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Mariella Carrossino: per capire il mondo, mangiamo la storia con gli occhi!

Intervista alla docente e storica dell'arte, autrice del libro "Mangiare con gli occhi", che racconta l'iconografia del cibo nel corso dei secoli

Claudia PellicanobyClaudia Pellicano
Mariella Carrossino: per capire il mondo, mangiamo la storia con gli occhi!

Lotta tra carnevale e quaresima, di Pieter Bruegel

Time: 7 mins read

Il cibo come patrimonio culturale e la pittura come allegoria del gusto. Mariella Carrossino, docente e storica dell’arte, ci racconta come sia cambiata e cosa abbia rappresentato l’iconografia del cibo nel corso dei secoli.  Mangiare con gli occhi porta a percorrere un viaggio nella storia e nella memoria, verso momenti in cui il cibo ha significato, al contempo, un’occasione conviviale, una celebrazione di legami affettivi, una rappresentazione rituale e un modo di tenere vive tradizioni culturali e famigliari.

Il senso del gusto è assurto, a seconda dei periodi storici e delle sensibilità culturali, a simbolo del peccato, esperienza sensoriale, speculazione estetica o metafora del piacere. Il rapporto tra arte e alimentazione è sempre stato molto forte, e funge tuttora da viatico per l’interpretazione della realtà e dei suoi mutamenti, in un connubio che ha trovato nelle arti pittoriche la sua massima espressione.

La copertina del libro “Mangiare con gli occhi”

Nel suo libro lei cita, tra le altre cose, il De sensu et sensatu di Aristotele. Qual è la relazione tra l’esperienza del gusto e la conoscenza intellettuale?

“Per Aristotele, esiste una relazione precisa tra l’esperienza sensoriale e la conoscenza intellettuale; di conseguenza tutti i sensi sono fonte di conoscenza, tramiti tra corpo, anima e intelletto. I filosofi cristiani, quali sant’Agostino, riprenderanno poi questi concetti ma con l’ammonimento a non lasciarsi sedurre dal piacere che i sensi procurano. Nel caso del Gusto, il passaggio al peccato capitale della Gola può essere breve”.

In passato, il cibo è stato ampiamente demonizzato dal cattolicesimo; Tertulliano vedeva nella gola, il vizio, e, nel digiuno, la virtù, anzi, la via per accedere al Paradiso. Ci sono altre culture in cui è presente lo stesso stigma, oppure la gola intesa come peccato è un dettame peculiare delle società cattoliche?

“Tutte le religioni in un modo o nell’altro impongono dei divieti alimentari. I casi più noti a noi sono la proibizione della carne di maiale per i musulmani, o le complesse norme alimentari ebraiche della kashrut. Peraltro nel cristianesimo non esistono divieti relativi a singoli alimenti, bensì sono stati introdotti nel tempo una serie di precetti per tenere a freno quello che veniva considerato dai cattolici il peccato di Gola. Il divieto di consumare carne, uova e latticini, i cibi considerati grassi, non solo in quaresima ma anche in numerose occasioni previste dalla liturgia cattolica (i giorni di astinenza potevano ammontare sino a centocinquanta l’anno), era uno dei principali motivi di contrasto tra cattolici e luterani, che non ammettevano l’esistenza di cibi impuri. Opere quali Banco di macelleria con la fuga in Egitto di Pieter Aertsen, Combattimento tra il Carnevale e la Quaresima di Pieter Bruegel il Vecchio, Macelleria di Annibale Carracci, sono state interpretate anche alla luce delle dispute religiose tra Riforma e Controriforma, nella dialettica tra ‘cibi proibiti – cibi consentiti'”.

Banco di macelleria con fuga in Egitto, di Pieter Aertesen

In periodi di carestia e di forti diktat morali, la rappresentazione del cibo ha anche una funzione esorcizzante?

“C’è sempre molta ambiguità e possibilità di molteplici, a volte contraddittorie letture nelle opere che rappresentano il cibo. Rappresentare l’abbondanza è certo un modo per esorcizzare la paura della mancanza di cibo in società sottoposte a frequenti e ripetute carestie. Così è nelle strepitose nature morte fiamminghe e olandesi, che mettono in evidenza anche la ricchezza di queste società mercantili. L’abbondanza derivata dalla ricchezza è benedetta da Dio nel mondo protestante, ma in molte rappresentazioni, per mitigare gli eccessi, ci sono anche segnali inequivocabili della fugacità dell’esistenza”.

Opere come quelle di Steen, Rubens, Honthorst, Aertsen e Beuckelaer fungevano soltanto da monito contro la fugacità dei piaceri, o fornivano anche un pretesto per raccontare un nuovo benessere?

