C’era una volta il pool antimafia, Leonardo Guarnotta (Zolfo 2020)
Giovanni Falcone aveva il potere della scelta. Tra una quindicina di giudici istruttori all’epoca in quell’ufficio, lui valutava. La preferenza di Falcone fu determinante. È stato lui, Leonardo Guarnotta, l’uomo che Falcone volle come il quarto angolo di quella fortezza rivelatasi perfetta, il primo pool antimafia, costituito per resistere ai nemici “in casa” (nel loro ‘Palazzo dei veleni’) e a quegli all’esterno, tra cui a quei tempi le coorti mafiose più micidiali del pianeta. Falcone parlò a Caponnetto di Guarnotta come aggiunto nell’affrontare la battaglia giuridica contro Cosa nostra. Per fare squadra, da mediano, per tenerli uniti in amicizia, a superare tutti insieme avversità grandi e piccole e difficoltà inimmaginabili, attraversando ostacoli straordinari e malafede inconcepibile, diretti a loro da ogni dove; tutto mentre Guarnotta avrebbe dovuto portare avanti, da gran lavoratore, la sua parte di un mollo di carta immane in modo meticoloso, sostenuto, instancabile.
Una presenza leonina, l’elegante pacatezza, il ritmo grazioso dell’uomo normale; per il pool, la miglior cassa di risonanza, l’amico provato e vero, nella leggerezza e anche nel divertimento. Con Falcone e gli altri hanno continuato a “disturbare lo Stato”. Con ostinazione, competenza e coraggio; con legami affettivi e interessi comuni. Come nel film I Sette Samurai di Akira Kurosawa, Guarnotta era stato reclutato come l’amichevole, astuto, Heihachi; il samurai buono, scelto anche per mantenere alto il morale e tutti uniti di intenti e comportamenti, in buona compagnia. Una presenza costante e solida, Guarnotta controbilanciava attentamente le cose quando passioni e opinioni aumentavano, contribuendo a mantenere concentrati gli sforzi dell’unità, procedendo con perseveranza di fronte agli intoppi. A differenza del film, dove Heihachi fu il primo guerriero ad andarsene, l’ultimo scelto Guarnotta, nel proseguire il prezioso lavoro preciso iniziato dal pool, sopravvisse a tutti. Con gli altri componenti del pool dispersi ai quattro venti, è stato lui a portare avanti l’immenso peso del Maxi-Ter & Quater, non rinunciando a questi doveri finché il compito non fu fatto e il lavoro accompagnato fino alla sua fine nel 1995, come gli intimò di fare Falcone.
La cultura italiana ha prodotto Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Questo stesso popolo ci ha dato uomini come Giuseppe De Lello e Leonardo Guarnotta. Come nella famosa frase kennediana, loro non chiesero cosa poteva fare il loro paese per loro, chiesero cosa potevano fare loro per il nostro paese. Rispondevano alla chiamata; facevano squadra, Tutti per uno e uno per tutti, servivano la causa e davano sé stessi, contribuendo insieme a ottenere cose Buone e Grandi.
Può sembrare una curiosità banale, ma il fatto che i locali dei vostri primi uffici dessero sulla piazza del mercato rionale tramite la scala tra il suo ufficio e quello del Dottor Falcone, permettendo al pubblico il libero accesso mentre lavoravate a tempo pieno sui processi importanti, mi sembra surreale… nonostante l’eventuale possibile prevenzione di questi accessi da parte della presenza perpetua della scorta.
Come è stato per Lei percepire e vivere questa contradizione tra il mondo istituzionale e il suo concepimento della sicurezza, dell’attenzione alle vostre incolumità, ecc. e l’ambiente squisitamente fisico dove facevate cose delicatissime; uffici esposti e spesso mal forniti; autovetture poco manutenute; i posti più impensabili e improvvisati dove fare incontri con potenziali collaboratori di giustizia, ecc.?
