
Recentemente Passigli Editori di Firenze ha pubblicato un romanzo che riconferma l’interesse dell’editoria italiana nell’esperienza dell’emigrazione italiana di fine Ottocento e inizio Novecento quando milioni di italiani lasciarono soprattutto le nostre terre e i piccoli paesi in cerca di fortuna nelle Americhe. Ho scritto più volte che l’Italia, soprattutto l’élite italiana, in diversi modi, negli ultimi vent’anni ha cercato di guarire una piaga che è durata per diversi decenni. Conferenze, pubblicazioni, atti legislativi (come la doppia cittadinanza, il diritto di voto e di rappresentanza all’interno del Parlamento italiano), il riconoscimento degli italiani distintisi all’estero: tutte azioni importanti volte a riconoscere i nostri sacrifici di emigranti e a lenire le nostre ferite.
Il silenzio dell’Italia sui sacrifici dei nostri emigranti è stato un peso che molti di noi abbiamo portato nelle nostre coscienze con qualche risentimento. Negli anni Cinquanta, quando ero studente in Italia, non ho mai trovato una pagina nei libri di testo che ricordasse il sacrificio degli emigranti. Non una pagina, non un capitolo, non una lezione è stata mai dedicata all’emigrazione, come se non esistesse, come se l’Italia si vergognasse di quegli italiani che avevano lasciato la patria in cerca di benessere. Molti partivano con l’accordo Uomo-Carbone firmato da De Gasperi col Belgio (il 20 giugno 1946 che prevedeva l’invio di 50.000 unità lavorative in cambio di carbone; la manodopera non doveva avere più di 35 anni e gli invii riguardavano 2.000 persone alla volta per settimana) col fine di mandare carbone in Italia per creare l’energia necessaria per la nostra ripresa industriale e darci il “Miracolo economico”! Eppure, io e i miei compagni di classe non sapevamo niente di tutto questo mentre venivamo toccati profondamente dall’esodo; molti di noi avevamo parenti in ogni parte del mondo e non conoscevamo il loro destino. I miei nonni materni, gli zii e le zie con i quali corrispondevo, erano in America (e alla fine li raggiunsi anch’io) ma i loro sacrifici e tribolazioni non venivano ricordati in nessuno dei nostri libri di testo o nelle nostre lezioni. Ricordo quando ero piccolo, a volte, dovevo alzarmi molto presto per dire addio ai compaesani e a qualche compagno di scuola in partenza per terre lontane. In quegli anni molti lasciavano le nostre terre per cercare fortuna in Australia. Ricordo il dolore della separazione, che poi portavamo sepolto nel nostro animo. Ricordo ancora come noi, ragazzi, parlavamo della partenza dei nostri amici chiedendoci se li avremmo mai rivisti. Tuttavia, ripeto, in classe, non ci fu mai chiesto di commentare la perdita dei nostri cari.
Il volume di Luigi Fontanella ci riporta a quell’esperienza e ce la fa rivivere. Il titolo, Il dio di New York, potrebbe creare completamente altre curiosità, specialmente per chi vede il volume in un’edicola all’aeroporto in partenza per New York. Ci si chiede chi è questo dio di New York? Rudy Giuliani? Michael Bloomberg? Donald Trump? Wall Street? Ma Fontanella ci riserva una sorpresa che non delude.

Da scrittore e studioso quale lui è, e molto conosciuto, ci dà un romanzo-saggio per farci rivivere l’esperienza degli emigranti dell’inizio del Novecento. L’impostazione romanzesca viene dal romanzo storico, ma Fontanella non finge come Manzoni o Verga o altri di aver scoperto un manoscritto la cui storia vuole riprendere. Il suo romanzo viene cucito su una famosa autobiografia, Son of Italy, di un emigrante italiano, quasi analfabeta, che diventa poeta americano. La rivitalizzazione dell’autobiografia di un emigrante morto precocemente poeta è un atto d’amore sia per la vita di Pascal, emblematica della vita degli emigranti italiani, sia per la poesia che nasce da un animo puro che acquista voce attraverso parole semplici ma “vergini”.
Pascal D’Angelo, sedicenne, nel 1910 lascia l’Italia con suo padre e alcuni paesani, come stavano facendo centinaia di migliaia di altri italiani ogni anno, vittima della miseria, la forza inesorabile di espulsione per chi voleva tentare di vincere un destino ineluttabile. Anche lui attratto dalla “rivoluzione silenziosa” delle forze di attrazione create dal mito americano. La sua biografia ricalcata e animata da Fontanella con personaggi veri e inventati fa rivederci e sentire le vicissitudini degli emigranti dal momento della loro partenza all’arrivo, e durante le fasi di ancoraggio per realizzare il sogno americano. Assistiamo al doloroso processo di sradicamento, al processo non meno penoso di trapianto e inserimento nel nuovo mondo.