“Il già citato Banco di macelleria con la fuga in Egitto di Pieter Aertsen, è il prototipo di una vasta produzione di soggetti dedicati ai mercati e alle cucine, all’origine anche della vastissima produzione di nature morte e scene di genere della pittura fiamminga e olandese, ma anche italiana e spagnola. Il dipinto, che compare ad Anversa nel 1551, ha come assoluto protagonista della scena il cibo, mentre la scena sacra è rimpicciolita sullo sfondo. Il tripudio di carni del dipinto, oltre a rendere ben visibile quanto la carne fosse oggetto di desiderio presso tutti i ceti sociali, non sembra prescindere dal contesto storico-economico tipico del sistema mercantilistico che vede Anversa come centro europeo di primaria importanza nella circolazione delle merci. Se l’esibizione dei cibi sembra essere la motivazione primaria, su queste immagini si sovrappongono una molteplicità di segnali che ne rendono spesso complessa l’interpretazione. Ma col diffondersi di questi soggetti, specie nella produzione del nipote di Aertsen, Joachim Beuckelaer, la metafora del contrasto tra vita mondana e vita spirituale tende a lasciare il posto a scene di genere autonome dove è il piacere dei sensi a essere sollecitato con una virtuosistica esibizione di cibo, molto gradita dai committenti. Artisti olandesi, quali Honthorst, Steen, Metsu, poi, nel corso del Seicento, hanno realizzato realistiche scene di vita quotidiana in cui, a momenti di allegra convivialità favoriti dal cibo, si intrecciano moralistici ammonimenti, ma dove, più spesso, l’ironia sembra prevalere”.

Nel corso della storia alcuni cibi e bevande sono assurti a veri e propri status symbol, come la carne in epoca medievale o lo champagne nell’Ottocento. Nelle società di consumi di massa, l’alimentazione è ancora connessa allo status?

“Massimo Montanari documenta come dal Medioevo alla fine dell’Ancien régime, “l’ideologia della differenza” permei ogni aspetto della vita sociale, compresa la dieta alimentare. Il Mangiafagioli di Annibale Carracci che, con grande godimento, mangia la sua zuppa di fagioli e ha sulla mensa torta di verdura e cipollotti freschi, ben evidenzia la differenza tra alimentazione contadina e signorile, che privilegiava ortaggi pregiati come carciofi, frutti delicati e deperibili come pere e meloni, (v. Abraham Bosse, Il Gusto), carni fresche, specialmente cacciagione, condita con le costosissime spezie. Che l’alimentazione sia connessa allo stato sociale, ieri come oggi, appare in tutta evidenza, solo che sono cambiati i modelli di riferimento. Se i bambini di robusta corporatura, perché ben nutriti, del ritratto di Marten van Heemskerck, Pieter Jan Foppesz e la sua famiglia, sono segno di buona salute, resa possibile dal benessere economico che nei Paesi protestanti era considerato frutto della benevolenza divina, lo stesso non si può dire del bambino obeso raffigurato in Domenica mattina da Laura Wächter (2011). Il ragazzino appare come esempio tipico di quei comportamenti diffusi tra i genitori degli strati sociali meno evoluti culturalmente, che consentono ai figli di ingozzarsi di ogni genere di junk food, fatto apposta per diseducare al gusto.  La relazione tra condizione sociale e alimentazione è ancora più evidente nella iperrealista Compratrice al supermercato del 1969, in cui Duane Hanson raffigura una casalinga trasandata che spinge il carrello della spesa ricolmo di cibi industriali anonimi e ad alto contenuto calorico. Più che un’ingorda insaziabile, appare afflitta da una condizione patologica di bulimia, e il cibo sembra essere la sola consolazione della sua condizione alienata”.

Al ristorante, di Charles Hoffbauer

Ci sono, ad oggi, alimenti legati alla posizione sociale?

“Tartufi, foie gras e aragoste, insieme a ostriche e champagne, sembrano detenere ancora il primato dei cibi cult, a partire da dipinti come Colazione con le ostriche di François de Troy, festino di soli uomini alla ricerca di piaceri sensuali grazie ai molluschi afrodisiaci, rinforzati dall’ebbrezza dello Champagne, il vino pregiato che diventò di gran moda proprio alla corte di Luigi XV. Il pranzo del Vescovo di Giuseppe de Nittis (1863), ne dimostra la diffusione presso le élite borghesi partenopee per l’influenza dei nuovi modelli alimentari della cucina francese anche a Napoli. Nuovi luoghi simbolo di uno stato sociale privilegiato diventano, già nel corso dell’Ottocento, i ristoranti di lusso sorti sui boulevard, a Parigi come a Londra, come è ben evidente nel dipinto di Charles Hoffbauer, Al ristorante, del 1907. Oggi, più che negli alimenti di pregio, che sono a disposizione di fasce sociali sempre più ampie e a costi inferiori, lo status symbol è dato sempre dai ristoranti di lusso, a patto, però, di avere chef stellati, le nuove vere star del nostro tempo in fatto di cibo e convivialità sociale, a disposizione di una clientela sempre più selezionata”.

