Ogni nostro gesto quotidiano, anche quello apparentemente più isolato e insignificante, fa parte di un processo che parte e arriva lontano. Quella della sostenibilità e di uno stile di vita più consapevole in termini di impatto ambientale è un tema molto caldo. Se ne parla ovunque, ma non sempre nel modo giusto.
Camilla Mendini, in arte Carotilla, da diversi anni affronta e divulga questi argomenti in rete, tanto che Vogue l’ha inserita nella lista italiana di attiviste ambientali da seguire insieme a Greta Thunberg. Ha ricevuto inoltre il titolo di Top green Influencer nella classifica dell’Osservatorio Alkemy – Il Sole 24 Ore e continua a promuovere e portare avanti iniziative di successo coinvolgendo un pubblico sempre più vasto, con 78mila follower su Instagram e 62mila sul canale YouTube.
Nata a Verona, vive da anni negli Stati Uniti e, dopo aver lanciato il marchio di moda sostenibile Amorilla e la piattaforma carotilla.com con la sua linea di prodotti zero waste, da domani sarà in libreria con il suo primo libro, (Im)perfetto sostenibile (Fabbri editori, 216 pagine, 16 euro), pensato come una guida per tutti coloro che vogliono avvicinarsi al tema della sostenibilità. Nel libro Camilla affronta vari ambiti della quotidianità, dal benessere alla pulizia della casa, dalla genitorialità alla cucina, proponendo una narrazione equilibrata e piacevole, senza dogmatismi ma al tempo stesso chiara quando si sofferma sull’impatto ambientale ed etico dei nostri gesti.
Abbiamo contattato Camilla per parlare insieme a lei del suo racconto e discutere di come la sostenibilità sia entrata massicciamente nella comunicazione, a beneficio e spesso anche a danno dei consumatori.
Ci siamo visti l’ultima volta nel febbraio del 2020 e da allora sono successe un bel po’ di cose. Durante la pandemia, tu e la tua famiglia vi siete trasferiti da New York alla Florida, hai lanciato carotilla.com e la tua linea di prodotti beauty vegani e adesso esce il tuo primo libro. Che anno è stato per te personalmente e professionalmente?
“È stato un turbinio di cose. Da una parte è passato velocissimo, perché se guardo indietro mi sembra ieri, dall’altra è stato l’anno più lungo e tortuoso – come per tutti – anche dal punto di vista psicologico e lavorativo, perché riorganizzare tutto è stata una bella sfida. Il trasferimento in Florida è stata una decisione abbastanza improvvisata che abbiamo preso in pochissimi giorni. Forse ha dato anche il ‘la’ a un nuovo sprint, un po’ di nuova linfa vitale che ci ha permesso di vivere il lockdown in maniera diversa, che dal punto di vista mentale e psicologico aiuta moltissimo. Con il lavoro da casa non mi posso lamentare, perché i progetti che erano già in cantiere alla fine sono comunque riusciti a partire, con tempistiche sicuramente più lente come carotilla.com – la piattaforma dove volevo approfondire le tematiche che avevo già affrontato negli anni scorsi e introdurre nuovi prodotti zero waste. Ha richiesto più tempo, ma ce l’abbiamo fatta. Il libro è un progetto che è arrivato durante il lockdown in Florida, è stata una richiesta di Fabbri Editore e per me ha rappresentato la possibilità di mettere un punto al percorso fatto dal 2016 ad adesso, in cui ho parlato di sostenibilità su YouTube, Instagram e carotilla.com. Il problema dei social media è la fruibilità del contenuto, infatti mi ritrovavo spesso a rispondere alle stesse domande e capivo le criticità di chi iniziava questo percorso sostenibile, solo che mi era difficile linkare ogni volta un video da YouTube, uno da Instagram. Invece così è tutto bello raccolto in un libro che è molto pratico e che spero sia chiaro. La prima parte è molto teorica, spiego qual è il problema e come si può risolvere, poi c’è tutta una parte pratica e creativa fatta di azioni, che è quella che piace a me. Come a dire: okay, adesso che abbiamo capito, che si può fare? Agiamo con le sfide, le challenge e i do it yourself creativi”.