“Occorre precisare che gli uffici del dott. Falcone e mio, divisi da una scala che consentiva l’accesso, in entrata ed uscita, erano quelli dell’ufficio di Istruzione a piano rialzato del Tribunale, non i locali del bunkerino, posti al primo piano ammezzato, che Falcone e Borsellino occuparono soltanto dopo l’uccisione del dott. Rocco Chinnici, avvenuta il 23 luglio 1983. Tuttavia, resta l’amara considerazione della mancanza di attenzione alla nostra incolumità da parte dello Stato in un frangente in cui, sotto l’oculata direzione del dott. Chinnici, Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e Giuseppe Di Lello avevano già intrapreso la prima efficace azione di contrasto a Cosa nostra. Nonostante le tante, obiettive, difficoltà nelle quali ci muovevamo, il nostro impegno non è mai venuto meno, convinti come eravamo di essere nel giusto ed animati dalla volontà, nonostante tutto e tutti, di restituire la Sicilia ai siciliani onesti”.

Come descriverebbe l’accoglienza iniziale e le interazioni sia professionali che umane con i colleghi canadesi e americani negli anni in cui avete adoperato, per la prima volta da giudici istruttori italiani, la tecnica di “andare a cercare” gli elementi di prova e non più restare ad aspettare “l’invio delle carte” in ufficio, come accadeva storicamente fino ad allora? Come siete stati accolti e trattati?
“L’esperienza tratta dalla collaborazione con i colleghi d’oltre oceano è stata oltremodo positiva anche per l’amichevole accoglienza riservataci e per lo scambio di informazioni e tecniche di indagini pur nella sostanziale differenza tra i due sistemi, quello accusatorio e quello inquisitorio, alla base dei due codici di rito. É stata l’occasione, imperdibile, per dare concretezza alle rogatorie, cioè alle indagini effettuate presso altre autorità giudiziarie italiane e straniere, alle quali, sino ad allora non si ricorreva anche perché venivano considerate ‘turismo-giudiziario’”.

A New York ho incontrato l’ex-procuratore del distretto di Manhattan, Richard Martin e ho constatato che aveva solo ricordi di stima nei confronti dei membri del pool. Ha offerto una sua opinione che addirittura ci vorrebbero altri cento anni per ricrearsi una simile dinamica: un esperto di livello elevato, unico come Falcone, insieme ai componenti del pool così affiatati. Dalle mie ricerche, risulta che voi del pool avete influito tanto quanto avete appreso dai diversi metodi adoperati nelle altre procure e forze dell’ordine del mondo.
Come descriverebbe il suo individuale seguito professionale dopo di aver potuto trarre esperienza dalle collaborazioni e dai cordiali rapporti personali con i vari colleghi d’oltreoceano? Ci sono esempi di modifiche al suo approccio al lavoro?
“La collaborazione con i colleghi d’oltreoceano, consolidata da cordiali rapporti personali presto instauratisi, ha impreziosito il nostro lavoro e l’approccio allo stesso anche perché siamo riusciti ad ottenere strumenti di lavoro, agende elettroniche e computer, che avevamo richiesto, inascoltati, da molto tempo, abituati, come eravamo, ad utilizzare quaderni ed agende cartacee. Quasi una rivoluzione copernicana”.

Lei onora molti dei suoi colleghi e collaboratori di quegli anni, dando risalto anche a Giuseppe Ayala tra tanti altri individui e alla Guardia di Finanza tra altri corpi di polizia. Pare che ci fossero grandi sintonie e intese, essenziali non soltanto nel lavoro di squadra all’interno del pool, ma cruciali tra forze dell’ordine mai raggiunte né prima né così tanto dopo.
È una valutazione sbagliata?
“È una valutazione correttissima. Ho già scritto, e lo confermo, che il segreto del successo del pool è stato l’avere funzionato da squadra, uno per tutti e tutti per uno, impegnata a raggiungere il divisato risultato finale con l’aiuto, davvero decisivo, da rappresentanti delle forze dell’ordine, anche loro, a buon titolo, protagonisti di una esperienza giudiziaria unica e irripetibile”.

Trovo molto istruttiva e rincuorante la risonanza che lei dà a quegli aspetti umani dei componenti del pool; i demenziali giochi di parole, le passioni per le coppe, per le penne stilografiche e le tante papere; le tantissime fumate; i discorsi filosofici di De Lello; la spensieratezza delle serate spese insieme fuori dal lavoro; financo lo scherzare forte e le tante battute sulla “Morte”. Tutta questa informazione agisce come un invito a riconoscere in voi, protagonisti di quel periodo storico, degli uomini normali e quindi delle figure avvicinabili, imitabili.