Ci sono pagine straordinarie che presentano in modo vivo e pungente la vita di stenti e feroci difficoltà, infinite tribolazioni e penose miserie, angherie e mortificazioni. Il dramma del singolo si fonde con il dramma collettivo in una comunità di uomini, paesani, alle prese con condizioni di lavoro duro e spesso pericoloso. Sono pick and showel men che, mentre costruiscono autostrade e ferrovie, e scavano carbone per costruire l’America, devono fronteggiare continue mortificazioni, truffe, sfruttamenti e tradimenti. È un’America che ancora non ha safety o altre protezioni per chi ha un infortunio o viene truffato dal datore di lavoro. Questi uomini sanno che devono dipendere da se stessi, sanno che sono entrati in un nuovo modo di vita dove si deve credere nelle proprie abilità per realizzarsi. Sono uomini che sanno che possono realizzarsi solo attraverso il lavoro, ma il lavoro non è sempre lì ad aspettarli. Infatti, e queste sono forse alcune delle pagine più toccanti, vediamo Pascal D’Angelo e i suoi in una Via Crucis per la continua ricerca di lavoro, a volte quasi elemosinandolo. Il lavoro, crogiuolo di sudori e lacrime che auto-definisce il sogno americano di questi emigranti, è la forza motrice dell’autobiografia di Pascal D’Angelo e del Dio di New York di Fontanella romanziere.
Ma spesso nella storia si fa sentire il Fontanella studioso dell’emigrazione che commenta e il professore che spiega per arricchire e dare una “cornice” alla vicenda narrata. È un supporto, questo, che arricchisce di informazioni la vita degli emigranti in un mondo fatto non solo di lavoro duro, ma anche di regolamenti truffaldini e manipolazioni da parte di chi aveva il potere da rendere la realizzazione del sogno americano, la possibilità di piccola ascesa sociale con l’acquisto di casa e un pezzo di terra al paese che l’emigrante aveva lasciato.
Tutto questo è rappresentazione emblematica dell’emigrante in generale che si può trovare nelle altre autobiografie del genere. Che cosa, quindi, ha di particolare l’autobiografia di Pascal D’angelo, che Fontanella nel suo Dio di New York fa emergere? È il sogno di un emigrante, Pascal D’Angelo, di diventare un poeta americano. Il sogno di Pascal è quello di trovare le porte per entrare nel mondo della poesia. Ma prima deve scoprire una lingua nuova, l’inglese, e conquistarla. È questa la eccezionalità del sogno di questo emigrante manovale italiano e la eccezionalità della storia della sua autobiografia che Fontanella fa rivivere. Pascal D’Angelo con il suo burning desire, con la sua volontà ferrea di diventare poeta, da quasi analfabeta che era, ci offre qualcosa di eroico e di sublime.
Come si può immaginare, la realizzazione del suo sogno attraverso la poesia non è meno doloroso di quello dei suoi compaesani attraverso il lavoro. Anche i suoi ostacoli sono enormi, ma non si lascia mai sopraffare dallo sconforto e dalla disperazione. Non si arrende davanti alla povertà, e non si arrende quando le sue poesie vengono rifiutate dagli editori.
Il romanzo-saggio inizia con la visita di Fontanella a Introdacqua, il paesino natio di Pascal D’Angelo, ma anche di Giorgio Vanno, un compagno di emigrazione di Pascal D’Angelo ma anche, ci vuol far credere Fontanella, suo nonno. E quindi il viaggio nella storia/vita di Pascal D’Angelo iniziando dal paese natio che è anche paese natio del nonno dell’autore diventa un pellegrinaggio per una riscoperta di se stesso. È un viaggio da sognatori in cerca di grandi sognatori, di come si nasce poeta, di come s’inizia a creare poesia, anche in maniera primitiva, barbara, nel senso vichiano, o come quando si è preso da “astratti furori” nel senso vittoriniano. E Fontanella-poeta segue, anche con un po’ di fremito, il poeta nascente nella conquista della poesia con l’applicazione, la volontà, il sacrificio, la determinazione e la sofferenza. E la conquista avviene usando parole vergini, nuove, non corrose dal tempo o dall’uso comune e quotidiano. Uso di parole che Pascal ha conquistato per dare sfogo al suo animo che capta con innocenza ciò che la sua sensibilità recepisce. Non possiamo non ricordare la vicinanza del “poeta postino” nel Postino di Michael Radford e Massimo Troisi (1994) quando parla di poesia e cerca per la prima volta di scrivere poesie per esprimere un amore sublime per la sua ragazza.
Chi è quindi “Il dio di New York”? È qualcosa ben più grande e significativo di un Giuliani, Bloomberg, De Blasio, Trump e Wall Street. Il dio di New York è il senso di eroismo e sacrificio con cui milioni di emigranti hanno creato una delle città più spettacolari e vibranti del mondo. L’anima di quell’eroismo ha trovato voce nella parola sublime della poesia di Pascal D’Angelo. Il dio di New York è un romanzo che fa vivere la grande emigrazione italiana e fa riflettere sull’eroismo che ha creato la Grande Mela.