Camilla Mendini, in arte Carotilla, è una graphic designer di Verona che lavora negli Stati Uniti. Sul suo canale YouTube ha oltre 50mila iscritti, una community affezionata e interessata a cui racconta da anni com’è vivere e lavorare a New York. Seguitissima anche su Instagram, è diventata il punto di riferimento italiano per quanto riguarda la moda sostenibile, facendo della sua passione una professione. Ha infatti creato il brand di moda Amorilla, con cui racconta le più diverse e affascinanti tradizioni artigianali del mondo proprio come se fossero delle storie d’amore.
In una fredda ma assolata mattinata newyorkese, abbiamo incontrato a Manhattan l’influencer Carotilla in una libreria indipendente di SoHo. Tra turisti e passanti affrettati, abbiamo iniziato una stimolante conversazione sul suo lavoro e la sostenibilità.
Sei nata e cresciuta a Verona ma ti trovi a New York ormai da cinque anni. Come sei arrivata qui e perché?
“Mi trovo qui con mio marito e i miei due bambini. Ci siamo trasferiti in tre e poi siamo diventati quattro, siamo tre italiani e un’americana. Siamo arrivati per lavoro e da un anno abbiamo la Greencard. Ci siamo subito trasferiti da Verona al New Jersey e il fatto di non aver mai cambiato casa qui secondo me è piuttosto strano, ma anche abbastanza furbo, così non possono alzarci di troppo l’affitto! Nonostante sia in New Jersey, i prezzi non sono tanto diversi da New York e le case sono piccolissime, infatti da italiana è stato un piccolo trauma”.
È stata la tua prima esperienza fuori dall’Italia?
“Io sono una graphic designer, avevo sempre fatto questo lavoro in Italia ma allo stesso tempo avevo abitato un po’ all’estero, in Francia per l’Erasmus e in Australia ho raggiunto mio fratello a Melbourne per qualche mese. Ho sempre avuto questa curiosità di vivere all’estero e il mio obiettivo era parlare l’inglese quasi da madrelingua e soltanto vivendo fuori dall’Italia potevo riuscirci. Mentre ero in Australia il mio compagno, diventato poi mio marito, mi disse: se torni da me andremo a vivere all’estero. Mi sono fidata ed effettivamente siamo venuti a vivere qui!”. [ride]
Avevi mai pensato di vivere proprio a New York?
“No, in realtà non avevo nessuna particolare fantasia per New York, ero aperta a qualsiasi opzione. Ti dirò che l’Australia mi aveva veramente affascinato e la mia idea era di farmi raggiungere lì dal mio compagno. In Australia, rispetto agli USA, hai la possibilità di ottenere un visto turistico per un anno che poi puoi facilmente rinnovare andando a lavorare in estate nelle farm, mentre qui è molto più difficile arrivare. Prima di trasferirci, ho visitato New York due volte, una delle quali per cercare casa. In New Jersey è molto tranquillo, una zona residenziale che ti permette di staccare dalla confusione di New York, ma ho trascorso i primi tre anni a girare la città tutti i fine settimana dalla mattina alla sera per poterla conoscere. I miei video iniziali, infatti, erano tutti su New York, cosa vedere, cosa visitare, dove andare a mangiare, perché c’è tantissimo da dire, da fare, da scoprire”.
In questa tua esperienza newyorkese sei a contatto con altri expat?
“Io sono arrivata e ho scoperto di essere incinta della seconda bambina, mentre stavo aspettando il permesso di lavoro, quindi ho fatto un periodo a casa in attesa. È lì che ho cominciato a curare molto i social media, creando le basi del canale YouTube e del profilo Instagram. Siamo abbastanza fortunati perché nel nostro condominio c’è una comunità che soprattutto negli ultimi due-tre anni è cresciuta. Siamo molto amici tra di noi, abbiamo le nostre chat, ci scambiamo tantissime cose, ci facciamo favori. È quasi una famiglia molto allargata. All’inizio però non avevo amici o persone che conoscevo, quindi per fortuna trovai su Facebook il gruppo New York Italian Women che promuoveva networking, dava la possibilità di fare amicizia e aiutarsi nel mondo del lavoro tra donne. Mi sono iscritta quattro anni fa e da lì ho conosciuto almeno una decina di ragazze che ancora frequento e con cui lavoro tutt’ora. È stata una risorsa enorme per me, anche se non cercavo per forza gli italiani, perché come ti dicevo in realtà io volevo perfezionare il mio inglese. Però avere altri italiani con cui confrontarsi e condividere la stessa cultura e la stessa mentalità è confortante”.