Lei ha subito in qualche modo particolare la soggezione e diffidenza dell’agiografia – se permette, ‘dannosa’ – che si è instaurata intorno a voi del pool?
“Tengo a precisare di essermi sempre considerato una persona semplice ed un giudice del tutto normale e dedito al suo lavoro. Certamente, il lavoro svolto da componente del pool non può certo essere ritenuto ‘normale’ ma non ha certamente fatto di me un ‘eroe’ né sono rimasto lusingato o soggiogato da espressioni celebrative, elogiative, encomiastiche riservate ali componenti del pool.
Soltanto, sono orgoglioso di avere sempre fatto il mio dovere, la mia parte. Questo sì”.
A proposito dei consigli di non poter permettersi una vacanza in località Trabia, dati dopo l’inizio degli impegni di lavoro accettati presso il pool, che effetto pensa abbia avuto su di lei – uomo adulto, padre di famiglia, professionista di calibro elevato – diventare ancora più conscio e pienamente consapevole di queste sacche ad alta densità mafiosa della sua Palermo, intervallate da tutte le altre zone sane della sua quotidiana vita cittadina?
“A Milano, la mia prima sede, mi ero posto il problema se abbandonare per sempre la terra dove ero nato e cresciuto oppure rimanere abbarbicato alle mie origini affrontando le tante contraddizioni i problemi endemici e strutturali, le difficoltà ambientali di una terra meravigliosa che non può non amarsi, nonostante tutto. Pertanto, ero perfettamente consapevole, svolgendo le funzioni di componente del pool, dell’esistenza di un campo minato dove occorreva destreggiarsi tra difficoltà e pericoli, rinunciando di volta in volta ad aspetti della vita privata, come prendere in affitto una villa per trascorrervi le vacanze con la famiglia, ma con la consapevolezza di potere anche, sia pure con certi limiti, vivere una vita… quasi normale”.

Il pool di Mani pulite, il pool contro il terrorismo; i magistrati di oggi sempre più specializzati nei reati più vari: contro i minori, conto le donne, di complesse indagini bancarie, contro il patrimonio artistico nazionale, tutti pool formati e accettati normalmente.
Che idea si è fatto sul perché fosse accettabile vantarsi pubblicamente – da parte dei politici, di alcuni funzionari di stato, perfino tra comuni cittadini – contro il solo pool antimafia?
“A distanza di tanti anni e considerati i risultati conseguiti, sino ad allora insperati, dal pool nell’azione di contrasto a Cosa nostra, non è facile farsi un’idea del perché soltanto il pool antimafia, a differenza di altri gruppi di lavoro operanti in settori diversi della criminalità organizzata, fosse oggetto di critiche ed insinuazioni. Forse perché il lavoro del pool aveva, per la prima volta, scoperchiato quel vaso di Pandora dove, per decenni e decenni, erano nascosti inconfessabili legami tra centri di potere, politici ed economici, apparati istituzionali e Cosa nostra con la quale avevano convissuto da oltre 150 anni. E si, quel pool non andava proprio bene”.
Il concetto di contiguità nel contesto della cultura siciliana è la fonte par eccellance per ispirare seri studi per la miglior comprensione – sine qua, non – di quel fenomeno criminale che, unico nel mondo occidentale, dura da oltre un secolo e mezzo. Emblematica la storia della vedova Schifani, Rosaria e suo fratello, Giuseppe Costa affiliato alla cosca mafiosa dell’Arenella. Venire a conoscenza, Dott. Guarnotta, che il suo padre prese parte alla guerra civile spagnola – ma dalla parte dei Franchisti, e pensare che lei è diventato poi un pilastro del democratico principio della legalità – oppure che la mamma di Falcone fosse nata e cresciuta in una famiglia di Corleone, dà un significato più completo perché più complesso ai modi in cui il bianco e nero esistono fianco a fianco.
Ha una valutazione in merito?