Con il libro hai ovviato al problema della fruibilità online, ma il tuo racconto ha da tempo ottenuto un grande successo e solo nell’ultimo anno hai quasi raddoppiato il tuo pubblico su Instagram, dove hai oltre 78mila follower. Pensi ci sia stata un’accelerazione in termini di interesse per gli argomenti di cui ti occupi?
“Sicuramente con la pandemia le persone a casa si sono riversate online a creare contenuti ma soprattutto a fruirne, per occupare un po’ il tempo. All’inizio ho riscontrato un po’ di difficoltà perché c’era un mood generale, sia in Italia sia qui, dove erano tutti arrabbiati e preoccupati, quindi ci sono stati dei mesi di assestamento in cui le visualizzazioni erano alle stelle ma la gente era arrabbiatissima, criticava e attaccava per qualsiasi cosa, infatti non sapevo più cosa dire! Passato quel periodo lì, l’interesse è rimasto alto e ho capito che poteva essere un momento per approfondire temi per cui prima non si aveva tempo. Non sono un’amante dell’informarsi sui social media, però è quello che faccio, perciò volevo rendere più fruibili le informazioni. Ho puntato moltissimo su Instagram dove i reel anche solo con quindici o trenta secondi riescono a incuriosire l’utente, che poi magari si va ad informare su altre piattaforme come carotilla.com. La pandemia ha avuto un ruolo grandissimo, ma la sostenibilità ormai è sulla bocca di tutti. All’inizio del lockdown anche Giorgio Armani pubblicò una lettera in cui diceva che voleva tornare a due collezioni all’anno. Se n’è parlato tanto nell’alta moda, così come si è parlato della fast fashion in crisi. Sono argomenti sempre più caldi ed è positivissimo, perché il pubblico è attento a questi temi. Il rovescio della medaglia è che un argomento diventato di moda è difficile da navigare, perché tutti vogliono dire qualcosa a riguardo e tutti i brand vogliono saltare su questo treno facendo greenwashing e creando ancora più confusione. Vale lo stesso per altri argomenti come il femminismo o l’inclusività”.
Parlando delle reazioni del tuo pubblico hai menzionato le challenge. Sembra che ormai tu abbia attivato una specie di circolo virtuoso, se penso a iniziative di successo come #rifiutairifiuti, #5minshower e #1dress7days. Si parla tanto di interazione con i follower e tu spingi letteralmente le persone a fare. Hai avuto riscontri particolarmente piacevoli o divertenti, da questo punto di vista?
“Faccio fare le cose sporche, visto che devono raccogliere i rifiuti! [ride] Sicuramente una delle missioni che mi ero prefissata era: invece di parlare, agiamo, facciamo veramente qualcosa. È quello che c’è anche nel libro, piccole azioni che sembrano banalissime, come raccogliere un rifiuto da terra, ma quanti veramente lo fanno? A tanti fa schifo, si dicono che ci sarà qualcun altro che lo farà. Invece basta un po’ di buona volontà, un guanto e sacchetto e si fa la differenza. Perché se lo faccio io e convinco dieci persone che convincono altre dieci persone si ha un effetto gigantesco. #rifiutairifiuti e #5minshower sono le due sfide che sono state accolte con più gioia ed entusiasmo. La doccia in meno di cinque minuti un po’ meno, perché molte donne mi dicono che hanno i capelli lunghissimi e non sanno come fare, però sono sfide fattibili. Le persone sanno che non si sta chiedendo loro di spendere milioni, di cambiare totalmente alimentazione o di buttare tutto ciò che hanno e ricomprare cose nuove. La sostenibilità per me non è quella, passa invece per le piccole azioni che ci fanno capire che tutti noi possiamo fare qualcosa. Il riscontro più bello è vedere che tanti lo stanno facendo. Soprattutto la scorsa estate, a giugno #rifiutairifiuti è partito quasi in automatico, complice anche il fatto che molte aziende che producono costumi hanno fatto eventi legati alla raccolta dei rifiuti in spiaggia, così me li hanno segnalati e abbiamo anche parlato del greenwashing che c’era dietro. Questi argomenti si possono collegare a tanti altri approfondimenti e a vari aspetti della vita quotidiana e ciò forse aiuta ad aumentare l’interesse delle persone. Secondo me chi vuole diventare sostenibile prima o poi deve iniziare ad agire”.
