Il Made in Italy è morto o è in difficoltà? No, anzi: gode di buona salute. È solo che, per proseguire con successo lungo la strada del Terzo Millennio, ha cambiato nome. O sta per farlo. È la tesi (condivisibile, lo diciamo subito) di una interessantissima ricerca del giovane sociologo Riccardo Giumelli, appena pubblicata. Prima di parlarne, però, è necessario un inquadramento storico.
Ammettiamolo con onestà e dopo ci sentiremo tutti un po’ meglio: il mondo non “sta” cambiando, il mondo “è” cambiato. Non solo quello occidentale. Per quanto ci riguarda più da vicino, di sicuro l’Italia non è più quella di pochi decenni fa. Dimenticato e sepolto il boom economico che fece sognare e lavorare i nostri padri nei difficili ma esaltanti anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, gli anni della ricostruzione dopo il disastro e le macerie del conflitto mondiale, gli anni in cui tutto sembrava possibile, gli anni in cui avevamo un futuro per il quale sudare.
E tra un po’ sarà da dimenticare o quantomeno da superare e ridisegnare anche uno dei più potenti simboli e slogan di quella formidabile stagione: il Made in Italy, appunto. La globalizzazione e la sua applicazione pratica e quotidiana sul territorio, cioè la glocalizzazione, stanno facendo evaporare i vecchi confini rendendo quindi obsolete le bandiere e le icone attorno a cui ci eravamo finora raccolti.
È un bene o un male? In realtà qualsiasi giudizio serve a poco, perché tornare indietro non si può. Meglio quindi prendere atto che nuove ibridazioni, commistioni, melting pot culturali, sociali e anche commerciali stanno prendendo il sopravvento. Come, del resto, hanno sempre fatto: l’umanità, pur perennemente invischiata in guerre e altre brutture, è costantemente cresciuta e si è arricchita nel corso dei secoli grazie all’incontro e confronto tra i diversi popoli e le loro culture. Con buona pace dei sovranisti, degli innalzatori di anacronistici ma soprattutto inutili muri e dei professionisti dell’odio e della paura dell’altro da sé, la realtà è una e ce la ricorda proprio la Storia: emigrazioni e immigrazioni, mettendoci in contatto gli uni con gli altri, unendo e facendo dialogare anche violentemente persone e idee, sono state l’humus che ci ha fatto crescere da quando siamo scesi dagli alberi. E continueranno a farlo.
Perciò, contrariamente a quanto temono alcuni, non c’è da preoccuparsi sullo stato di salute del Made in Italy. A condizione di farlo precedere da una brevissima parolina fatta di appena quattro lettere: post. Giumelli lo spiega nella sua ultima fatica intitolata proprio Post Made in Italy (Edizioni Altravista, euro 23).
Docente dell’Università di Verona, specializzato nell’evoluzione dei processi culturali, membro del Common Board della Schola Italica, centro di alta formazione sul Made in Italy, e curatore tra l’altro della rubrica “Italica” su La Voce di New York, Giumelli parte smentendo provocatoriamente un assunto dato per scontato. E cioè che Made in Italy sia tutto e soltanto quello che è ideato, fatto e prodotto in Italia. «Ma spesso, invece, non è così» dice. E chiarisce: «I prodotti subiscono trasformazioni, assemblaggi, progettazioni in varie parti del mondo ed è sempre più difficile comprendere una vera origine». Soprattutto oggi. Nell’era della interconnettività, dell’internet delle cose, dei trasporti velocissimi e low cost «non tutti i prodotti Made in Italy sono fatti in Italia, altri sono fatti in Italia ma non sono Made in Italy. Alcuni prodotti si presentano come italiani e possono essere frodi. Altri: non è chiaro».