“In qualsiasi vocabolario, il termine ‘contiguità’ è sinonimo di “vicinanza immediata nello spazio o nel tempo” o ‘prossimità’ o “affinità logica”. Orbene, il concetto della “contiguità” nella cultura siciliana va interpretato tenendo conto di quel fenomeno criminale che alligna in Sicilia da circa 150 anni per cui può accadere, anzi è più volte accaduto, che quel concetto sfugga ad una obiettiva determinazione del valore da assegnare a determinati fatti ai fini di un obiettivo giudizio. Come valutare, in termini di contiguità, la condotta di mio padre che prende parte alla guerra civile spagnola dalla parte dei Franchisti o quella di Giuseppe Costa che antepone la ‘famiglia’ mafiosa cui appartiene a quella di sangue distrutta dalla uccisione del cognato, agente della scorta di Giovanni Falcone? Interrogativi sul concetto della contiguità ai quali non è facile dare una risposta in termini valutativi”.

Ho trovato il suo capitolo sui pentiti particolarmente istruttivo, raccontando bene e fornendo punti di partenza per meglio studiare e apprezzare questo fenomeno che iniziò dapprima della collaborazione di Buscetta nel 1984. Lei ha ricordato quei pentiti del lontano passato: il medico Melchiorre Allegra nel 1937 (e riscoperto nel ’66 dal giornalista Mauro De Mauro); mafioso Luciano Raia del ’66; nipote di un boss, Leonardo Vitale nel ’73; boss di Riesi, Giuseppe Di Cristina nel ’78. E tutti quelli meglio conosciuti del dopo-Buscetta. Ma poi le donne: Serafina Battaglia, moglie e madre di mafiosi nel ’64; Giusy Vitale della famiglia di Partinico fino alla giovane Rita Atria di Partanna nel ‘91. Gratteri e Nicaso scrivono del primo pentito ante litteram della picciotteria calabrese risalendo addirittura al 1897, Pasquale Trimboli, e il primo di ‘ndranghita nel 1900, Francesco Albanese.
Allora era falsa la narrativa della ferrea legge di omertà? Sembrerebbe che siano stati i mafiosi ad offrirsi ben prima che lo Stato fosse in grado di sentirli e accoglierli. Perché questo, secondo Lei?
“È fuori discussione l’assioma che l’omertà sia stata, da sempre, il pilastro su cui si sono basati il potere e la sopravvivenza della mafia. È altrettanto fuori discussione che gli antesignani episodi di collaborazione con l’autorità giudiziaria e con le forze dell’ordine si siano scontrati con la incompetenza, la ignavia, la inettitudine di coloro i quali avrebbero dovuto occuparsene e preoccuparsene, in considerazione degli insoddisfacenti risultati conseguiti. Forse i tempi non erano ancora maturi? Non si aveva fiducia nella spontaneità e veridicità delle propalazioni dei primi collaboratori? Gli investigatori non erano ancora in possesso delle tecniche di ricerca dei “riscontri” alle informazioni fornite dai “pentiti”. Oppure, ancora, non si nutriva fiducia nella “buona fede” e nella determinazione degli inquirenti nella azione di contrasto a Cosa nostra? Tante le occasioni perse a decorrere dai primi anni del novecento sino a quando non sono spuntati all’orizzonte giudici fermamente determinati a vederci chiaro in quello stato di cose che minacciava seriamente la libertà di determinazione di una intera collettività”.
C’è una frase di grande solidarietà umana nel libro, a proposito dei membri delle cosche perdenti, “…uccisi nelle maniere più atroci…che purtroppo sono stati considerati…quasi non appartenessero anch’essi alla comunità umana e non fosse compito della società civile impedire quel massacro.” Quale rapporto ha con la fede; con la religione? È credente, praticante o piuttosto laico benché, evidentemente, molto umanista?
“Sono un credente, anche se non praticante, che non può rimanere indifferente davanti comportamenti umanamente esecrabili e riprovevoli anche se commessi ai danni di soggetti non adamantini, per usare un eufemismo.”
Si può ricordare come viveva quei momenti in cui aveva davanti un uomo da interrogare che aveva ucciso tanti altri uomini? Cosa ha fatto o ha pensato per mantenersi calmo e permettersi di ragionare lucidamente da giudice davanti a quella difficoltà?