Dall’esterno uno stile di vita sostenibile può sembrare una scelta integralista, ma con il tuo libro già a partire dal titolo (Im)perfetto sostenibile c’è una dichiarazione di intenti: questi gesti sono alla portata di tutti e non per forza dobbiamo essere perfetti. Come hai deciso questa impostazione? Pensavi di rivolgerti a una lettrice o lettore in particolare?
“Senza l’esperienza che ho maturato in tutti questi anni nel confronto con le persone che mi seguono, forse questo tipo di narrazione non mi sarebbe neanche venuta in mente, perché spesso ci si basa sulla propria esperienza. Io credo tantissimo in ciò che faccio ma allo stesso tempo mi rendo conto di essere molto imperfetta, perché ad esempio vivo in America in un paese abbastanza isolato dove non ci sono tanti mezzi pubblici e al supermercato è difficile fare la spesa sfusa, quindi per esperienza so che si devono fare tanti compromessi. Ho capito che l’imperfezione era la chiave giusta per una persona che non ha mai sentito parlare di sostenibilità o che pensa che sia tutto troppo troppo difficile, lontano o costoso, o che magari è impaurita dalla narrazione che leggiamo sui giornali o vediamo in televisione, tra cambiamento climatico e scenari in cui avremo più plastica che pesci nell’oceano. Sono narrazioni necessarie per svegliare le coscienze ma non può essere l’unico modo di parlare di sostenibilità, perché non è vero che servono solo cambiamenti assurdi. Si può anche partire dal singolo e convincerlo che basta poco. Il titolo (Im)perfetto sostenibile è stata una visione che ho avuto verso la fine del libro, perché volevo esprimere in poche parole il fatto che sia un percorso personale che può nascere da qualsiasi ambito della vita quotidiana, un percorso che sarà imperfetto, pieno di errori e di compromessi. Con questo titolo voglio avvicinare le persone senza spaventarle, anche perché in questo mio percorso mi sto divertendo e vorrei che anche chi mi segue vivesse la sostenibilità in modo positivo. È poco utile giudicare le scelte altrui. Siamo tutti imperfetti, ma stiamo già facendo tanto”.
Quando si tratta di avvicinare le persone a questo stile di vita, noti una differenza in base all’età? Nel libro sottolinei giustamente quanto la Generazione Z sia più attenta alla moda sostenibile e ai temi a essa collegata rispetto alle generazioni che l’hanno preceduta. Secondo la tua esperienza, anche come madre di due bambini, pensi siano argomenti che attecchiscono più coi giovani e giovanissimi piuttosto che con gli adulti? Con l’avanzare dell’età ci si mette meno in discussione e ci si espone meno alle novità in termini di abitudini?
“C’è un approccio quasi opposto alla sostenibilità. I bambini piccoli, a prescindere dalla generazione a cui appartengono, sono curiosi, puri e semplici e vengono naturalmente attratti dalla natura. La Generazione Z è sicuramente nata e cresciuta sapendo della sostenibilità, del cambiamento climatico e di cosa li aspetta, sempre con una narrazione terroristica del tipo: dovrete risolvere un problema causato dalle generazioni precedenti e adesso saranno affari vostri! Si chiama eco-ansia, molti giovani la provano sapendo che hanno poco tempo per risolvere un problema gigantesco e che magari non ce la faranno. La generazione dei miei genitori e dei miei nonni, invece, spesso neanche capisce perché questo sia un problema. Loro hanno vissuto altre difficoltà e altre preoccupazioni e per loro la sostenibilità è quasi uno stile di vita legato alla povertà, ricorda loro il Dopoguerra, quando comprare le cose sfuse o avere pochi vestiti fatti dal sarto e continuare a usarli significava essere poco abbiente e che dovevi farlo per sopravvivere. È un’altra mentalità e a loro piace poco tornare a questa narrazione, perché stai chiedendo loro di consumare meno e di prendersi la responsabilità di azioni che hanno fatto, ovviamente senza cattiveria, ma che hanno avuto delle conseguenze. Sono più difficili da convincere e da coinvolgere, complice anche il fatto che stanno meno sui social. Vediamo se con il libro arriverò anche a un po’ di boomer! Senz’altro loro hanno un vissuto completamente diverso rispetto a quello che si sta cercando di comunicare adesso”.