La tua presenza su YouTube è stata concepita fin dall’inizio come un’occasione per fare business? Te ne occupavi anche a Verona?
“Ho frequentato il liceo classico con un indirizzo in comunicazione e all’università ho studiato design della comunicazione, quindi sono tutti argomenti che mi appassionano, mi piacciono e che ho studiato, perciò ne ho fatto il mio lavoro. Quando ero ancora a Verona avevo già un canale YouTube e su Instagram ero un utente normalmente attivo. Se inizio un progetto io ho sempre l’idea di farlo seriamente, tuttavia non pensavo che sarebbe diventato un business e non lo considero tutt’ora un lavoro a tempo pieno, anche se di questo potremmo discutere, perché i tempi sono da lavoro vero, mentre gli introiti ancora no. Sapevo però che il canale YouTube e il profilo Instagram dovevano diventare come un brand, con un logo, una comunicazione chiara, una nicchia di riferimento. Dovevo trovare la mia strada, all’inizio non sapevo ancora quale fosse e ho provato vari tipi di video, cominciando a partecipare anche alle varie challenge che c’erano su YouTube cinque anni fa. Tre anni fa poi mi sono specializzata nella moda sostenibile. Mi piaceva, ho imparato da sola facendo ricerche ed ero avvantaggiata perché conoscevo l’inglese. Oltretutto in Italia non ne parlava nessuno, quindi mi sono detta: perfetto, ne parlo io. Ho creato tantissimi video e anche su Instagram mi sono specializzata su questo e sono diventata un punto di riferimento in Italia sull’argomento”.
Il tuo canale continua però ad avere un’impronta newyorkese e continui a produrre video sulla città che hanno molto successo. Gli utenti arrivano a te cercando New York e poi li porti anche su altri temi o è ormai la moda sostenibile ad attrarli?
“Ho due pubblici totalmente differenti su YouTube e su Instagram. Su YouTube sono raggiunta da persone interessate a New York, perché ho dedicato tantissimo spazio alla città, soprattutto sulle questioni giornaliere tipo cosa fare, dove mangiare, dove fare la spesa, come funzionano i condomini americani, risolvendo le curiosità sulla vita negli Stati Uniti. Quando carico quei video lì so già che piaceranno tanto e che verranno visti tanto. Io però nel frattempo sono cambiata. Su Instagram sono molto più me stessa, nel senso che mi occupo di sostenibilità, vestiti, vintage, moda, che è poi ciò di cui mi piace di più parlare. Vorrei perciò unire New York e la sostenibilità, quindi negozi vintage, second-hand, acquisti sostenibili, plastic free. Però capisco che si tratta di una nicchia nella nicchia, quindi su YouTube ogni tanto torno a fare video sulla città un po’ più leggeri, su Instagram mi concentro sulla sostenibilità perché le persone lì mi seguono principalmente per quello”.
Il tema della sostenibilità a New York è molto importante e delicato. Non trovi che qui la cultura in questo senso sia un po’ acerba?
“Non so se sia acerba. Il riciclo, che per comodità inseriamo nel grande argomento della sostenibilità, qui fu promosso negli anni Sessanta, ma l’approccio americano è tanto potente quanto superficiale, perché è quasi una moda. Ora vediamo di nuovo l’ondata del riciclo ma la gente non sa perché, non c’è la cultura del riciclo o della sostenibilità in generale. Anche per la moda sostenibile, qui ci sono tantissimi negozi che si definiscono sostenibili ma le persone comprano perché è bello e perché va di moda in questo momento, magari non stanno distinguere un cotone da un poliestere, cosa è fatto di plastica e cosa di fibra naturale. Non c’è un interesse ad approfondire e secondo me è proprio quello che fa la differenza con l’Italia, perché siamo curiosi, vogliamo capire il perché delle cose e non ci facciamo fregare dagli slogan. Forse è perché siamo molto sospettosi, tanto per generalizzare [ride]. Culturalmente ci facciamo infinocchiare un po’ meno rispetto gli americani, che invece davanti a uno slogan luccicante si fanno convincere. Se qui ci fosse maggiore educazione su questo tema, ci sarebbe molta serietà per portarlo avanti perché quando conosci le conseguenze delle tue azioni sull’ambiente è difficile tornare indietro. Una volta che hai sviluppato una coscienza, ci vuole davvero molto stomaco per far finta di niente. Per esempio, tornando a YouTube, ho fatto due video sulla spesa. Il primo, due anni fa, mi ha fatto guadagnare ventimila follower in due settimane, quasi la metà del mio pubblico, ma c’era tantissima plastica. Le persone me l’hanno fatto notare ma qui non ci sono tante alternative a prezzi accessibili. Così ho fatto un’altra versione (vedi sotto), una spesa senza plastica, facendo però capire la fatica, i limiti e il costo. Non è sostenibile in termini economici fare una spesa sostenibile in America. In Italia c’è una cultura diversa, vai dagli agricoltori, compri direttamente da loro, sfuso”.