“Avevo già fatto l’esperienza di avere di fronte imputati ai quali si contestavano omicidi nel corso della mia esperienza di Presidente di Corte di Assise. Ma quella vissuta da componente del pool è stata molto più impegnativa perché non è stato facile confrontarsi con uomini che avevano commesso atroci omicidi con le più disparate modalità. Sono riuscito, tuttavia, a mantenere quella lucidità e quella calma indispensabili per portare a termine il mio compito imponendomi di pensare soltanto a raccogliere gli elementi di prova a carico dell’imputato senza essere condizionato da considerazioni diverse da quelle necessarie allo svolgimento del mio compito”.

Ancora illuminanti e rincuoranti le notizie che lei dà, riguardo alla fuga imposta dallo Stato a Falcone e Borsellino all’ Asinara che, “…in realtà, non ebbero il tempo di portare con loro anche soltanto parte delle centinaia di faldoni contenuti gli atti processuali da consultare per continuare il lavoro…”, come ricordato, in altro scritto, anche da Caponnetto. Non che stavano senza metodo di lavorare. Ma il modo ridottissimo – causato dalla fretta dello Stato nell’evacuarli – di poter prendere appunti solo per i capitoli dell’ordinanza-sentenza dice lungo sulle Vostre difficoltà in quel periodo. Questo fatto, in concomitanza con il periodo in cui lo Stato, tramite la supervisione della dott.ssa Ferraro, ha completato l’aula-bunker all’Ucciardone in solo sei mesi, ha del surreale.
Come ha vissuto il contrasto di questi estremi di impegni e sforzi dalle più parti coinvolte in questa storica impresa?
“Occorre premettere che il trasferimento di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino all’isola dell’Asinara è avvenuto, per una ventina di giorni, nel mese di agosto del 1985 cioè due mesi e qualche giorno prima dell’8 novembre 1985, quando venne depositata l’ordinanza-sentenza che diede il via al maxi-processo. Quindi, il forzato allontanamento di Falcone e Borsellino non compromise la stesura finale dell’ordinanza-sentenza anche perché Giuseppe Di Lello ed io abbiamo continuato a lavorare su quelle parti del provvedimento finale di nostra competenza. Nel frattempo, iniziarono i lavori di costruzione dell’aula bunker dove sarà celebrato il processo a Cosa nostra, terminati solo qualche giorno prima dell’inizio del processo. Come ho vissuto il contrasto di quegli estremi impegni e sforzi in quella storica impresa? Con la piena convinzione che il pool avrebbe superato anche quelle difficoltà, forte di quella unità di intenti e di quella consapevolezza di essere in procinto di raggiungere un risultato storico nel centenario contrasto a quella “pericolosissima organizzazione criminale che, con l’intimidazione e la violenza, ha seminato e semina morte e terrore” come definimmo Cosa nostra nell’incipit dell’ordinanza-sentenza dell’8 novembre 1985.”

Dopo l’attentato all’Addaura, nel giugno del 1989, Falcone ha detto che “Ci troviamo di fronte a menti raffinatissime che tentano di orientare certe azioni della mafia.” Poi nell’ottobre del 1991, Falcone ha detto, a proposito del concetto paventato del ‘terzo livello’ che, “…non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa nostra”. Inoltre, la sentenza di primo grado del recente processo Trattiva Stato-Mafia suggerirebbe che la nostra conoscenza degli eventi hanno successivamente contraddetto le idee maturate in precedenza da Falcone. Può offrire una Sua valutazione sull’evoluzione delle diverse, per così dire, scuole di pensiero su questo argomento in relazione ai pensieri apparentemente contraddittori del Dottor Falcone al riguardo?
“Dopo l’attentato dell’Addaura, Falcone fa esplicito riferimento a collegamenti “tra i vertici di Cosa nostra e centri occulti di potere che hanno altri interessi” Nessun riferimento esplicito o implicito al potere politico. Nel 1991, a proposito del paventato concetto del ‘terzo livello’, dichiara che non esistono vertici politici che possono in qualche modo orientare la politica di Cosa nostra. Non mi sembra che ci siano contraddizioni nel pensiero di Giovanni Falcone. Per quanto concerne le conclusioni alle quali è pervenuta la sentenza di primo grado nel processo ‘Trattativa Stato-Mafia’, con riferimento ad eventi che avrebbero successivamente contraddetto le idee maturate da Giovanni Falcone, mi riservo qualsiasi valutazione all’esito definitivo di quel processo.”
