Per quanto riguarda la tradizione regionale in Italia basta fare riferimento allo studio La cucina italiana. Storia di una cultura. Direi quindi che la cultura gastronomica non rappresenta tanto un “colore locale” quanto un essenziale ingrediente dell’identità di una regione. Inoltre il cibo è connesso al piacere di condividere qualcosa di gioioso. Dopotutto, “compagno” è colui con cui si divide il pane, quello che c’è sulla tavola e anche i filosofi più antichi hanno riconosciuto il significato profondo del Simposio o, nel caso di Dante, del Convivio”.
Che significato ha inteso dare all’uso del dialetto toscano che, intrecciandosi con la lingua colta, conferisce al romanzo un’interessante stratificazione linguistica?
“La lingua del romanzo, come riconosciuto da illustri recensori, è l’italiano colto, quello che gli specialisti chiamerebbero italiano standard, ma la lingua dei personaggi può invece rappresentare un tipo di italiano regionale e arrivare fino al livello del fiorentino parlato che sottolinea la caratterizzazione di un personaggio quale Fosca. L’interazione tra i vari livelli linguistici va inoltre vista alla luce dell’ironia, della leggerezza e del brio che caratterizzano il romanzo”.
Lei esercita la professione di bibliotecaria presso l’Università di Oxford ed è anche traduttrice. Qual è la specificità della lingua di Dante nella letteratura?
“Pur nella mia esperienza di ricerca letteraria, di interprete, traduttrice e di insegnante bilingue, ho sempre sentito la centralità delle mie scelte linguistiche, della mia tradizione toscana, e alle volte ho avvertito anche il bisogno di analizzare il significato “profondo” di certi termini familiari. Se per lingua di Dante si intende il fiorentino del Trecento, è evidente che quello si può considerare come punto di partenza benché Dante fosse fortemente interessato al plurilinguismo, sia nella Commediadove ci alcune splendide terzine in occitanico messe in bocca ad Arnaut Daniel e riferimenti a molti termini regionali, sia nel De vulgari eloquentia. Ma è evidente che ogni generazione di scrittori ha modificato e aggiunto alla base toscana un fiume di termini locali, anche dialettali, fino ad arrivare a Carlo Emilio Gadda e Luigi Meneghello, tanto per citare due grandi autori del Novecento”.
Perché ha scelto la strada dell’autopubblicazione per il suo nuovo romanzo?
“Attirare l’attenzione di un editore, è ardua impresa. A una richiesta inviata via email, nella migliore delle ipotesi se ne ricava una risposta automatica ma, più spesso, un silenzio tombale. Se si crede in quello che si fa, si va avanti. Nel mio caso, è stato estremamente facile grazie al profondo affetto di un gruppo di persone che hanno fermamente creduto e credono in quello che faccio. Così hanno tradotto il loro amore in azione, ed è nato L’album di famiglia”.