Nel libro dici oltretutto una cosa importante, cioè che noi possiamo cambiare le nostre abitudini quanto vogliamo, ma se non cambiano alcune scelte e atteggiamenti a livello di politica e gestione pubblica – dove tra l’altro sono ancora i boomer a prendere le decisioni – è difficile che ci siano sostanziali passi in avanti. Secondo te a che punto siamo per quanto riguarda il dibattito pubblico e politico su questi argomenti? Quando parli di fast fashion, ad esempio, parli della filiera, dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori e dell’impatto concreto che questa industria ha su donne, uomini e bambini in tutto il mondo. Pensi che parlare di persone e non solo di ambiente possa smuovere un po’ di più il discorso pubblico e sviluppare una maggiore coscienza?
“In tanti lottano e sono attivi per l’ambiente, mentre sono in pochi a pensare al discorso etico, che è personalmente quello a cui sono più interessata. Forse ho una visione negativa, ma credo si rientri un po’ nel discorso del privilegio, cioè che siamo persone del “primo mondo” non abituate al pensiero di dover lavorare per vivere o per comprarsi un pugnetto di riso. Nelle industrie tessili del terzo mondo, o in qualsiasi altra produzione, ci sono condizioni di lavoro ancora terribili, ma si continua a dire che è meglio lavorare a queste condizioni piuttosto che non lavorare, altrimenti le aziende se ne vanno. Non è del tutto vero, nel senso che ci sono organizzazioni umanitarie e di avvocati che continuano a lottare affinché i diritti dei lavoratori del terzo mondo migliorino, ma noi consumatori dovremmo essere più sensibili. Penso che il greenwashing funzioni perché parla tanto del tessuto e mai delle condizioni dei lavoratori, dato che quelle non arrivano al consumatore. È difficile comunicare quella sensibilità se non la vedi, mentre avere davanti un tessuto e pensare che può fare bene sulla pelle perché è traspirante e non ha sostanze chimiche interessa di più, perché è la nostra pelle. La pelle degli altri invece è più difficile da comunicare, anch’io ho difficoltà e devo ancora trovare la soluzione per rendere il pubblico più empatico verso questo argomento. Parlavi dei politici. L’imperfezione non significa che se ne possono lavare le mani, non vorrei che passasse questo messaggio. Imperfezione vuole dire: capisco dove posso arrivare e lo faccio, senza generare ansia e pensieri negativi. Dall’altra parte dobbiamo comunque capire la responsabilità e il privilegio che abbiamo. Ho collaborato con le Nazioni Unite e l’Unione Europea per 2030 is now, cioè l’anno entro il quale si dovrebbero attuare diciassette goal che includono la sostenibilità, la fine della povertà, l’educazione per tutti. Ci sono obiettivi giganti, ma siamo in grado di raggiungerli e di coinvolgere i cittadini e soprattutto la classe politica a fare qualcosa? Per me è stata una collaborazione difficile da trasmettere al pubblico proprio perché mi sembrava di parlare di cose grandi e bellissime su cui siamo tutti d’accordo e poi alla fine ci si chiede: va bene, però che possiamo fare?”
Forse quando si tratta di decisioni a livelli così alti, le persone comuni provano un senso di impotenza.
“Senz’altro, però anche solo non comprare una maglietta di H&M fa la differenza. Anche le piccole azioni servono, però mi rendo conto che è difficile creare un coinvolgimento attivo attorno ai problemi umanitari e alla schiavitù che ancora esiste. È molto più semplice fare la doccia in meno di cinque minuti o raccogliere un rifiuto”.
Se la politica continua a fare poco, le aziende invece cavalcano da tempo il tema della sostenibilità in vari modi. L’hai già menzionato, ma ti va di dirci meglio cos’è il greenwashing e magari aiutarci a riconoscerlo e a difenderci da esso e dalla strategia comunicativa che c’è dietro?