Eri impegnata sulla sostenibilità già in Italia o è stata una cosa che è arrivata dopo?
“Sia nella mia famiglia sia con mio marito, siamo sempre stati attratti dall’artigianalità, dal fare le cose da sé, dal capire i tessuti. Mia mamma ha sempre lavorato con le stoffe e mi ha aiutato a capire se un vestito fosse di qualità per la cucitura o il tipo di materiale. Quando iniziò ad arrivare la fast fashion in Italia io avevo una decina d’anni e andando nei negozi lei mi faceva notare quanto i capi fossero tagliati male. Poi purtroppo ovviamente anche noi compravamo lì, però c’era una certa resistenza culturale e io l’ho vissuta, perciò quando ho capito cosa ci fosse dietro la fast fashion è stato facilissimo tornare a quei ricordi e allontanarmene. Capisco che per molti sia difficile perché c’è sempre questa corsa a essere vestiti diversi, pensare più alla quantità che alla qualità, soprattutto tra i più giovani”.
Grazie a te ho visto The True Cost e lo inserisco nella mia personale trilogia insieme a Minimalism e Cowspiracy. Dopo documentari di questo tipo è effettivamente difficile non porsi più il problema delle nostre azioni, o comunque rifletterci parecchio.
“Il mio problema adesso infatti è guardare i documentari. Essendo una persona molto coscienziosa, di fronte all’allarmismo di questi documentari sento sempre il bisogno di cambiare la mia vita, ma non è semplicissimo cambiare. Perciò ne guardo meno altrimenti mi dico che devo diventare vegana, devo fare questo, devo fare quello e finisco che mi chiudo in una grotta a piangere [ride]. Consiglio sempre The True Cost perché apre gli occhi, gli altri due non li ho ancora visti. Sono già l’unica che non mangia carne in casa e devo fare comunque i conti con un nucleo familiare. Sono molto rispettosa con chi è attorno a me e con chi mi segue e ha opinioni differenti dalle mie. A me interessa essere coerente con me stessa e fare i conti con me la sera quando vado a dormire”.
So che è un luogo comune, ma ho l’impressione che sia per la moda, sia per la sostenibilità in generale, il tema, se si pensa a YouTube, è trattato nella maggior parte dei casi dalle donne. Eppure abbiamo personaggi maschili di primo piano come Leonardo Di Caprio e Joaquin Phoenix impegnati sul fronte del rispetto dell’ambiente, degli animali e dei lavoratori.
“Secondo me le donne sono portate un po’ di più a curare il proprio aspetto per una questione culturale e sociale, quindi utilizziamo e compriamo molti più prodotti rispetto agli uomini. È raro che una donna compri un vestito a caso, spesso lo fa perché si sente bene con una certa forma un certo colore o perché sta seguendo una moda. Per mille motivi le nostre scelte sono molto oculate quindi ci poniamo varie questioni e quando si tratta di sostenibilità forse questa nostra sensibilità naturale fa la sua parte, ma sto comunque generalizzando. Per gli uomini magari nella maggior parte dei casi le scelte sono più semplici e non si pensa subito alla sostenibilità. Le donne tra l’altro in genere decidono i consumi, infatti sono più bombardate dalla pubblicità, ormai anche il settore delle automobili, per tradizione maschile, si rivolge direttamente alla donne. Forse l’argomento del cambiamento climatico è più universale, la moda è più femminile”.
Parliamo di Amorilla.
