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Don DeLillo e la New York che fuma sigarette, beve caffè e guarda il mondo

Il romanzo del "posteggiatore" del Bronx, che incarna la bella figura di scrittore avulso alla tecnologia e alla moderna frenesia dei salotti letterari newyorkesi

Michele CrescenzobyMichele Crescenzo
Don DeLillo e la New York che fuma sigarette, beve caffè e guarda il mondo

Don DeLillo nell'illustrazione di Pia Taccone

Time: 7 mins read

Anni cinquanta. Il sole estivo batte sul tetto delle auto in fila, da lontano si sente lo schiamazzo dei bambini, l’ottimismo senza complicazioni delle loro voci. Don DeLillo ha vent’anni ed è seduto all’ingresso del parcheggio del luna park del Bronx. Il suo compito è quello di controllare le macchine in fila facendo un fischio in caso di problemi ma invece di lavorare sta leggendo James Joyce, poi William Faulkner, poi Flannery O’Connor e poi Ernest Hemingway. Non aveva mai pensato di farlo prima, la sua adolescenza l’ha trascorsa giocando in strada facendo finta di essere un annunciatore di baseball alla radio. Parlava inglese e italiano contemporaneamente a causa di sua nonna, nata nel Molise, che ha vissuto in America per cinquanta anni e non ha mai imparato la lingua.

Un’immagine del Bronx (Foto Siddarth Anumanthu/Wikimedia.org)

Durante quel lavoro estivo si meravigliò della “radiosità” del linguaggio. Percepiva nelle parole una “qualità scultorea”, e che disporle era un “piacere sensuale“. “Quel lavoro da parcheggiatore estivo si è trasformato in un’età d’oro della mia lettura. Tra i venti e trent’anni ho sempre letto. Credo che questo abbia sicuramente influito sul mio stile.”

Una recente immagine di Don DeLillo (Foto da Wikimedia)

Lo stile è senza dubbio la parte predominante della scrittura di DeLillo. Per tantissimi lettori leggerlo significa soprattutto incontrare una serie di frasi straordinarie. Una sofisticazione linguistica. Aforismi. Intuizioni narrative. È molto più semplice seppellire la realtà che eliminare i sogni”. (Americana, 1971) “Se il nome di un uomo suona bene se lo dici in avanti o all’indietro, significa che è andato a Yale” (Amazons, 1980, pubblicato con lo pseudonimo di Cleo Birdwell.)  “‘Gli animali commettono incesto tutto il tempo. Quindi, quanto può essere innaturale?‘ (White Noise 1985) “Il talento è più erotico quando è sprecato“.  (Cosmopolis, 2003)

Ogni romanziere di successo degli ultimi dieci anni ha ammesso di aver ricevuto una certa influenza da DeLillo: Jonathan Franzen, Brett Easton Ellis, Jeffrey Eugenides gli hanno espresso parole di profonda gratitudine sui giornali e in occasioni pubbliche. DeLillo, a bassa voce, con un accento nasale del Bronx ha commentato con un tono molto più timido rispetto alla sua prosa: “A volte mi chiedo di chi stiano parlando.”

Il suo stile è stato accusato di essere “troppo maschile” – non nella tradizione da macho come Philip Roth o Hemingway –  ma di avere una scrittura distante e lucida, senza cuore.  È stato definito inoltre post-moderno, filosofico e chiaroveggente. Per analizzare i suoi romanzi ci sono perfino due specifici saggi di critica letteraria American Simulacra: DeLillo in Light of Postmodernism e How to Read Don DeLillo, come se scrivesse in latino. Lui ci ha sempre riso su. Ha replicato affermando che lavora a “livello di strada e questo vuole dire che ascolto le persone”, ha detto al New Yorker “le guardo camminare, gesticolando. Cerco di capire le loro contraddizioni, i loro gesti anticonformisti”.

