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January 23, 2018
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L’inviato di guerra Gian Micalessin denuncia orrori e “fake news” sulla Siria

Intervista con l'autore del libro "Fratelli traditi", sulla tragedia dei cristiani in Siria raccontata attraverso quello che hanno visto gli occhi del giornalista

Alessandra MorobyAlessandra Moro
L’inviato di guerra Gian Micalessin denuncia orrori e “fake news” sulla Siria

Gian Micalessin

Time: 9 mins read

Gli occhi della guerra è il titolo di uno dei suoi libri, ma Gian Micalessin gli occhi li ha proprio nella guerra e questo dal 1983, impegnato nelle principali e più drammatiche aree di conflitto del mondo come reporter, dal 1988, per Il Giornale.  

Gian è giornalista di guerra da oltre trent’anni; nel 1983 fondò, con i colleghi Almerigo Grilz e Fausto Biloslavo, l’Albatross Press Agency, cominciando la carriera seguendo i mujaheddin afghani in lotta con l’Armata Rossa sovietica. “Da allora ho raccontato più di 40 conflitti, dall’Afghanistan all’Iraq, alla Libia e alla Siria, passando per le guerre della ex-Jugoslavia, del Sud Est asiatico, dell’Africa e dell’America centrale”.

Oltre che per Il Giornale, ha scritto per molte testate nazionali ed internazionali, come Panorama, Corriere della Sera, Liberation, Der Spiegel, El Mundo, L’Express, Far Eastern Economic Review. Comunicatore multitasking, è anche documentarista ed autore televisivo e  i suoi reportage sono stati trasmessi dai più importanti network nazionali ed internazionali: Cbs, Nbc, Channel 4, France 2, Tf1, Ndr, Tsi, Canale 5, Rai 1, Rai2, Mtv.

Partiamo dalla tua più recente uscita editoriale, Fratelli traditi: quale la genesi e quali i fini?

“Questo libro nasce  nel settembre 2012. Sono appena arrivato a Damasco per il mio primo reportage sulla guerra in Siria e padre Hanna Jallouf mi dà appuntamento al memoriale di San Paolo. Padre Hanna è il parroco di Knayeh, un piccolo villaggio cristiano nella provincia di Idlib non lontano  dal confine turco. Knayeh  è stato uno dei primi villaggi ad essere occupato dai ribelli già nell’estate del 2011. Da allora è la prima volta che padre Hanna riesce a raggiungere Damasco. Io non so molto di quel che sta succedendo in Siria. La gran parte  dei media racconta una guerra in bianco e nero con un dittatore impegnato a massacrare il proprio popolo e una rivolta animata  da  ribelli  pronti a regalare la libertà e democrazia al paese.  Il racconto di Padre Hanna  va esattamente nella direzione opposta. Mi racconta che quando i ribelli sono entrati a Knayeh per prima cosa hanno massacrato e fatto a pezzi un’ottantina di soldati governativi che avevano tentato di arrendersi. Poi avevano mozzato le loro teste e le avevano esposte sopra i palazzi del governo. ‘Almeno  il 40 per cento dei ribelli sono estremisti se andranno al potere – mi disse – la Siria non sarà un paese pacifico’. Le stesse cose me le raccontano pochi giorni dopo i vescovi e i religiosi di Aleppo. Allora capisco che nella narrazione di quella guerra  qualcosa non funziona. Appoggiavamo i ribelli jihadisti e non ascoltavamo i nostri fratelli cristiani, l’Europa e l’America  sostenevano la necessità di abbattere  il dittatore Bashar  Assad, come avevano già fatto con  Gheddafi in Libia, ma intanto appoggiavano il terrore islamista. Questo  libro serve a ridare voce ai cristiani, a raccontare il tradimento e il suicidio di un’Italia, un’Europa e un’Occidente che hanno voltato  le spalle ai propri fratelli e aiutato i propri nemici. Ma serve anche a far piazza pulita di tutte le falsità e le bugie sulla guerra in Siria propinate all’opinione pubblica  occidentale dal 2011. Perché sulla  guerra in Siria i media generalisti non hanno fatto informazione, ma esattamente l’opposto.  Ci hanno regalato quello che a parole sostengono di voler combattere.  Una grande, interminabile e spudorata ‘fake news’. Che io preferisco chiamare bufala. Leggete per credere”.

ONU Siria
Bambini siriani davanti all’entrata della loro tenda nel campo di Bab Al Salame, nel governatorato di Aleppo. Photo: UNICEF/Giovanni Diffidenti

Hai affermato che il più bel messaggio d’auguri ricevuto per Fratelli Traditi è l’audio lasciato sul tuo whatsapp dal vescovo di Aleppo, Monsignor Abu Khazen, che ti ha commosso e ha ricordato «come talvolta questo lavoro serva ancora a qualcosa». Testimonianze come le tue sono indubbiamente preziose per la collettività, ma lasciano anche tante ferite interiori, cicatrici di orrori visti e tragedie vissute dal vivo. Come elabori queste esperienze?