A proposito della ‘Superprocura’ – idea promosse da Falcone: alcuni magistrati, tra i quali lo stesso Paolo Borsellino, inizialmente criticarono il progetto, anche firmando un appello contro. I magistrati-firmatari erano contro la concentrazione di così tanto potere in una sola figura. Si diceva anche che alcuni firmatari denunciavano anche il rischio che essa potesse costituire paradossalmente un elemento strategico nell’allontanamento di Falcone dal territorio siciliano e nella (percepita) neutralizzazione reale delle sue indagini.
Ha presente questo episodio? Era contrario anche lei inizialmente ad una diversa valutazione sulla creazione della Superprocura?
“Non ero contrario al progetto di creazione di una ‘Superprocura’ anche perché pensavo che, quasi sicuramente, sarebbe stato designato Falcone a ricoprire quella impegnativa carica. Anche se la concentrazione di tanto potere in una sola figura avrebbe potuto dare luogo a pericolose ed imprevedibili derive”.

Ho sempre saputo che fosse il Dottor Falcone, e non Ministro Martelli, a sollevare la preoccupazione di come poter neutralizzare il rischio che fosse l’Ammazzasentenza a presiedere il Maxiprocesso in Cassazione. Sappiamo che Falcone, dopo l’analisi delle sentenze della Cassazione emesse dal Carnevale fino al quel momento, ha suggerito l’idea innovativa della rotazione dei giudici.
Ma allora, come scrive Lei, l’indagine sull’operato di Carnevale fu su iniziativa del Ministro Martelli e non di Falcone?
“L’iniziativa del Ministro Martelli fu sollecitata da Falcone, il quale temeva che la sentenza del Maxi-Uno potesse fare la fine delle oltre 500 sentenze annullate da Carnevale per vizi di forma. Da qui la decisione, sempre suggerita da Falcone, di fare ruotare la presidenza della Prima Sezione Penale della Corte di Cassazione”.
È bello e fa riflettere molto, vedere elencata tutta la diversa legislazione che il Direttore Falcone era stato in grado a ispirare da Roma. Effetto quasi sbalorditivo. Era stato veramente un periodo più unico che raro; innovativo, che fa la Storia.
Può trarre ancora tutt’oggi soddisfazione dalla sua partecipazione oppure hanno avuto il sopravvento i tentativi di disfacimento, le negazioni di valore, le indifferenze e le disattenzioni? Cosa bisogna fare per meglio reagire contro il mancato apprezzamento di tutto quel progresso?
“Sono orgoglioso di avere avuto l’opportunità di lavorare a fianco di colleghi con i quali e grazie ai quali ho vissuto una esperienza giudiziaria unica e irripetibile che mi ha, ci ha arricchito sul piano professionale e profondamente segnato su quello personale. È stato necessario, in epoca ancora pioneristica, sfidare i pregiudizi, ignorare i frequenti “ma chi te lo fa fare”, i malevoli commenti “ma chi crede di essere”, sopportare il dolore lancinante della scomparsa di colleghi con i quali hai lavorato a stretto contatto di gomito e con i quali hai condiviso momenti di esaltazione e momenti di sconforto e delusione. Perché non venga meno il ricordo dei risultati raggiunti dal pool è necessario investire sulle nuove generazioni alle quali Falcone e Borsellino hanno lasciati un’eredità fatta di esempi, di insegnamenti, di testimonianza di un impegno quotidiano di ricerca della verità”.

Leggere che la Dottoressa Francesca Morvillo fu presente – per esempio alla stesura dei primi mandati di cattura subito dopo le rivelazioni di Buscetta – è uno squarcio prezioso, mai accennato altrove prima. La Dottoressa Morvillo, magistrata a sua volta in altra sezione, aveva mai espresso o condiviso con lei impressioni, opinioni o visioni sue personali sul vostro lavoro?
“Nelle occasioni in cui ho avuto modo di colloquiare con Francesca Morvillo non ricordo che abbia mai espresso opinioni o visioni sue personali sul nostro lavoro. Peraltro, era perfettamente consapevole delle modalità con le quali espletavamo la nostra attività avendo, peraltro, partecipato alla redazione del c.d. mandato di cattura Buscetta, da considerare una pietra miliare nell’azione di contrasto a Cosa Nostra, ma anche e soprattutto per avere vissuto accanto a Giovanni Falcone condividendone il destino sino all’ultimo”.