“Una bella patata bollente! [ride]. Ci provo. Il greenwashing è molto subdolo, nel senso che è difficile da riconoscere per chi è alle prime armi con la sostenibilità, perché più ci si addentra in un argomento e più se ne capisce la complessità. È letteralmente una pennellata verde sull’industria, uno specchietto per le allodole di marketing che serve ad accalappiare il consumatore attento a queste tematiche attraverso una narrazione che però è una promessa per un singolo prodotto all’interno di una singola collezione, tra migliaia di altri. Con quel prodotto si prova a dire che tutta l’azienda è sostenibile, che il tuo acquisto tramite loro diventa sostenibile, quando in realtà non lo è perché la sostenibilità è complessa e deve riguardare tutta la filiera produttiva e distributiva. Un esempio di greenwashing è quello del tessuto biologico o riciclato. Tutto bellissimo, però se la produzione rimane in Bangladesh dove soprattutto le donne vengono sfruttate, non possono andare a scuola perché devono lavorare e guadagnano tre dollari al mese, se usi il cotone biologico cambia poco. Il problema è più profondo, ma in questo modo non viene raccontato, così basta parlare del cotone e sembra che un brand abbia a cuore la questione. Stessa cosa con il pinkwashing, bluewashing o rainbow washing: fanno tutti leva sulle sensibilità dei consumatori. Per un’azienda è molto più semplice dire di essere sostenibile piuttosto che diventarlo. Soprattutto per le grandi catene che hanno prezzi medio-bassi trasformarsi in un’azienda sostenibile richiederebbe tempo e molti soldi e il prodotto finale dovrebbe costare molto di più. Perciò con loro il greenwashing è facilmente riconoscibile perché diventare sostenibili significherebbe trasformarsi in qualcos’altro che le snaturerebbe. H&M non potrà mai venderti a cinquanta euro la maglietta che adesso ti vende a otto, quindi è impossibile che diventi sostenibile al cento per cento. Così alla fine si cerca di sensibilizzare sui tessuti anziché sulla qualità della produzione o sulla sicurezza e diritti dei lavoratori, anche perché purtroppo questi argomenti al consumatore interessano meno”.
In questo senso nel libro tu fornisci anche un aiuto per quanto riguarda i termini, perché riciclabile è diverso da riciclato.
“Sì, bisogna sapere dove va a colpire il greenwashing, così è più facile da riconoscere. Altrimenti le persone ci cascano perché giustamente sono contente quando fanno un acquisto pensando di fare del bene, invece si sta solo facendo il gioco delle aziende”.
In (Im)perfetto sostenibile dai anche un consiglio che sembra banale ma che in realtà potrebbe essere letto come il manifesto del libro: “comprare meno, comprare meglio”. Come si fa, però, a comprare meno in un mondo – compreso quello dei social – dove più compriamo e meglio è, specie se lo facciamo inconsapevolmente?
“Comprare meno, comprare meglio è un motto che si abbraccia quando si capisce quanto si sta spendendo. Per il mio pubblico la moda è l’ambito in cui si spende di più a cuor leggero. Spesso si dice che la sostenibilità costi tanto, ma magari ci si fa un giretto in centro e si entra nella catena di fast fashion, approfittando dei saldi, e ogni settimana si torna a casa con due o tre capi di vestiario o anche solo di cosmetica. Quanto si sta veramente spendendo per tutte queste cose che singolarmente costano poco? L’idea di cambiare mentalità mi rendo conto che può far storcere il naso, perché lo shopping dà endorfine, sei contento quando compri qualcosa di nuovo e ti senti gratificato da questi piccoli regali che ti fai. Se però vogliamo parlare di spesa, si spende molto di meno a fare acquisti mirati che sai che metterai e che non rimarranno nell’armadio o non butterai, come una crema per il viso che apriamo insieme ad altre non riusciamo a finire entro la data di scadenza. Dobbiamo capire che ogni nostra azione può generare un rifiuto e uno spreco e prendere coscienza di alcune azioni diventate automatiche. Torniamo al discorso delle generazioni. I nostri genitori compravano prodotti che costavano sempre meno e perché potevano. Anche qui negli Stati Uniti più compri e più il tuo status si alza, perché puoi permetterti di comprare. Nessuno però pensa al processo produttivo di ciò che compriamo, al suo impatto ambientale ed etico. Siamo tutti parte attiva in un sistema e in un processo che genera rifiuti e produce inquinamento, quindi scegliamo il meglio, scegliamo bene e compriamo meno. Comprando in maniera consapevole si risparmia, però non a tutti piace come discorso. Molti preferiscono spendere e spandere, eppure anche chi fa shopping sfrenato può farlo in modo sostenibile, per esempio comprando di seconda mano o donando i propri vestiti. Per questo mi piace parlare di imperfezione e personalizzazione del percorso. Non c’è una sola via, ce ne sono tante”.
