
Lo scorso dicembre ho avuto la fortuna di partecipare alla presentazione di Pre-Occupied Spaces. Remapping Italy’s Transnational Migrations and Colonial Legacies, l’ultima fatica critica di Teresa Fiore uscita per la Fordham Univeristy Press.
I lettori de La Voce di New York non sono nuovi al nome della studiosa — le sue interviste per la nostra testata ci hanno fatto conoscere, fra gli altri, Emma Dante attraverso Le sorelle Macaluso e lo scrittore pluri-premiato Amara Lakhous.
Professore Associato di Studi Italo-Americani e titolare della Cattedra Inserra in Italiano e Studi Italo-Americani sin dall’anno della sua istituzione nel 2011 presso la Montclair State University, Teresa Fiore è una figura preziosa nel panorama internazionale degli studi sul migrare, attivissima nella diffusione di una cultura italiana e italo-americana che supera le tre effe del Made-in-Italy d’ordinanza — Food, Fashion, Film — pur essendo al contempo perfettamente consapevole del loro valore, e servendosene anche — ci riferiamo alla effe di film — nell’approccio critico multiculturale che adotta nel suo insegnamento e nella sua critica.
Assegnataria di borse di studio da prestigiose istituzioni quali De Bosis, Rockefeller e Fulbright, un illustre passato d’insegnamento presso atenei del calibro di Harvard, NYU e Rutgers, esperta di cinema e di teatro, Fiore è una penna prolifica che ha prodotto ed edito scritti sulla migrazione da e verso l’Italia nella letteratura del Ventesimo e del Ventunesimo Secolo, e rappresenta un punto di riferimento per la promozione del sapere e del sentire italiano sia nello Stato di New York, che nella comunità accademica impegnata nel postcoloniale a livello internazionale.

Teatro della presentazione del volume, l’aula magna della Feliciano School of Business della Montclair State University, alla presenza di personalità di spicco sia nell’ambito editoriale che universitario all’interno della Montclair State University, tra cui Robert S. Friedman, Dean della facoltà di Studi Umanistici e Scienze Sociali, Frederic Nachbaur, Direttore Editoriale della Fordham University Press, Nancy Carnevale, Professore Associato presso il Dipartimento di Storia, Stephen Ruszczyk, Assistente Professore presso il Dipartimento di Sociologia e Tony Spanakos, Professore e Chair del Dipartimento di Scienze Politiche e Giuridiche.
La fortuna che ho avuto nel partecipare a questo evento si deve a vari fattori, primo fra tutti, quello di aver trovato un’aula gremita di studenti, professori e interessati, pronti a dedicare la serata alla presentazione di un libro in un giorno complesso come l’11 dicembre scorso, il cui mattino è stato oscurato dall’attentato terroristico al terminal di Port Authority, a pochi isolati da Times Square. Un’aula magna gremita in un giorno simile è un atto di fiducia, di resistenza. E di amore verso ciò in cui si crede.
Altro fattore? Quello di aver letto l’opera oggetto della presentazione.

I testi di natura accademica corrono sempre il rischio di rimanere seclusi lì, nella torre d’avorio di certa accademia, e di non vedere molta luce all’infuori delle aule e delle biblioteche universitarie. Sarebbe un gran peccato che questo accadesse a Pre-Occupied Spaces.
Questo articolo, pertanto, vorrebbe avere l’effetto di una duplice spinta propulsiva, avvicinando il libro ai lettori e i lettori al libro.
Il volume è suddiviso in tre “Apertures” — Aperture. Fiore deriva scientemente il termine dal vocabolario fotografico, riferendosi al sistema utilizzato dalla macchina fotografica per regolare la quantità di luce che impressiona il sensore e, di conseguenza, generare l’immagine scattata. Fiore si serve di questo dispositivo per trarne un suggestivo correlativo oggettivo strutturale su cui poggiare la propria opera: ogni Apertura di Pre-Occupied Spaces impiega un testo, o più testi, capaci di catturare il tema in questione, delinearne la natura analitica, e aprire a riflessioni debitamente esposte nei singoli paragrafi del capitolo. Pre-Occupied Spaces si presenta quindi al lettore come una collezione d’istantanee pronte per essere sfogliate, all’interno di una stanza coperta di specchi: ciò a cui punta l’autrice non è la semplice scorsa del libro — del mazzo d’istantanee — ma l’attivazione di un sistema di rifrazioni che ponga il lettore al centro, lo illumini con le sue posizioni e lo spinga a riflettere su di esse. Non a subirle passivamente, quindi, ma ad agire un pensiero critico, dopo aver considerato la prima immagine e l’illustrazione del percorso che ha portato a quell’immagine.
Ciò che cogliamo sin dall’introduzione è il desiderio dell’autrice di arrivare al suo lettore. Di non perderlo mai per strada. E questo non succede mai — così come non è mai successo durante la presentazione, dove Fiore ha tenuto avvinta la platea per più di un’ora e mezza — grazie all’estrema lucidità che caratterizza la sua ratio teorica, e grazie anche all’attenzione che riserva al suo lettore. Fiore non dà nulla per scontato. Non lesina su riassunti e trame, non manca di spiegare un contesto storico oppure un riferimento letterario o critico-letterario. Questo fa del testo uno straordinario serbatoio d’informazioni esaustive — non buttate lì e lasciate cadere nel vuoto — che va da nomi come Homi Bhabha, Gayatri Spivak, Gilda Mignonette o Kossi Komla-Ebri, alla citazione di graffiti che finiscono per essere versi dell’umano urbano contemporaneo — “Immigrati per favore non lasciateci soli con gli italiani”. (p. 75) Molto spesso gli studiosi lasciano il lettore a raccapezzarsi tra ragionamenti, citazioni e deduzioni i cui passaggi logici, sovente saltati, erigono attorno a lui un labirinto dentro il quale è facile si perda — e capita anche al lettore “informato dei fatti”, ovvero, del mestiere. Fiore, di contro, ci prende per mano: e questo è un atto di generosità metodologica tanto quanto di accortezza speculativa: maggiore il coinvolgimento del lettore, maggiore la possibilità che la mente del lettore rimanga dentro il testo anche quando il suo corpo è lontano da esso.