Questa è l’ironia su Don DeLillo: quella di essere definito come uno scrittore spaventosamente intellettuale quando ciò di cui scrive meglio è l’atteggiamento lento, la posa precisa del mondo conosciuta per esperienza e descritta in modo chiaro, elegante, controcorrente, provocatoria e senza tracce di accademismo. DeLillo è, infatti, sempre rimasto fuori dal mondo letterario newyorkese, non aveva contatti né ha ricevuto aiuti.  Dopo il lavoro estivo al luna park del Bronx, si iscrisse all’università per poi lavorare in una agenzia pubblicitaria che lasciò dopo poco. “L’ho lasciata perché avevo bisogno di andarmene. Non avevo alcun piano. Sapevo solo che quello che volevo fare era fumare sigarette, bere caffè e guardare il mondo”. E ha fatto esattamente come voleva.

È stato il Bronx con le sue strade affollate, strette e fumose a essere d’ispirazione per le prime opere. Da lì, Manhattan, dove successivamente si stabilirà, dista pochi incroci: ed è questa continua ricerca dell’americanità più pura e contradditoria che contraddistingue la sua intera storia letteraria. Per questo non credo sia un caso che il romanzo d’esordio “Americana” sia la storia on the road di un giovane professionista rampante, che, parte per le zone più rurali del paese alla ricerca di situazioni più genuine ma anche, inevitabilmente, più difficili.  Don DeLillo, in un’intervista del 1993 ad Adam Begley disse che “Americana” era una dichiarazione di indipendenza privata, il sogno dell’immigrato e come figlio di due immigrati era attratto dal senso di possibilità che aveva attirato i suoi nonni.  Era il 1971 e DeLillo aveva 35 anni. Il libro ottenne recensioni contrastanti: Joyce Carol Oates, scrivendo sul Detroit Sunday News, lo ha definito “un uomo dalla percezione spaventosa” altri critici, invece, hanno giudicato duramente sia quello che i suoi successivi romanzi.

Le cose cambiarono quando, dopo essere tornato dalla Grecia, DeLillo scrisse White Noise (Rumore Bianco) nel 1985, che vinse il National Book Award. Il libro racconta un anno di vita di Jack Gladney, un professore universitario che ha guadagnato notorietà per i suoi studi su Adolf Hitler. Una fuoriuscita di materiali chimici da un vagone ferroviario causa la formazione di una nuvola tossica nella zona in cui vivono Jack e la sua famiglia, rendendo necessaria un’evacuazione. Il romanzo è una riflessione sulla paura della morte nella società moderna e sulla sua ossessione per le cure mediche, con Jack che cerca di comprare al mercato nero un farmaco chiamato “Dylar”, che si ritiene possa alleviare la paura della morte.

Invece di gustarsi il successo DeLillo si chiude in casa e inizia a studiare gli archivi –  resi pubblici proprio in quei mesi –  sull’assassinio del Presidente J. F. Kennedy. Da questo studio nasce il romanzo Libra concentrato sulla figura dell’assassino Lee Harvey Oswald. DeLillo fornisce una ricostruzione lucida e chiara di quei «sette secondi che spezzarono la schiena al secolo americano».

Il successo più grande l’ha ottenuto però con Underword (1997), un romanzo che scava e racconta l’America attraverso la storia di una palla da baseball, una palla famosa, quella del fuoricampo di Bobby Thompson dei Giants contro i Dodgers. Una maestria letteraria senza tempo che fonda elementi pop e personaggi famosi: c’è la Fiat degli anni Novanta, ci sono le sigarette Chesterfield, e i commentatori radio che ancora invitano ad accenderne una negli anni Cinquanta durante lo stacco pubblicitario. C’è la pop-art, l’America affaticata dalla guerra del Vietnam e un nuovo valore – quasi profetico – da attribuire alla spazzatura (elemento completamente ignorato negli anni novanta e che DeLillo rivaluta tra il filosofico e il provocatorio): l’immondizia è la gemella del diavolo. Perché l’immondizia è la storia segreta, la storia che sta sotto, il modo in cui l’archeologo dissotterra la storia delle culture precedenti.

