Ariosto è uno tra gli autori della letteratura italiana per i quali il dialogo fra tradizioni accademiche diverse è stato più fruttuoso. Vari lavori pubblicati negli Stati Uniti o in Germania hanno avuto una buona circolazione anche in Italia, contribuendo a rinnovare il modo in cui studiosi e studenti si sono avvicinati a un classico come l’Orlando furioso. Molti tra i migliori specialisti del poema, italiani e non italiani, continuano a lavorare in università europee e americane, dove tengono vivo un interesse per l’opera che promette ora di essere rilanciato una volta di più dal cinquecentenario della prima edizione (1516), peraltro tornata disponibile pochi anni fa grazie all’edizione critica curata da Marco Dorigatti (un filologo italiano che per l’appunto insegna a Oxford).
Nella memoria della critica ariostesca è ben presente il ricordo di un convegno tenutosi negli anni settanta alla Columbia University che riunì a New York numerosi ricercatori impegnati a ridisegnare un’immagine del Furioso su cui era ancora visibile l’impronta crociana. E pochi giorni fa a Boston alcune sessioni del congresso annuale della Renaissance Society of America hanno discusso le direzioni di ricerca più importanti emerse negli ultimi anni negli studi ariosteschi: su tutte, l’indagine sullo spazio e in particolare sulle conoscenze e sull’uso della cartografia da parte di Ariosto e quella sul rapporto tra il testo e il suo contesto storico.
In un bilancio critico scritto qualche anno fa, Alberto Casadei premetteva alla discussione di due lavori allora appena usciti, la già ricordata edizione del primo Furioso di Dorigatti e il profilo ariostesco di Giuseppe Sangirardi, l’idea che, dopo anni di grande fervore, mancassero da tempo “contributi in grado di aprire nuove vie ermeneutiche” sull’opera di Ariosto. Si può dire che libro di Rivoletti, Ariosto e l’ironia della finzione (2014), si inserisca proprio in questo orizzonte d’attesa. Riprendendo un concetto decisivo per l’interpretazione del Furioso, quello di “ironia”, Rivoletti ne definisce prima il funzionamento attraverso un’aggiornata messa a fuoco teorica, e poi ne ripercorre larga parte della storia della ricezione europea. E così, da un lato emerge come l’ironia del Furioso consista specificamente in una “ironia della finzione” che gioca con consapevolezza tra il piano della letteratura e quello della realtà sempre invitando il lettore a intrecciarli; dall’altro, invece, si risale alla scoperta critica del particolare tipo di “ironia” che contraddistingue il Furioso, una scoperta che Rivoletti colloca a monte dell’Estetica di Hegel a cui viene di solito ricondotta. La lettura hegeliana, così decisiva per le interpretazioni successive, viene quindi presentata in una nuova luce, come una sorta di sintesi (peraltro parziale) di motivi già suggeriti dalla ricezione romantica, e soprattutto dall’autentica “riscoperta” dell’ironia della finzione compiuta da Friedrich Schlegel. Prima di Schlegel, infatti, quell’ironia che oggi continua ad apparire imprescindibile per comprendere l’opera di Ariosto era rimasta nascosta al di sotto di questioni interpretative sollevate dalla necessità di reagire a un testo subito percepito come radicalmente innovativo, in particolare nel quadro della Controriforma di pochi anni successiva alla pubblicazione del Furioso. Ne risulta un capitolo tra i più rilevanti di quella “storia europea della letteratura italiana”, per citare un recente manuale di Alberto Asor Rosa, che da qualche anno vari studiosi sono impegnati a riscrivere.
Al di là del convegno di Boston, Christian Rivoletti sta tenendo alcune conferenze presso università dell’East Coast (è già stato a Johns Hopkins e il 6 aprile sarà a Columbia): un’occasione in più per continuare lo scambio intellettuale che il Furioso sembra essere sempre stato capace di ispirare.
Corrado Confalonieri è dottorando in Italian Studies a Harvard. Studia principalmente l’epica di Ariosto e Tasso, le poetiche cinquecentesche e la poesia del secondo Novecento.