Pensavo fosse una sua decisione quella di continuare, nel bunker, a portare a termine il lavoro, dopo le uscite di scena dei suoi tre colleghi originali. Si legge invece che Falcone abbia avuto un ruolo non piccolo nella sua permanenza?

“Il collega Falcone ha avuto un ruolo decisivo nella mia decisione di espletare le funzioni di giudice istruttore in proroga facendomi presente che, se mi fossi trasferito altrove, nessun altro giudice avrebbe potuto portare a termine il nostro lavoro. Non ne ha fatto mai cenno, ma io compresi che Falcone voleva che fosse uno dei componenti del pool originario a chiuderne l’esperienza”.
Diversi giovani come collaboratori (con Russo e Ingroia avrebbe potuto costituire un nuovo piccolo pool) e la rogatoria fatta – da ‘solista’ – negli USA nel primo periodo del dopo-pool, Le avranno fornito una nuova prospettiva, forse da mediano ad allenatore, impartendo ad altri il vostro modo di lavorare. Come è stata per lei intravedere quei nuovi orizzonti?
“Sarei stato ben felice di formare un nuovo piccolo pool con i giovani colleghi Antonio Ingroia e Massimo Russo presso la Procura di Marsala ma la mia revoca della domanda per quell’ufficio ha impedito quel disegno che pure mi intrigava. Perché avrei potuto spargere il virus del nostro modo di lavorare: era sempre questo l’obiettivo da perseguire. La lunga ed impegnativa rogatoria negli U.S.A, da ‘solista’, è stata l’occasione di una nuova importante esperienza anche se, in precedenza, ne avevo vissuto altre, sempre negli U.S.A ed in Canada. Ma, in quella occasione, ho avvertito tutta la responsabilità di svolgere un lavoro che conoscevo bene ma che ora mi avrebbe impegnato in prima persona”.
La sua formale frase di routine, “lei può andare” – che si suole dire quando un teste termina di deporre – rivolse al Presidente dell’epoca Berlusconi, molto contrariato, per me la dice lungo sulla sua concezione dei ruoli delle parti; costante, automatica, e abituale a prescindere dai titoli e gradi di autorità. Per chi scrive rivela una sincera e naturale convinzione del principio della legalità e la legge uguale per tutti.
Come controbilancia questa indipendenza intellettuale, necessaria per ogni magistrato, con l’altrettanta naturale soggezione che si prova per figure autorevoli o di spicco in qualsiasi campo?
“Noi del pool abbiamo sempre nutrito rispetto per le istituzioni a prescindere dai nostri personali giudizi o considerazioni sulle persone che le rappresentavano. Abbiamo sempre tenuto conto del ruolo ricoperto da soggetti con i quali entravamo in contatto a prescindere dai titoli o dal livello delle funzioni svolte.
Siamo stati sempre fieri della libertà di azione e di pensiero secondo il nostro giudizio in ogni rapporto intrattenuto con figure autorevoli o importanti. Indipendenza intellettuale, necessaria per ogni magistrato, da un lato, naturale soggezione che si prova per figure autorevoli o di spicco, dall’altro, è come tentare, inutilmente, di equilibrare un peso ponendone un altro dalla parte opposta ignorando o facendo finta di ignorare la pletora di adulatori e cortigiani ai piedi di quei personaggi autorevoli”.
Il concetto della musica blues sta nel sapere che “ora stiamo messi veramente male. Ma domani sarà migliore”. Ha un blues personale che le permette di farcela?
“Ho sempre creduto che le dignità e moralità umane risiedano nella consapevolezza di fare sempre la propria parte, il proprio dovere, nonostante le incomprensioni, le avversità, gli ostacoli che inevitabilmente ognuno di noi incontrerà nel proprio cammino. Mi sono battuto affinché la forza del diritto avesse la meglio sul diritto della forza, ho fermamente creduto che le nuove generazioni potessero raccogliere il testamento morale di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e fossero interpreti e portatori di quei valori fondanti, fondamentali e non negoziabili che si chiamano legalità, giustizia, democrazia, condivisone, solidarietà. È questo il mio blues personale e sono sicuro che mi permetterà di farcela”.