Mancava fino ad oggi un quadro generale della diaspora italiana nel mondo anglofono. Su impulso del Consiglio Generale degli Italiani all’Estero ora lo disegna una serie di volumi dedicati agli USA, Canada, Australia, Repubblica del Sudafrica.
Raccontare la storia della migrazione italiana significa anche riscoprire i modi in cui l’Italia ha saputo reinventare se stessa. Incontrando culture, lingue, tradizioni diverse, gli italiani si sono trasformati. Da un lato hanno certamente influito sulla società che li ha accolti, dall’altro hanno saputo modellare le loro tradizioni e la loro etnicità sul nuovo contesto, con una straordinaria e duttile capacità di fondere fedeltà e innovazione, memoria e cambiamento.
La ricchezza e la complessità prodotte dal contatto tra civiltà italiana e altri mondi sono chiarissime già nel primo volume della serie: Gli Italiani in USA. Nuove prospettive di una diaspora secolare, egregiamente curato da Anthony Tamburri e Silvana Mangione, e appena pubblicato dal John D. Calandra Institute della City University di New York (“Studies in Italian Americana”, XV). Giustamente i curatori ricordano quel che scriveva Fischer, ovvero che “l’etnicità è qualcosa di reinventato e reinterpretato in ciascun generazione, in ciascun individuo”, sulla base dei tempi e dei luoghi in cui vive. Un tema già affrontato da Tamburri nel suo fondamentale Semiotic of Ethnicity.
Il lettore di questo libro avrà molti modi di approfondire il postulato di un’Italia che sa cambiare e dialogare in forme mutevoli non solo col mondo ma con se stessa. Questo è il punto: una visione non ontologica e monolitica dell’italianità. L’italicità all’estero ha mille sfumature, come dimostra Emanuele Pettener, di cui il libro pubblica il saggio “Breve passeggiata nel giardino della letteratura italoamericano” dove tornano le tre categorie individuate da Tamburri. L’etnicità sentimentale dell’expressive writer; l’etnicità politico-sociale del comparative writer che non cessa mai il processo di confronto tra il prima e il poi, il qui e il là. E infine l’etnicità integrata, ma non ignara delle origini del synthetic writer. In tutti i casi quel che conta è l’arco di tensione (e di scarto) che resta aperto tra origine e approdo. Quando la tensione cessa cadiamo nell’oleogafia.
Sulla differenziazione dell’italicità si sofferma anche Ilaria Serra, dedicando il suo saggio all’ambito filmico (“I molteplici trattini del cinema italoamericano”), e soffermandosi con particolare forza sul mondo femminile: quel mondo che ha spesso subito una doppia oppressione negli USA: “come gruppo etnico e come donne”.
Senza una prospettiva storico-geografica-sociale molto articolata, insomma, il mondo “italoamericano” rischia di trasformarsi in un ammasso di stereotipi, per cui ogni individuo, famiglia, o comunità proietta la propria immagine sulla totalità nella ferrea convinzione che non esistano varianti rispetto al proprio modo di essere “italiani”.
In questo senso risulta di grande interesse lo “Studio della cultura materiale della Diaspora Italiana negli Stati Uniti” di Laura E. Ruberto e Joseph Sciorra, dove i processi dell’etnicità divengono chiarissimi: non solo trasmissione ma produzione della tradizione.
E sull’argomento fondamentali sono anche le pagine di Peter Carravetta “Parte nu bastimentu… Riflessioni su La Storia e le storie al vaglio del migrare” che si conclude con un quadro dove l’analisi accademica si intreccia con un afflato poetico: “I cambiamenti che si susseguono nei secoli … fanno testo che non esiste una Essenza transtorica, che dire italiani è dire che siamo tutti ibridi, che non ci si ferma una volta per sempre in un luogo, e che a rigore dell’evidenza ci definiamo e ridefiniamo costantemente, strada facendo. Perché in questo siamo veramente tutti uguali: siamo (o siamo stati) tutti emigranti”.
Per avere una chiara idea di come questa storia oggi continui e non cessi di rinnovarsi generazione dopo generazione, conviene leggere il bel saggio di Teresa Fiore, “Migrazioni all’italiana. Un’analisi dell’esodo contemporaneo verso gli Stati Uniti (1990-2020)”. Gli Stati Uniti si confermano come la destinazione più popolare al di fuori dell’Europa, e il “sogno americano” ha ancora dunque una forte presa. Ma piuttosto di concentrarsi sull’elemento unitario anche la Fiore complica il quadro parlando non di migrazione ma di migrazioni, che tra l’altro presentano un forte elemento di novità rispetto al passato nel nuovo ritmo binario di andata-ritorno, o di ulteriori spostamenti in altri paesi. Le radici da cui ci si allontana non ne producono necessariamente di nuove: non ci si muove per fermarsi, ma la vita può procedere con una serie continua di delocalizzazioni. E’ la mobilità su cui il Centro Altreitalie e Maddalena Tirabassi hanno da tempo attirato la nostra attenzione. Non solo gli emigranti cambiano ma l’emigrazione, la diaspora si modifica in profondità.
E forse proprio l’Italia con la varietà dei casi che la riguarda può diventare un laboratorio per comprendere quel che sta avvenendo a livello planetario. Scrive la Fiore: “l’Italia ha il potenziale per diventare un laboratorio per analisi spazio-temporali che possono soltanto arricchire il dibattito sulle migrazioni globali”. Se il suggerimento di Teresa Fiore è vero, allora questo libro parla non solo degli italiani e non solo degli USA, ma dell’uomo contemporaneo.