Fedeltà, il nuovo romanzo di Marco Missiroli, uscito lo scorso febbraio, era senza dubbio uno dei romanzi italiani più attesi del 2018. Prima ancora della sua pubblicazione – che ha segnato anche il passaggio dell’autore riminese, ma milanese d’adozione, dall’editore Feltrinelli ad Einaudi – veniva indicato come uno dei candidati possibili al premio Strega (nel frattempo la possibilità è diventata certezza). In meno di un mese, il libro ha scalato le classifiche di vendita, forte dello zoccolo duro di lettori generato dal suo predecessore, Atti osceni in luogo privato. Ma ha anche collezionato un numero record di recensioni: molte positive, alcune negative.

Vediamo brevemente di riepilogare. Le critiche positive si concentrano sulla perfezione della macchina narrativa, sull’attualità dei temi affrontati – pur non essendo particolarmente trendy, anzi – e sulla ormai avvenuta metabolizzazione, da parte dell’autore, dei suoi modelli, soprattutto americani, Roth in primis, a cui ha scelto di affidare l’esergo (qualcuno ha persino menzionato il Joyce de I morti, il celebre racconto con cui si chiude la raccolta I dublinesi, ma si sa che paragonare Joyce a qualcun altro sembra sempre un poco blasfemo).
Dalle critiche negative il libro è stato definito freddo, commerciale, superficiale nella rappresentazione dei sentimenti dei protagonisti. Infine, centrato su questioni “superate” (a riprova del fatto che se vi è adesione alla contemporaneità non vi è, al contrario, inseguimento delle mode). Perlomeno quest’ultima critica credo la si possa liquidare con un’alzata di spalle. Per un certo tipo di lettore – diciamo, un lettore che si ritiene sofisticato? – se un romanzo non è ambientato nella Galizia del 1870 o nel Burkina Faso (detto con tutto l’amore possibile per il romanzo storico o la letteratura migrante), non è abbastanza colto o innovativo.
Fedeltà, questo sì, non va a scavare in una nicchia, tematica o d’altro genere. Non prende di petto la cronaca, nera o politica che sia. E non si appoggia a qualche evento o personaggio del passato. Affronta invece una problematica che ci è vicina, che ci riguarda ampiamente, credo un po’ tutti, chi più chi meno: cosa significa essere fedeli? E che cosa significa tradire? Il tutto all’interno di una coppia, non eccessivamente borghese – almeno, non nell’accezione che questa parola poteva assumere ai tempi di Buzzati, un autore a cui Missiroli si rifà – quanto piuttosto “normale”. Una coppia che appartiene a quel ceto medio tendente all’impoverimento composto di persone colte – l’università di massa ha pur sempre sortito i suoi effetti – che un lavoro lo hanno trovato, ma che non sono perciò stesso benestanti, specie se devono comprar casa in una città come Milano.
Siamo, insomma, nell’Italia dei giorni nostri, né più né meno. E siamo ben dentro la tradizione del romanzo realistico. Carlo è un insegnante e un ghost writer. Scrive schede di viaggi di paesi che non visita, la suprema delle frustrazioni, ma non sembra soffrirne eccessivamente, mentre attende con fin troppa pazienza di diventare un redattore di Bell’Italia. Da alcuni indizi si capisce che nutre, come molti, qualche altra ambizione, in particolare scrivere un romanzo. Se aveva un po’ di orgoglio, ha dovuto metterlo da parte quando ha accettato che suo padre, uomo che, come si dice, “non le manda a dire” (ha definito il figlio “capitale ad alto rischio”), l’aiutasse a prendere un insegnamento all’università. Non per questo però è uno sconfitto. È, semmai, un uomo in bilico, ancora irrisolto, e non solo sul piano professionale. Un uomo che ama sua moglie ma che si scopre vulnerabile alla più classica delle lusinghe: quella rappresentata da una sua studentessa, Sofia. Come vedete, siamo nel cuore di un’esistenza che più standard non si può. E come tale, di un’esistenza paradigmatica.
Al polo opposto – ma anche, al fianco di Carlo – troviamo Margherita. Donna capace e, se necessità impone, risoluta quel che si deve, senza prepotenze. Architetto, agente immobiliare, attratta da un appartamento al di sopra del budget che la coppia può permettersi, un appartamento che ha una luce magnifica, pur essendo al quinto piano di un palazzo senza ascensore. Margherita è una moglie innamorata, una figlia devota spalleggiata da una madre formidabile. E tuttavia, è a sua volta vulnerabile. A metterla alla prova sono le mani capaci di un fisioterapista, a cui si è rivolta per curare un disturbo ad una gamba. Mani che arrivano nel momento cruciale in cui comincia, per la prima volta, a sospettare della sincerità del marito.