“Faccio brutti sogni la notte”.

Il tuo rapporto con la fede?

“Sono un credente, anche se non un cristiano modello, né uno che va a messa tutte le domeniche. Considero la  religione cristiana parte della nostra tradizione e della nostra identità.  Senza il Cristianesimo non esisterebbe la civiltà europea e probabilmente neppure i concetti di  democrazia  e libertà così come li intendiamo oggi in Italia ed Europa. Se rinunciamo a quel bagaglio, se dimentichiamo i legami con i nostri fratelli cristiani, allora non siamo più una civiltà, ma un mondo alla deriva. Un mondo  che rischia di farsi travolgere  dai propri nemici perché privo di valori per cui valga la pena lottare, combattere e, se necessario, morire”.

Gian Micalessin in Afghanistan

Nato a Trieste, una città che porta nel dna la mescolanza etnoculturale: cosa ti lega ancora a queste origini, dopo una vita in viaggio e la dimora milanese?

“La voglia di non starci. Sin da bambino Trieste, piegata tra l’Adriatico e quel confine della Jugoslavia dove iniziava la Cortina di Ferro, mi ha dato un senso di prigionia e costrizione. Mi sembrava sempre un angolo dimenticato dell’Italia. Ancora oggi non riesco a starci più di due o tre giorni. Ma forse quel senso di disagio e d’insofferenza è anche una delle caratteristiche di chi è nato in quella città”.

Andando a ritroso, sono innumerevoli gli episodi e persone che hanno scandito la tua avventurosa vita: puoi citarne uno per tutti?

“Nel settembre 2013 ero a Maaloula in Siria, un villaggio dove si parla ancora l’aramaico, la lingua di Cristo; realizzavo un servizio in diretta, mentre l’esercito si opponeva ai ribelli al qaidisti dall’altra parte della piazza. Sparatorie incessanti, si cercava di riconquistare terreno; avanzando, riuscimmo ad entrare nel convento di Santa Tecla, in cui si trovavano dodici suore e un gruppo di piccoli orfani. Ancora spari, non coperti dalle pur continue preghiere delle religiose. I soldati rimasti fuori caddero in un’imboscata e il convento poco dopo venne assediato dai ribelli. Nella notte fuggimmo, sfidando le pallottole dei cecchini, e miracolosamente ci salvammo. Le suore, invece, furono rapite e rimasero ostaggio degli al qaidisti per sei mesi”.

Rischiare la vita è più o meno una costante?

“Diciamo che è successo molte volte, fin dal primo servizio, nel 1983, quando mi trovai sotto un bombardamento con Almerigo e un ordigno esplose a una trentina di metri da noi”.

Foto più difficile?

“Foto non ne faccio praticamente più, faccio riprese; tra gli ‘incidenti di percorso’ ricordo un arresto nello Yemen, nel 1986, perché avevo cercato di fotografare un campo di ribelli: passai una settimana in una cella alta 1 metro e 30…”.

L’amico Grilz…

“Era sette anni più vecchio di me. Era il segretario del Fronte della Gioventù quando a 15 anni incominciai a frequentare quel mondo. Entrai al  Fronte della Gioventù dopo aver assistito al rituale delle assemblee organizzate dalla sinistra al liceo classico a cui mi ero iscritto: era il 1974 ed ogni assemblea iniziava con l’espulsione a calci dei due soli ‘fascisti’ del Fronte della Gioventù presenti nella scuola. Io sicuramente non ero fascista e nemmeno di destra, ma dopo aver assistito a quelle liturgie, lo diventai e mi iscrissi al Fronte. Me ne andai verso i 19, mentre Almerigo  continuò ancora qualche anno. Quando, nel 1983, ci rincontrammo, Almerigo era consigliere comunale del Msi, ma non era certo entusiasta. La grande passione politica che aveva alimentato le violenze, ma anche i grandi entusiasmi degli anni ’70, stava svanendo. E adesso – gli chiesi – cosa farai? Lui poteva scegliere una carriera nel Movimento Sociale Italiano. In fondo era uno dei  giovani più stimati da Giorgio Almirante. Con il tempo e le evoluzioni politiche allora imprevedibili, sarebbe diventato sicuramente ministro, come Fini, Gasparri e molti dei suoi coetanei. Ma luì confessò che temeva di annoiarsi, così nacque l’idea delle vacanze intelligenti e decidemmo di organizzare il primo viaggio in Afghanistan. Almerigo, che ci vedeva lungo, era già allora un sostenitore della multimedialità: scrivere e fotografare non bastava, bisognava anche filmare. Almerigo aveva il giornalismo nel sangue; in Afghanistan, dopo dieci ore di cammino, aveva ancora la forza di tirare fuori il taccuino per intervistare chi ci accompagnava e annotare minuziosamente tutti gli eventi della giornata. Ma aveva anche coraggio da vendere. Una volta l’ho visto fermare una ritirata dei guerriglieri cambogiani e convincerli a tornare sui propri passi per fermare l’avanzata del nemico durante un’offensiva vietnamita.   Molte delle cose che so fare le ho imparato lavorando assieme a lui. Fino a quando, il 19 maggio 1987, una pallottola non l’ha colpito mentre filmava una battaglia in Mozambico. Ad oggi resta ancora il mio amico e il mio maestro.  Per questo mio figlio, nato a trent’anni dalla sua morte, si chiama Almerigo”.