Non a caso tu affronti scelte che si possono fare ovunque, dall’armadio alla pulizia della casa, dalla cucina alle attività con i bambini. Facciamo finta che tu abbia davanti una persona iper-scettica riguardo alla sostenibilità. Da dove mi consiglieresti di iniziare, anche servendomi di uno strumento come il tuo libro, per migliorare la mia impronta sull’ambiente e sulla società, facendo poco ma tutti i giorni?
“Io non ti convincerei mai a scatola chiusa, ti farei delle domande per capire il tuo stile di vita e gli ambiti in cui sei più sensibile. È proprio quello che voglio comunicare. Io con le mie azioni, la mia attività su Instagram e il mio libro posso essere da esempio, ma ognuno deve fare da sé in modo indipendente. Se tu sei una persona che può andare a lavoro coi mezzi pubblici o in bicicletta puoi partire da lì. O magari puoi fermarti dal fruttivendolo sotto casa e comprare sfuso. Ogni persona ha le proprie necessità e possibilità in termini di tempo, soldi, obiettivi, e la situazione varia se si è da soli o in una famiglia più o meno numerosa. Io a gennaio dell’anno scorso ho smesso di mangiare il pesce ed è stato difficilissimo, anche se non mangiavo più carne da una decina d’anni. Adesso sono vegetariana e non ancora vegana, ci ho messo sei anni a fare questo percorso! Per la moda è stato più semplice, ho smesso di entrare da Zara e H&M dal giorno alla notte. Quindi non posso dirti io da dove partire. Più che convincerti vorrei che ogni persona riuscisse a trovare la chiave da dove partire, lo sforzo minimo richiesto per fare il primo passo. Inizia e da lì capirai che le azioni che servono sono piccole e poi ti porteranno a fare cose sempre più in grande, perché entrare nella mentalità sostenibile è proprio uno switch di pensiero: quando ti rendi conto della tua impronta in qualsiasi situazione, poi difficilmente puoi far finta di niente e spegnere l’interruttore. Però devi accenderlo nella stanza in cui ti è più semplice farlo. Per me è stata la moda, per te magari diventare vegano da un giorno all’altro sarebbe una passeggiata”.
Ecco, visto che hai toccato l’argomento e che ne parli anche nel libro, parliamo di scelte alimentari.
“Devo pentirmene? [ride]”
Suggerire alle persone di cambiare abitudini con il cibo è sempre abbastanza rischioso. Se si tratta di raccogliere le bottigliette in spiaggia siamo tutti d’accordo, però se si dice che dovremmo consumare meno carne rossa cominciano i problemi.
“Io sono entrata in modo graduale in questo argomento. Non mangiavo la carne ma il pesce sì e sono sempre stata trasparente nel comunicare i miei limiti e le mie difficoltà. Allo stesso tempo, però, facevo vedere che mi informavo su questi temi e credo che suoi social abbia aiutato, infatti non ho mai avuto feedback troppo estremi di gente che mi accusava di essere incoerente perché non sono vegana. Rispettavano la mia posizione, però sentivo un po’ di pressione per approfondire, così l’ho fatto. Le ricette del libro sono quelle mangio io, abbastanza frutta e verdura con qualche cereale, una dieta molto semplice. Più che per promuovere uno stile di vita sano, l’ho inserite per far vedere che si può cucinare senza sprecare, perché con il cibo lo spreco è enorme e talvolta bastano delle accortezze. Parliamo quasi di ricette della nonna o di ciò che faceva anche mia madre, come usare il pan grattato quando non c’è il formaggio. Così quando ho pensato a delle ricette da inserire mi sono detta: cavolo, sono quelle che faccio già! Delle volte uno nemmeno si rende conto di preparare già delle cose sostenibili, anti-spreco o vegane. L’alimentazione non poteva non essere inserita nel libro, perché se parlo della moda, di bambini, di casa, l’elefante nella stanza quando si parla di sostenibilità è proprio l’alimentazione. Non mi sento un’esperta e non volevo additare nessuno perché io, appunto, ci sono arrivata dopo tanti anni e non sono ancora perfetta. Ho tanto da imparare e da fare, quindi ho voluto dare il mio apporto per far capire che è importante e che soprattutto si può fare. Senza fretta e con i propri tempi. Ad esempio ci tenevo tantissimo che ci fosse la parte sul compost, anche se mi avevano fatto notare che a Milano è difficile averlo. La cosa importante però è capire che la circolarità è una cosa che funziona e che c’è sempre in natura. In Florida lo vedo tantissimo. Qui quando cadono le palme e le foglie dagli alberi, lasciano tutto a terra in modo che generino funghi e batteri, perché dalla morte si genera vita. Sono cose che osserviamo in natura e che basta solo applicare nella nostra vita quotidiana. Più che alla dieta in sé, quindi, puntavo a proporre un’idea di economia domestica circolare”.