Attorno a questi due protagonisti ruota uno spettro piuttosto ampio di personaggi, che conferisce sapore e sostanza alla storia. Ad esempio Andrea, un giovane che di mestiere cura i corpi e i dolori altrui, ma è al tempo stesso oscuramente attratto da ciò che ferisce e fa male, combattimenti fra cani e anche altro. Oppure il padre di Sofia, che coltiva con dignità i suoi dolori e il suo affetto per una figlia al contempo amorevole e sfuggente. Ma soprattutto la madre di Margherita, Anna, il personaggio più riuscito, quello che, anche in virtù dell’età, racchiude in sé il maggior numero di mondi: vedova, ex-sarta, un marito che custodiva dei segreti, un passato liberal-radicale alle spalle, non abbastanza snob per rinunciare ai consigli di una fattucchiera e non abbastanza delusa dalla vita per rinunciare ad intervenire (“intromettersi” sarebbe troppo forte) nelle vicende della figlia e di quello strano genero che ogni tanto si autoinvita a pranzo senza dir nulla alla moglie, e poi si intrattiene ancora un’oretta spulciando libri.
Il tema è quello enunciato dal titolo, naturalmente: quello della fedeltà intesa non solo nella sua accezione, diciamo così, transitiva, ovvero di fedeltà verso l’altro, verso il coniuge, l’amante, persino il destinatario di una prestazione lavorativa (che si può circuire). Ma anche come fedeltà a se stessi, alla propria natura profonda, alle proprie inclinazioni o ai propri bisogni. Speculare a questo vi è il tema della rinuncia: cosa costa rinunciare a qualcosa che si desidera, per scarsa determinazione, oppure, più nobilmente, per rimanere fedeli al patto stretto con un’altra persona, una persona con cui si è impostato un progetto di vita?
Missiroli parla delle nostre vite e del nostro tempo senza sbracare. In queste storie di infedeltà consumate o anche solo sognate c’è ad esempio la tecnologia, nostra onnipresente compagna di strada, ci sono i cellulari e i messaggini, ma non ci sono, per fortuna, le chat e i social, la cui presenza avrebbe probabilmente involgarito una storia che volgare non lo è mai.
Ed è molto bravo a disegnare con mano sicura la geografia, i luoghi: Milano, innanzitutto, perfettamente fedele alla realtà, anche se lontana dalle sue rappresentazioni più “estreme” (non i quartieri-dormitorio dove nascono le nuove star della trap, e nemmeno gli attici del Bosco verticale; di nuovo, la preferenza va alla medietà). E poi una Rimini fuori stagione, nebbiosa, poco marina, poco tondelliana, fatta di edilizia popolare e negozi (in particolare un negozio, una ferramenta).
Ma il successo annunciato del romanzo non è dovuto a questo, anche se Missiroli dà l’impressione di non avere lasciato niente al caso, di avere studiato ogni dettaglio con attenzione perché, così come in un film, anche in un romanzo i dettagli conferiscono autenticità alla storia, pur se spesso l’attenzione del lettore multitasking è messa a dura prova dalle tante distrazioni dell’era digitale e la memoria non li trattiene. E’ dovuto piuttosto alla sua capacità di dettagliare un altro tipo di geografia, in maniera credibile e riconoscibile: una geografia sentimentale, fatta di slanci e pulsioni – alcune non governabili – ma anche di tentennamenti, di dubbi, di pentimenti.
C’è poi, con molta evidenza, nell’ultima parte, il tema della morte, un altro dei grandi argomenti della letteratura di ogni tempo. Ad esempio mi verrebbe in mente che in Anna Karienina l’unico capitolo che Tolstoj ha voluto titolare è proprio quella riguardante una morte (di Nikolaj, nella quinta parte del romanzo). Ma forse in Fedeltà ha contato qualcosa anche l’amore dell’autore per Stoner di John Williams. In entrambe i casi l’esito è commovente. La commozione è un esito importante, anche se in apparenza il lettore potrebbe considerarlo un suo – in qualche modo – diritto: ho pagato per quest’opera e voglio che mi susciti delle emozioni forti. In realtà è più facile stupire, provocare, divertire, a volte anche annoiare (per quanto io non consideri le parole “noia” o “noioso” degne di un giudizio critico, ed infatti credo non le abbiate mai trovate in una mia recensione). La capacità di suscitare commozione appartiene agli autori più capaci (di padroneggiare la tecnica) ma al tempo stesso più sensibili (ai sentimenti dei propri personaggi).
