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“E se smettessimo di fingere?” La profezia di Jonathan Franzen ancora più attuale

Le considerazioni sul clima dello scrittore americano si rafforzano dopo il Covid-19. La Terra è in pericolo per catastrofi ambientali terribili e inevitabili

Danila GiancipolibyDanila Giancipoli
“E se smettessimo di fingere?” La profezia di Jonathan Franzen ancora più attuale

Jonathan Franzen, DeLand, Fla. Nov. 22, 2010. (sal.no)

Time: 5 mins read
“E se smettessimo di fingere?” La copertina del libro di Jonathan Franzen sulla crisi climatica

Accusato di aver sottovalutato il potere della speranza e dell’attivismo contemporaneo, Jonathan Franzen, uno degli autori statunitensi più famoso del nostro tempo, si posiziona tra le voci chiave in termini di consapevolezza storica e futuro. L’apocalisse climatica di cui ci parla nel suo ultimo breve saggio “E se smettessimo di fingere?” (Einaudi, 2020) appare nella sua visione più cruda, più cupa, e più razionale possibile: non possiamo in nessun modo evitarla e sarà terribile. Ciò nonostante abbraccia in sé considerazioni fondamentali sull’importanza della comunità e della biodiversità, in contrasto con le spesse radici di quello che chiama petro-consumismo.

Il fattore che Franzen non poteva ovviamente prevedere quando questo saggio è stato pubblicato nel 2019, era il coronavirus e l’emergenza sanitaria mondiale che ha stravolto le nostre vite. Quanti di noi si sono chiesti dove sarebbero finite le politiche green, gli investimenti, gli sforzi, considerando ciascuno di questi aspetti nella sua ancora più rafforzata fragilità? In un mondo dove l’attivismo conserva ancora la sua patina illusoria, data da un’errata interpretazione ormai generazionale del diritto alla contestazione e alla divulgazione, quali sono le azioni davvero concrete da intraprendere?

In primis, la razionalità di Franzen è un’arma, maturata attraverso altre pubblicazioni come La fine della fine della terra e articoli apparsi su testate come il New Yorker, National Geographic e il Guardian. Possiamo usare quest’arma per spogliarci di qualche certezza borghese e accettare il fatto che da qui in avanti molte catastrofi saranno pressoché inevitabili. In occasione del covid, per esempio, alcuni giornali sono tornati a parlare nel 2020 degli agenti patogeni presenti nei ghiacciai: virus e batteri conservati nel permafrost, ben lontani dall’essere solo leggende. Nel 2016 ci furono diversi casi di antrace, tra cui un decesso, causati da una carcassa di renna infetta (morta 75 anni prima). Lo scioglimento del permafrost è una conseguenza del riscaldamento globale.

Jonathan Franzen sulla copertina del TIME

Il 2020, oltretutto, non è stato solo l’anno del covid. Un cambiamento del Dipolo dell’Oceano, causato anch’esso dallo stesso fattore prima citato, ha portato in Africa piogge e inondazioni, aumentando il numero di locuste nel deserto di 8 mila volte. Gli uragani atlantici Eta, Sally e Laura si sono abbattuti forti come mai sulle coste americane. Ancora più recenti, le inondazioni in Cina e Giappone. Gli incendi in Australia, invece, hanno distrutto 85 mila kmq di foreste, centinaia di abitazioni e ucciso miliardi di animali selvatici. Con questo non vogliamo cavalcare l’onda del “pessimismo” di Franzen, ma ricollegarci piuttosto all’ottimismo di David Attenborough, il famosissimo pioniere britannico del documentario naturalistico, oltre che instancabile divulgatore scientifico. Secondo Attenborough, un modo per arginare il problema è fare tutto ciò che in nostro potere per difendere e ripristinare la biodiversità. Tana per Franzen, che fa di questo tema l’elemento portante di tutta la sua critica, insieme ad altri interessanti ingredienti:

La forza delle comunità

«In tempi di caos crescente, la gente cerca protezione nel tribalismo e nell’uso delle armi, invece che nello stato di diritto, e la nostra migliore difesa contro questo tipo di distopia è mantenere democrazie funzionanti, sistemi giuridici funzionanti, comunità funzionanti». Come non pensare ai fatti di Capitol Hill? Non c’è bisogno di un essere un politico o uno scrittore come Franzen per trarre conclusioni su una società frammentata e divisa, dirottata verso le logiche dell’industria e del potere, dove la dimensione della verità viene plasmata attraverso forme di negazionismo diffuse da uomini di potere come Donald Trump. Non è difficile individuare una mancanza di educazione alla condivisione, alla tradizione, alla fiducia nelle alternative dell’agricoltura industriale e del commercio globale. Salvaguardare aree abitabili, la diversità arborea e il lavoro degli instancabili impollinatori sarà possibile solo partendo da realtà molto piccole. La chiave della sopravvivenza pare si trovi proprio nella forza delle comunità, che sommate l’una all’altra forniranno la mappa di una società più rispettosa dove progresso non vuol dire “di più”, ma “per sempre”. Il covid è oggi uno dei più grandi nemici delle comunità, ostacolando e limitando i momenti di utilità sociale e di informazione, oltre che di confronto politico.