Il volume investiga non lo spazio, ma gli spazi dell’esperienza im-migratoria, prendendo come chiave di volta teorica l’affascinante omonimia del termine “preoccupati”.
Se aggiungiamo un trattino tra “pre” e “occupati”, agiamo sulla temporalità, suggerisce Fiore. E ci riferiamo ai luoghi pre-occupati storicamente dall’im-migrazione, con tutte le conseguenze del caso. Ma se a “pre-occupati” togliamo il trattino, rimaniamo con un participio passato carico di ansia, di angoscia. Gli spazi preoccupati sono quelli che hanno a che fare quotidianamente con il fenomeno dell’immigrazione e dell’emigrazione. Fiore impara la lezione di Foucault — “l’ansia della nostra epoca è da collegarsi fondamentalmente con lo spazio, di sicuro molto più che con il tempo” (p. 13) — e la interiorizza, arrivando a considerare lo spazio come il “paradigma cardine atto a investigare i legami tra forme di migrazione vecchie nuove”. (p. 13)
E gli spazi pre-occupati/preoccupati che l’autrice esplora — in un viaggio che metaforicamente copre la geografia umano-sociale con cui l’individuo si rapporta sin da quando società fu fondata sul lavoro, e ben prima che una Costituzione lo mettesse nero su bianco — sono le tre basi su cui il libro si fonda: “Oceani/mari”, “Case”, “Luoghi di lavoro”. Lo scopo è quello di provare, attraverso questi loci naturali e sociali, che l’Italia è un laboratorio unico — un’officina-fucina, ci piace dire — di questioni migratorie e di potenziale inventivo, creativo, co-abitativo e immaginifico in cui si concreta un fruttuoso interscambio d’idee, “un potenziale di potere trasformativo”. (p. 12)
Per quanto giovanissima d’età — in rapporto ai risultati raggiunti e all’esperienza accumulata — Fiore non è nata ieri. Sa benissimo che le parole non bastano, e che un’analisi di questo tipo, per essere credibile, ha bisogno di numeri. “Questo libro è soprattutto uno spazio per l’analisi di storie”, così attacca nell’introduzione, da brava amante della fabula, ma infila immediatamente la veste della sociologa, dedicando un paragrafo alla geo-statistica delle migrazioni e del colonialismo italiani, che forniscono alle tante narrazioni evocate il terreno concreto su cui sono sbocciate.
Nella prima Apertura, Fiore si concentra su “Acque: viaggi migratori e imbarcazioni da e verso l’Italia”.