Micalessin in Sud Sudan

Confondere politica, ideologia e impegno umanitario è frequente, ne hai parlato anni fa, in occasione del caso delle due volontarie italiane, Greta e Vanessa: non bastano le buone intenzioni ed il coraggio, occorre anche una solida preparazione. Quali sono i tuoi suggerimenti riguardo a ciò che “non si può non sapere”, andando ad operare in scenari bellici ribollenti? 

“Essenzialmente, non confondere volontariato con fede politica: non basta l’afflato umanitario per essere accolte come salvatrici. Tenere come guida il buon senso. Vale per tutti”.

L’attualità: recentemente hai scritto a proposito di Kim Jong Un. Come andrà a finire?

“In questa situazione stiamo scontando gli errori del passato da parte di America e Cina, che hanno progressivamente dilazionato una risposta decisa al governo della Corea del Nord, lasciandogli la sensazione di poter tirar la corda e alzar la posta nella partita internazionale; Kim si sta comportando come ha imparato da padre e nonno. Il rischio è grosso, ma difficilmente si arriverà ad un intervento militare, che costerebbe vite; la miglior strada che vedo è il maggior coinvolgimento della Cina, super-potenza vicina, in trattative che allontanino spunti belligeranti e, comunque, portino ad una resa dei conti”.

Le guerre infestano il mondo, ma alla ribalta mediatica alcune non arrivano mai, quasi ci fossero tragedie di serie A e di serie B: perché questi scenari dimenticati?

“La sensibilità si è drasticamente ridotta, ormai reagiamo solo a ciò che ci tocca da vicino, senza tener presente che anche conflitti e violenze lontane hanno ricadute ben oltre la loro area geografica. In Africa abbiamo assistito immobili per anni alle attività di dittatori che divoravano risorse, così come al dilagare del  colonialismo cinese. Oggi ne subiamo le conseguenze, a partire dall’immigrazione che non riusciamo a fermare. L’indifferenza non paga nel lungo termine”.

Un risvolto (forse!) meno drammatico delle tue esperienze: quale è il cibo più bizzarro che ti sei trovato davanti?

“Mi sono nutrito di cavallette fritte in anni in cui non erano un cibo di moda, come pare stiano diventando oggi. Tra i più rivoltanti, il montone bollito degli afghani, con la sua patina di grasso che rimane attaccata al palato… In Somalia per 20 giorni ho mangiato chapati (sorta di pane) cucinato nella cassetta delle munizioni della mitragliatrice (e probabilmente fritto nell’olio di macchina!). Ancora in Somalia il cammello, in tutte le sue parti, compresa la testa, che là considerano una prelibatezza e che, prima di mangiare, lasciano sepolta nella terra finchè comincia ad imputridire”.

Ti rifai a tavola quando torni a casa?

“Sì, sono anche un bravo cuoco, mi piace mettermi ai fornelli”. 

Gian Micalessin nel 2011 ha vinto il “Premio Ilaria Alpi” per il miglior documentario, con un film prodotto da Mtv sulla rivolta dei giovani di Bengasi in Libia e nel 2012 il premio giornalistico Enzo Baldoni della Provincia di Milano. Ha pubblicato sei libri, l’ultimo dei quali, Fratelli traditi, è uscito per la Cairo editore a metà gennaio. Come nei precedenti, l’autore racconta ciò che è stato visto con gli occhi, toccato con mano, offrendo una cronaca asciutta e autentica, senza partigianerie, con lucido giudizio. Buona lettura.

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Alessandra Moro

Alessandra Moro

Di radici friulane, è nata a Verona sotto il segno dei Pesci; ha un fiero diploma di maturità classica ed una archeologica laurea in Lettere Moderne con indirizzo artistico, conseguita quando “triennale” poteva riferirsi solo al periodo in cui ci si trascinava fuori corso. Giornalista dell’ODG Veneto, lavora nel mondo della comunicazione come autrice e consulente, con esperienza nella stampa cartacea, radio, tv e web. La scrittura come passione, prima che come mestiere.

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