Il ripristino della biodiversità e il nuovo Green New Deal

«La crisi climatica non è una questione d’intelligenza».  Dopo l’ultima estinzione di massa, il momento più stabile dell’attuale epoca geologica, l’Olocene, è riconducibile ai suoi inizi. Lo squilibrio e la perdita della biodiversità presente nell’Olocene è associato principalmente all’attività umana. Da amante degli uccelli, Franzen denuncia un interesse politico troppo focalizzato sul clima e non sulle misure di conservazione che potremmo adottare per ripristinare la biodiversità. Attualmente, sul tavolo del nuovo presidente degli Stati Uniti Joe Biden, c’è un piano da 2 trilioni di dollari incentrato su: energie rinnovabili, agricoltura sostenibile, infrastrutture moderne, occupazione (promuovendo nuove assunzioni senza danneggiare quelle attuali), giustizia ambientale, equa opportunità economica e acqua pulita. Probabilmente Franzen lo definirebbe troppo ambizioso, o forse no se ad attuarlo è qualcuno che vuole rivoluzionare l’industria e non solo vendere buone abitudini.

Per vincere la guerra, o le grandi battaglie, dovremmo partire dalle piccole

«L’esercizio etico di ridurre la nostra impronta ecologica è importante; ci fa sentire in pace con la coscienza». Forse qualcuno di voi a quest’ora starà seguendo il “veganuary”, un’idea pro vegan nata in Inghilterra nel 2014 e arrivata finalmente anche in Italia da quest’anno. La speranza di un gennaio all’insegna del veganismo è che nei mesi successivi i più coraggiosi e appassionati possano continuare, infondendo nel prossimo una reale conoscenza di questa pratica banalmente discussa dai media e denigrata dagli esperti. Chi avrà visto il documentario Cowspiracy (2014), ricorderà il monito finale dell’autore, ormai convinto che per salvare il pianeta sia necessaria una dieta vegana. L’importante secondo Franzen, è capire che la nostra impronta ecologica è globale, a prescindere dalle nostre scelte alimentari. Stravolgere l’economia di punto in bianco, secondo lui, ci condurrebbe unicamente ad inevitabili guerre civili.

Una manifestazione a New York per sensibilizzare sui rischi del “Climate Change” (Foto Renato Zacchia)

Un ecosistema sano

«I problemi insolubili sono alla base della condizione umana». Franzen è stato criticato per la sua presunta sfiducia nei confronti del Ipcc – il Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico. Quando lo scrittore mette in discussione i calcoli secondo cui dobbiamo limitare l’aumento di due gradi, il suo scetticismo si riferisce alla possibilità che l’innalzamento di temperatura possa essere superiore. In sua difesa, un recentissimo rapporto dell’Onu afferma che entro la fine di questo secolo la temperatura globale salirà di ben 3 gradi. Questo comporterebbe la conseguente inabitabilità di diverse aree del pianeta, in una corsa verso l’imminente l’estinzione. L’Omm (organizzazione meteorologica mondiale), nel suo ultimo rapporto, denuncia le ripercussioni del clima sugli ecosistemi marini, già sofferenti a cause delle acque più acide dovute all’assorbimento dell’anidride carbonica.  Ci sono cose che ora non possiamo cambiare e altre che possiamo provare a curare, a prescindere dalle previsioni.

Molti film horror cominciano con la descrizione di inquietanti case abbandonate, sovrastate da una natura incontaminata. Ciò che un tempo era il vero proprietario di quel luogo torna a rivendicarne il possesso arrampicandosi sulla desolazione della materia, infondendo in esso l’elemento immancabile: la vita. La natura rimane il giocatore più furbo e veloce della partita, poiché indipendente da noi. All’interno però di una convivenza possibile, Franzen scopre per qualche minuto la corazza e torna al suo animo da appassionato scrittore quando dice «Finché avrete qualcosa da amare, avrete qualcosa in cui sperare». Come si dice, finché c’è vita c’è speranza.

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Danila Giancipoli

Danila Giancipoli

Nata a Roma, mi sono specializzata in cinema e arte contemporanea a Bologna. Durante la gavetta sui set romani ho cominciato a collaborare con riviste di moda, arte e cinema. Mi sono poi trasferita a Torino dove ho collaborato con musei, festival e brand nel ruolo di Editor e Content Producer. Ad oggi lavoro come creativo, giornalista, curo un blog su Medium e sono ossessionata da Stephen King. Born in Rome, I specialized in Cinema and Contemporary Art in Bologna. While gaining experience in the entertainment industry in Rome, I started writing for fashion, art, and cinema magazines. Later I moved to Turin, where I worked with museums, festivals, and brands as an Editor and Content Producer. Currently, I work as a Content Creator and Journalist, I have a blog on Medium and I'm obsessed with Stephen King.

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