Nel 2003 pubblica Cosmopolis, un racconto lungo su Eric Packer, un multimiliardario ventottenne che attraversa il centro di Manhattan in limousine per farsi tagliare i capelli nel quartiere di Hell’s Kitchen. In questo libro, più di altri, è sviluppata l’idea che il dissenso è uno dei principi fondanti della società americana. Il libro è stato portato al cinema dal regista David Cronenberg con Robert Pattinson come attore protagonista. La pellicola ha ottenuto un notevole successo.

Nel 2007 DeLillo scrive Falling man (L’uomo che cade) sugli argomenti dell’11 settembre. In un’intervista dichiarò: “Penso che la cultura assorba quasi tutto ma non può assorbire gli attacchi terroristici. È troppo potente”.

Il suo ultimo romanzo, Zero K, è del 2016 e si configura come una grande riflessione sul termine della vita e sulla destinazione della coscienza umana. Ambientato in una clinica per la crioconservazione di ricchi eccentrici che sperano di venir risvegliati in un futuro in cui le peggiori malattie che ci affliggono avranno finalmente una cura. Il romanzo è stato annoverato tra le migliori opere di DeLillo da critici illustri come Michiko Kakutani, temibilissima giornalista culturale del New York Times.

Don DeLillo incarna quell’autorevole figura di scrittore avulso alla tecnologia e alla moderna frenesia dei salotti letterari newyorkesi. In un’intervista nel 1988 ad Ann Arensberg disse che “lo scrittore è la persona che sta fuori dalla società, è l’uomo o la donna che prende automaticamente posizione contro il proprio governo. Ci sono così tante tentazioni per gli scrittori americani di diventare parte del sistema e ora, più che mai, dobbiamo resistere. Gli scrittori americani dovrebbero stare in piedi e vivere ai margini, ed essere più pericolosi. Gli scrittori nelle società repressive sono considerati pericolosi. Ecco perché molti di loro sono in prigione.” Anche per questo motivo preferisce rimanere chiuso nella propria solitudine a Manhattan con la moglie texana Barbara, indossando le sue giacche color cachi e i cappellini da baseball.  I suoi capelli grigi hanno spesso bisogno di un taglio e indossa occhiali grandi e leggermente colorati che rendono difficile leggere la sua espressione. Ama rimanere fermo e guardare, con concentrazione bruciante, il mondo che scorre. Cerca una frase brillante, un’idea, una provocazione. DeLillo ha sempre creduto che i libri abbiano il potere di cambiare la coscienza delle persone, “i giovani talentuosi sono attratti dal romanzo più che da altre forme d’arte. Si può adottare un taglio di capelli o uno stile di abbigliamento basato sui film ma non credo che questo cambiamento arrivi più in profondità rispetto a un libro”.

Come dargli torto?

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Michele Crescenzo

Michele Crescenzo

Michele Crescenzo legge e scrive, appena può. È nato a Napoli nel’77 dove si è laureato in Sociologia. Vive a Milano dal 2002, dove lavora in una multinazionale americana. La sua quotidianità è alternata da numeri e parole. Da lunghissime call conference internazionali alla stesura di articoli letterari. Scrive recensioni per Satisfiction. Gestisce “Ti ho Rivista” tabloid sul mondo delle riviste indipendenti italiane. Organizza eventi culturali alla libreria milanese Gogol&Company. Cura la column “Gotham's Writers” su La Voce di New York. Nel tempo libero scrive: Nel 2009 ha vinto il Premio Chatwin, concorso internazionale sul viaggio. Ha pubblicato racconti per antologie e riviste letterarie (‘tina, Pastrengo, Talking Milano, Lettura la newsletter del corriere della sera).

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