“Amorilla è nato dopo che ho iniziato a sensibilizzarmi sulla moda sostenibile. Sul canale ho pubblicato gli Haulternative , video per categoria come intimo, cappotti, maglioni, jeans eccetera, dove do dieci alternative di brand sostenibili. Perché la domanda principale era: bella la sostenibilità, ma dove la trovo? Così ho mostrato che ci sono tantissimi brand, però mi sono accorta negli anni che la comunicazione della sostenibilità non è sempre chiarissima. Non c’è una vera regolamentazione e ognuno si può autodefinire sostenibile, cosa che fa il 90% dei marchi. Noi consumatori così abbiamo ben pochi strumenti per capire chi dice effettivamente la verità. Allora, poiché non lavoravo da un po’ come graphic designer e avevo voglia di creare qualcosa, ho deciso di approfittare di quella pausa dal lavoro per dedicarmi a qualcosa di totalmente mio. Creare un brand di moda era una cosa di cui non avevo alcuna esperienza. Mi sono buttata e passo dopo passo sono riuscita a creare qualcosa di cui ora mi ritengo molto soddisfatta, specie se penso che ho fatto tutto da sola”.
Una volta hai detto che essere negli Stati Uniti ti ha dato uno slancio decisivo in senso imprenditoriale.
“Sì, questa spinta me l’ha data l’America, anzitutto dal punto di vista burocratico, perché non devi aprire nessuna società, non devi andare all’INPS, non devi dire niente a nessuno. Paghi le tue tasse, fai le tue prove, se ce la fai bene, se non ce la fai pazienza. Senza scomodare nessuno, pagare tasse in anticipo o chiedere permessi. Poi qui ho conosciuto persone che si sono reinventate anche a cinquanta o sessant’anni e nessuno ti guarda pensando che hai fallito prima. In Italia quando qualcuno si ferma per un po’ sente questo giudizio degli altri, come se ci sia qualcosa di sbagliato. È difficile ripartire anche mentalmente, perché ci sono tantissimi ostacoli e uno non lo fa. Qui è normale ed è apprezzato perché vuol dire che stai provando qualcosa di nuovo e hai trovato il coraggio di fare qualcosa. Quindi questo mi ha dato la spinta per fare un salto nel vuoto e ora sono molto soddisfatta”.
Riguardo ad Amorilla e al tuo lavoro in generale, ci sono nuovi progetti a cui ti stai dedicando?
“Ci sono tanti progetti nuovi. Il bello di Amorilla è che l’ho creato io che devo fare i conti solo con me stessa, quindi posso regolarmi veramente come voglio. L’idea di fondo è che essendo moda sostenibile non c’è la necessità di correre per uscire con nuove collezioni ogni primavera/estate o autunno/inverno. Si basa su storie d’amore. Quando mi innamoro di una tradizione tessile, che sia una stampa, un ricamo o qualsiasi tradizione del mondo, vado lì, lavoro con gli artigiani del luogo e creo una collezione insieme a loro, senza appropriarmi delle loro idee. È un processo lungo, c’è una questione di fiducia dietro, un continuo rapporto per imparare quella tradizione. Ci si impara a conoscere umanamente tra persone, li conosco per nome, so chi sono, che faccia hanno. Siamo lavoratori alla pari ed è ciò che cerco di comunicare con i miei vestiti. L’etichetta trasparente racconta effettivamente come è fatto il vestito, chi l’ha fatto, come, quando, con che tecniche eccetera, invece di dirti soltanto che è fatto di cotone in India. Oltre ad Amorilla, vorrei ampliare con altri prodotti, ma si tratta di un’anteprima a cui sto ancora lavorando. Poiché sto provando tantissimi brand attenti all’ambiente e alla sostenibilità, dalla pulizia della casa, al beauty, accessori, vestiti eccetera, mi piacerebbe raccogliere i migliori e creare un luogo dove le persone che mi seguono sappiano di poter trovare il meglio del meglio che io ho provato e che garantisco. Perché per qualsiasi prodotto c’è sempre il problema della reperibilità, non c’è tanta distribuzione in Italia”.
A New York ho notato che ci sono invece molti negozi di vario genere che ospitano piccoli reparti di prodotti e oggetti a tema sostenibile, tra cannucce riutilizzabili, pellicole in cera d’api e cose di questo tipo.
“Come ti dicevo, quando si innesca questa consapevolezza si parte come si può, magari dalla borsa in tela per fare la spesa o dalla moda sostenibile come ho fatto io. Se ti appassioni a questo argomento e la tua coscienza cresce, è facile che vada ad ampliarsi a tutti i settori della tua quotidianità. Cominci a farti domande su ogni tua scelta giornaliera e trovo molto sensato ampliare l’offerta in vari tipi di negozi, perciò spero che anche in Italia si faccia presto lo stesso”.