La sezione conquista chiunque sia sensibile al tema della liquidità nell’immaginario letterario collegato alla diaspora e all’essere migrante. L’autrice si sofferma su L’Orda. Quando gli albanesi eravamo noi, di Gian Antonio Stella, un affresco che racconta, attraverso aneddoti, memorie e documenti, le orde dei migranti italiani verso il Nuovo Mondo che non sono mai state dette o cantate prima: le orde dei vinti, degli sconfitti, le cui storie sono state scalzate dalla narrativa dello zio d’America, il mito dell’immigrato povero che, dopo aver lasciato il paese d’origine, si arricchisce e conquista il paese d’arrivo — un vuoto della memoria collettiva che l’opera di Stella cerca di colmare.
Fiore, abbiamo detto, è anche un’esperta di cinema, e sa quanto la settima arte abbia cominciato a registrare le problematiche iscritte nel destino dell’essere in migrazione, specie negli ultimi decenni. Si concentra quindi su Nuovomondo, la favola non-favola velata di realismo magico che valse al regista Emanuele Crialese il “Leone d’Argento – Rivelazione” alla Mostra del Cinema di Venezia del 2006, e tanto successo di pubblico e critica in Italia e all’estero. Un film, questo, che ruota — o meglio naviga — attorno al mezzo metonimico della nave, che rappresenta “contemporaneamente uno spazio di paura, scoperta e negoziazione culturale… La quintessenza di uno spazio preoccupato dove questioni ipo- e iper-nazionali s’intersecano” (p. 42) e che, “in qualità di zona di contatto, è principalmente uno spazio in cui identità e affiliazioni vengono rimodellate e forgiate in maniera nuova”. (p. 44)
Il cinema è presente anche con Vincenzo Marra e il suo Tornando a casa del 2001 e questo perché il mare, lì, “è un palinsesto di storie di ri-locazioni di persone” (p. 16), come commenta sapientemente l’autrice, legandolo a doppio filo, al memoir La pelle che ci separa, in cui l’autrice birazziale Kym Ragusa mette a confronto la propria metà afro-americana con la propria metà siciliano-americana, cercando di spiegare cosa significhi appartenere a due comunità in continuo conflitto in un’America irrimediabilmente piagata dal razzismo.
Nella parte dedicata alle “Case”, Fiore intesse un filo immaginario — mai così robusto — tra “i quartieri multietnici” e le loro declinazioni spaziali — piazza, conventillo, palazzo — protagoniste di narrazioni interstiziali quali il docu-musical L’orchestra di Piazza Vittorio di Agostino Ferrente, il romanzo Dio non ama i bambini di Laura Pariani e quello di Amara Lakhous Scontro di civiltà per un ascensore a Piazza Vittorio. Fiore non si scorda di aggiungere alla sua trama esegetica altri luoghi come il pastificio di Moshen Mellitti in Pantanella: canto lungo la strada e la pensione a Little Italy, New York City, di Vita, il bestseller di Melania Mazzucco. Entrambi i luoghi, nota l’autrice, “alludono alla sfera della creazione artistica, nello specifico, alla scrittura, come reazione politica alle condizioni domiciliari più misere”. (p. 105)

Nella terza e ultima sezione del volume, l’obbiettivo si sposta sull’interpretazione che nel termine “occupazione” legge “luoghi di lavoro”, essendo il luogo di lavoro uno spazio di pre-occupazione/preoccupazione per antonomasia quando si parla di immigrati/emigrati — la prima ragione per cui si decide di lasciare un paese per raggiungerne uno nuovo è, da sempre, la ricerca di un impiego; l’espressione “posto di lavoro” non fa che comprovare morfologicamente tale destino. In questa sezione Fiore avvicina due delle Favole al telefono di Gianni Rodari a Questa non è una baby-sitter di Gabriella Kuruvilla, due testi apparentemente lontanissimi per epoca storica — anni ’60 e primi anni 2000 — e genitorialità autoriale — “italianissimo” Rodari e italiana di padre indiano Kuruvilla — ma effettivamente molto affini riguardo alla riflessione che entrambi incoraggiano sull’invisibilità/iper-visibilità del migrante in rapporto al luogo di lavoro.
Il capitolo conclusivo del testo ribadisce la tesi sostenuta della studiosa: la sua fiducia in un’Italia come “laboratorio d’‘immagi-nazione’”, ossia un luogo non geografico in cui si possono sperimentare nuove mappature, nuove forme di pensiero politico, “una nazione capace di restare legata attivamente alla diaspora italiana fuori dai confini territoriali nazionali e di coinvolgere gli immigrati che vivono in Italia in una comprensione più armoniosa delle implicazioni coloniali e postcoloniali riguardanti la loro presenza in Italia”. (p. 185)
Pre-Occupied Spaces abbraccia molto più di quello che un articolo su Pre-Occupied Spaces può abbracciare. Dall’esperienza delle balie italiane emigrate ad Alessandria d’Egitto negli anni ’20, al recente, ancorché annoso, dibattito Ius solis contro Ius sanguinis nella giurisdizione italiana, dalle rappresentazioni del colonialismo italiano in Etiopia alla ricchissima sezione sull’esperienza degli operai edili italiani che emigravano sin dai primi nel ‘900.
E ricchissimo è proprio il termine da sfoderare e porre accanto a questo gioiello d’opera che è costato alla sua autrice più di sei anni di lavoro: uno sforzo sotto gli occhi di tutti, che a tutti consegna una bussola con cui orientarsi fra le tante cartografie che il pensiero critico post-coloniale ha tracciato e proposto nel corso degli anni. A Teresa Fiore il merito di aver intravisto il proprio nord in mezzo a tanti percorsi possibili, di averlo desiderato, raggiunto e indicato a chi cerca la via in quest’epoca di cammini interrotti, rotte perdute e strade mancate.
Si è scelto di scrivere questo articolo in italiano, offrendo una traduzione di servizio per le citazioni tratte dal testo, nella speranza che il libro possa vivere, presto, una seconda nascita attraverso la pubblicazione in italiano, e consentirne il viaggio attraverso la lingua d’origine, verso la terra d’origine, di Teresa.