Caos totale? No. «Sono, piuttosto, la conseguenza della mobilità delle competenze e di ambienti di lavoro che sono sempre più incroci di culture. A volte sono cose totalmente nuove ma chi si ispirano all’immaginario dell’Italian Way of life». In altre parole sono prodotti “italici”, termine ormai reso comune dal suo scopritore, Piero Bassetti, il politico di lungo corso le cui idee rivoluzionare dopo le iniziali resistenze sono ora state accettate e anzi condivise e promosse persino dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Italici sono, oltre ovviamente agli italiani, tutte quelle persone che non avendo il passaporto italiano parlano l’italiano come lingua di famiglia (ticinesi, dalmati ecc) ma anche quelle che in giro per il mondo si rifanno per lavoro o per piacere a uno o più aspetti dello stile italiano. Messi insieme, è stato calcolato che siano più di 250 milioni, sparsi più o meno omogeneamente nei cinque continenti. Non a caso, nel distico di prefazione al suo libro Giumelli riporta un post comparso sul blog italianfamilyproblems e che calza con le idee bassettiane sul superamento e annullamento degli ormai obsoleti confini: «Essere italiano non è tanto una nazionalità quanto uno stile di vita».
Ci sono i rischi dell’Italian sounding, certo. Di quei “frappuccino”, “parmesan”, “garganzola”, “reggianito”, “prisecco” prodotti soprattutto nei mercati dei grandi paesi emergenti e che sanno tanto di frode, di danno alle imprese che producono l’originale. La definizione ufficiale di italian sounding è quella riportata dal sito web del MISE (Ministero dello Sviluppo Economico), nella pagina della Direzione Generale lotta alla contraffazione Ufficio italiano brevetti e Marchi: «Italian Sounding, ovvero l’utilizzo di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano l’Italia per promozionare e commercializzare prodotti affatto riconducibili al nostro Paese. Esso rappresenta la forma più eclatante di concorrenza sleale e truffa nei confronti dei consumatori, soprattutto nel settore agroalimentare».
Frode e contraffazione, insomma. Sulle confezioni dei prodotti fatti e confezionati chissà dove e chissà con quali regole e precauzioni sanitarie (se ne hanno), appare il tricolore. Cosa stanno vendendo? Sono i nemici del Made in Italy? Vanno contrastati? Fanno un prodotto veramente peggiore delle “nostre” mozzarelle? Giumelli riporta una recente dichiarazione del Presidente di Federalmentare, Luigi Scardamaglia: «Nella sola industria alimentare, l’Italian Sounding ruba ogni anno oltre 100mila posti di lavoro e ha un giro d’affari intorno ai 90 miliardi, quasi un terzo dei quali solo sul mercato americano».
Tutto vero, per carità. «Ma la globalizzazione è questo» sintetizza Giumelli. «È fatta da fenomeno nuovi che devono far ripensare alle politiche da adottare. Lo so, non è facile ma non dobbiamo tapparci gli occhi». Anche perché gli stessi italiani adottano tecniche analoghe. E qui Giumelli elenca una serie di marchi italianissimi e notissimi (che non citiamo per carità di Patria e, magari per evitarci fastidiose conseguenze) che hanno però nomi anglosassoni. Insomma: se cavalcata con intelligenza e affrontata con una seria volontà politica, la cosa può rivelarsi persino positiva. L’idea portante del pensiero del sociologo – e qui l’influsso di un grande sociologo come Zygmunt Bauman e di un pensatore politico come Piero Bassetti sono evidenti – è che «la riproduzione dell’Italia negli immaginari collettivi, come super-brand, come brand ombrello è capace di conferire valore a beni provenienti da ogni dove». Ovvero: i prodotti sono la conseguenza delle global supply chain. «Subiscono trasformazioni, assemblaggi, progettazioni in varie parti del mondo ed è sempre più difficile comprendere una vera origine». E non è detto che dal caos non possano nascere nuove opportunità. Anzi. Forse gli italiani sono maestri in questo. Non a caso Giumelli cita Philip Kotler, studioso di marketing affascinato dall’ambiguità italiana: «Per il resto del mondo l’Italia è un vero e proprio enigma, perché è l’unico sistema Paese nel quale si riesce a generare valore nonostante la situazione di assoluto caos». Che piaccia o no, siamo entrati nell’era del Post Made in Italy.