Sei tornata in Italia la scorsa estate dopo essere rimasta a lungo negli Stati Uniti a causa della pandemia. Come ti è sembrata la situazione in termini di attenzione alla sostenibilità e quali differenze trovi rispetto all’America e alla Florida?
“In questo senso, il passaggio da New York alla Florida per me è stato difficile. In Florida c’è senz’altro più natura e viene molto rispettata, però qui le opzioni vegetariane, vegane e di spesa sfusa sono quasi zero, infatti ho provato un po’ di sconforto. Invece quando sono tornata in Italia la prima cosa che ho notato è stato quante volte ho sentito i termini sostenibile o green nelle pubblicità, associati anche a prodotti che non c’entravano niente con la sostenibilità. Ero a Venezia sul traghetto e c’era scritto di fare l’abbonamento perché era più sostenibile, intendendo che magari con l’abbonamento sul telefono si risparmia un po’ di carta. Il termine però ormai è usato veramente in modo sproporzionato e a sproposito, il che può far sorridere però a me ha fatto riflettere sul fatto che la discussione stia andando un po’ alla deriva. Un messaggio ha senso se è portato avanti in maniera chiara da persone competenti, ma se tutti cominciano a dire che è sostenibile qualsiasi cosa no, anzi, finisci per fare il contrario. Quindi ho trovato un’Italia che usa tantissimo questa parola spesso fuori contesto, però devo dire dal punto di vista delle scelte in questo senso è più avanti rispetto agli Stati Uniti. Magari negli Stati Uniti c’è più innovazione nella tecnologia, però sulla sostenibilità sono indietro. Anche a New York hanno vietato la plastica solo due anni fa e in Florida siamo ancora coi sacchetti di plastica al supermercato. Sono indietrissimo anche con la raccolta differenziata e qui se parlo di sostenibilità la gente mi chiede che cosa intenda. In Italia c’è più sensibilità e le persone sono più competenti. Magari è un po’ indietro rispetto agli altri Paesi europei, però c’è comunque un abisso rispetto agli Stati Uniti e soprattutto alla Florida o a New York. Insomma, in Italia si parla tanto si sostenibilità, quindi spero che si faccia sempre di più e che non si parli e basta”.
Ti manca più l’Italia o New York?
“Mi mancano entrambe tantissimo! Sono luoghi del cuore, anche se per motivi diversi, quindi non c’è una gerarchia di mancanze. New York mi manca sicuramente moltissimo, anche se quando l’ho lasciata a maggio del 2020 era in uno stato pietoso e non ho idea di come sia adesso, spero si risollevi. Mi manca la New York che ricordo prima di allora ma mi manca tanto anche l’Italia, quindi direi che sul podio sono a pari merito”.
Per concludere, ti chiederei allora se il tuo pubblico italiano potrà incontrarti presto e se hai nuovi progetti in programma che puoi anticiparci.
“Al momento ancora non lo so. Ci sono delle cose che spero si realizzino ma nulla è ancora ufficiale quindi per ora nessuna grande sorpresa. Continuo con carotilla.com e voglio puntare tanto sui prodotti beauty sostenibili, perché è un ambito dove è ancora molto difficile trovare alternative”.