Ancora qualcosa sullo stile. A caratterizzare l’azione c’è, spesso, un flusso continuo, una sorta di passaggio di testimone da un personaggio (o un gruppo di personaggi) ad un altro, o da uno scenario ad un altro. Liquido, senza cesure, quasi cinematografico. In questo modo l’autore ha risolto probabilmente la sua estrema attenzione nei confronti di tutto ciò che manda avanti la storia, e di conseguenza la lettura, che può essere il plot ma anche altro, la struttura, appunto, o il linguaggio.
Linguaggio che qui è sempre sorvegliato, anche quando utilizza espressioni dialettali (“Mì son cuntèent inscì”) o prosaiche (scopare è scopare, non ci si gira tanto attorno).
Chi è cresciuto a pane e stream of consciousness, o a companatico e beat generation, a volte non disdegnerebbe un lasciarsi un po’ più andare, un allentare le redini, da parte di Missiroli. Magari una digressione più ampia (ce n’è una, in effetti, formidabile, il colloquio di lavoro di Carlo), un partire per la tangente, inseguendo qualche pensiero, qualche evento o qualche angolo di paesaggio urbano per il puro piacere di farlo. Un’ammissione, se vogliamo, di debolezza, testimoniando al lettore l’impossibilità di tenere sotto controllo proprio tutto. Ma tant’è. In Fedeltà, forma e sostanza si sposano perfettamente, e conducono il lettore per mano dove l’autore vuol condurli: alla fine – tardiva, forse, come è tipico, un’altra volta, della nostra epoca – della giovinezza dei protagonisti. La fine irrevocabile, definitiva, a cui approdi quando decidi di rinunciare a quella che Kundera ha chiamato “la mela d’oro dell’eterno desiderio”.
Accenno ad un ultimo possibile rimando: quello ad Eccoci di Safran Foer. Lì come qui il motore della storia è costituito da un uomo che organizza la disfatta del suo matrimonio attorno alla possibilità di un adulterio. Lì come qui l’uomo – il marito, il maschio – è il centro della crisi. La generano le sue azioni, ma anche le sue indecisioni. I risoluti amanti del passato, risoluti, ovviamente, nella buona e nella cattiva sorte, nelle grandezze così come nelle bassezze – il capitano Edward Ashburnham de Il buon soldato, Rodolphe de Madame Bovary – sono lontani.
A differenza che in Safran Foer, però, qui la realtà politico-sociale è molto più sfumata. Niente guerre, niente calamità naturali. C’è lo spettro della crisi, che aleggia, ma è uno spettro discreto e, come dire, consueto, come ci siamo abituati a considerarlo negli ultimi dieci anni, se non apparteniamo a quella ristretta minoranza di italiani che ha addirittura rafforzato il suo benessere relativo, o a quella più ampia percentuale che è precipitata nell’indigenza.
Ancora una scelta in favore della midway, la via di mezzo. Ma è in virtù di questa scelta che il romanzo riesce a parlare ad un pubblico vasto e differenziato. Come i classici fra i quali aspira, probabilmente, ad essere annoverato.
Marco Missiroli, Fedeltà, Einaudi, 2019.
Poscritto
Una confessione, anche se non ne sarei tenuto: da alcuni mesi l’autore di questa rubrica, cioè il sottoscritto, sta frequentando la scuola Holden di Torino, e ha Missiroli come insegnate. Ciò potrebbe indurre a pensare che vi sia una sorta di “conflitto di interesse” in questo articolo. Infatti, ci ho pensato un po’ prima di scriverlo. Ho riflettuto sulla possibilità di rinunciare, o di chiedere all’autore un’intervista (cosa che probabilmente farò in ogni caso). Poi alla fine mi sono detto: fanculo, io scrivo. Perché? Perché su questa testata (come anche in altre con cui ho collaborato) mi faccio un vanto di avere sempre scritto esattamente quello che volevo. Cercando di essere prima di tutto un lettore attento. Così ho fatto anche stavolta. Non nego che la conoscenza personale di un autore possa influire – in maniera magari anche inconscia – sul giudizio che formuliamo nei confronti della sua opera. Ma, in definitiva, non credo che questa circostanza abbia compromesso in maniera apprezzabile la mia capacità di giudizio. Buone letture, quindi, e alla prossima.