Intellettuali come Brillat-Savarin dovevano scrivere di cibo sotto falso nome, perché era impensabile che un personaggio d’alta estrazione si occupasse di alimentazione. Quand’è che nasce il binomio gastronomia/cultura?

“È ad Antonin Carême, cuoco e scrittore francese, che si deve la codifica di un nuovo stile di cucina, noto poi come haute cuisine, in un tempo in cui, come adesso, la gastronomia era diventata un culto. Carême era stato lo chef preferito dall’alta società, aveva realizzato i banchetti ufficiali per Napoleone e per la corte dello zar a San Pietroburgo, ma già nel primo Ottocento le raffinatezze dell’alta cucina si potevano trovare nei numerosi ristoranti sorti a Parigi dopo la Rivoluzione. L’iniziazione all’arte dei piaceri della tavola, rivolta ai nuovi ceti emergenti, si deve a Grimod de la Reynière, aristocratico, letterato, giurista, ma soprattutto gourmet, che inventò la critica gastronomica con il suo Almanach de gourmand, con recensioni su caffè, ristoranti, botteghe parigine, la cui prima edizione uscì con grande successo nel 1802, e poi, per anni, fino al 1832″.

Oggi esistono dei tabù legati al cibo? O l’unico diktat è dato dai canoni estetici, per cui il senso di colpa legato al peccato si è trasferito sull’apparire?

“Con la fine dell’ancien régime si giunge a un radicale stravolgimento della morale comune e a un modo diverso di rapportarsi al tema del gusto. Nel secolo dei lumi, infatti, la condanna morale del peccato di gola non ha più ragione di essere, sostituta dalla critica del comportamento dell’individuo. Ne è un divertente esempio la stampa satirica di James Gillray Un epicureo negli orrori della digestione, che negli anni della rivoluzione francese raffigura il Principe di Galles, il futuro re Giorgio IV, in un’immagine ben poco decorosa, con in primo piano il ventre gonfio per gli eccessi alimentari. Se mangiare molto e essere grassi cessò di essere un indicatore di superiorità sociale presso i ceti intellettuali borghesi, i nuovi ricchi consideravano ancora il grasso un valore estetico, oltre che segno di privilegio sociale (Boris Kustodiev Kupchikha che beve il tè, 1918). La compresenza e l’alternanza di modelli estetici differenti è ancora una costante per buona parte del Novecento. Solo a partire dagli anni Ottanta il magro si afferma definitivamente nel mondo occidentale perché, come sostiene Massimo Montanari, «il pericolo e la paura dell’eccesso hanno sostituito il pericolo e la paura della fame». La magrezza è così finita per diventare uno status symbol, rispetto al sovrappeso delle donne dei ceti svantaggiati che non sanno controllare i meccanismi regolatori della fame, sino al rifiuto e alla negazione stessa del cibo. Vanessa Beecroft, nella Performance VB 52, conferma quanto il cibo sia stato per anni una sua grande ossessione, proiezione delle tensioni psicologiche sue, oltre che diffuse a livello di massa. Nel banchetto al Castello di Rivoli, alle bellissime modelle nude, magre al limite dell’anoressia, vengono serviti cibi a basso contenuto calorico, con un ordine scandito solo dal colore delle portate”.

Il fiero pasto, di Vanessa Beecroft

Si può dire che oggi i veri peccati siano lo spreco di cibo, da una parte, e la fame nel mondo dall’altra? L’arte moderna si interessa a queste tematiche?

“Direi proprio di sì. Porto due esempi: la stessa Beecroft, dopo personali esperienze nel Sudan e nel Darfur, ha radicalmente ribaltato il rapporto con il cibo che, da ossessione personale, è diventato problema sociale e umanitario. L’artista nel 2009, nella Performance VB 65 Il fiero pasto, ha messo a un lungo tavolo di cristallo, che riprende il precedente del Castello di Rivoli, ventuno immigrati africani, apparentemente eleganti, ma in realtà vestiti con abiti altrui dismessi. I soggetti sono impegnati a mangiare carni arrostite e polli interi, smembrandoli con le sole mani, senza piatti né posate. Il rimando è a memorie primordiali di fame e di bisogni primari inappagati in un confronto con l’indifferenza delle nostre società così dette evolute. Sul tema dello spreco, posso citare un’altra artista donna, l’anglosassone Gayle Chong Kwan, che utilizza gli scarti di cibo come simbolo degli sprechi alimentari nel mondo, e li trasforma in favolosi micro-paesaggi”.

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Claudia Pellicano

Claudia Pellicano

Pugliese di nascita, romana d’adozione e newyorkese d’elezione. Sono giornalista pubblicista, credo nel potere delle parole e che la bellezza salverà il mondo.

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