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August 9, 2015
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August 9, 2015
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Tutto potrebbe andare molto peggio, parola di Richard Ford

Marco PontonibyMarco Pontoni
Time: 4 mins read

Scrivere un romanzo in prima persona ha i suoi vantaggi e i suoi rischi. Il vantaggio è che se il lettore si affeziona all'io narrante – magari fino ad identificarsi con esso – il gioco è fatto e la lettura diventerà uno splendido viaggio in soggettiva. Il rischio è che l'adozione di un unico punto di vista risulti alla fine un po' limitante. Richard Ford (Jackson, Missisipi, 1944) il rischio lo corre per la quarta volta con questo nuovo Tutto potrebbe andare molto peggio (titolo originale Let me be Frank with you, ovvero "lasciatemi essere Frank con voi" ma anche "lasciate che sia sincero"), in cui ritorna il suo personaggio più fortunato, Frank Bascombe, comparso quasi trent'anni fa in Sportswriter, e poi nei successivi Il giorno dell'Indipendenza e Lo stato delle cose. E vince.

Ancora una volta Ford punta sul sentire del protagonista, sull'aderenza al suo punto di vista. I risultati sono migliori rispetto al primo volume della quadrilogia, troppo diluito, e confermano l'eccellente livello dei libri successivi.

Qui Bascombe, già giornalista sportivo, già agente immobiliare, sta per toccare la settantina. Il romanzo ha quindi per tema la vecchiaia e la morte, e i bilanci che in genere ad esse si accompagnano, così come i ritorni, in questo caso nella cittadina di Haddam. L'ombra della fine è sempre presente, anche se il protagonista la esorcizza con una scansione dei tempi di vita che – se non è proprio rigida – almeno serve ad ammazzare la noia, compreso un po' di volontariato: l'accoglienza dei reduci che ritornano dall'Iraq o dall'Afghanistan, la lettura di un romanzo (di Naipaul) in una trasmissione radiofonica rivolta ai ciechi. Ma Bascombe è uomo sufficientemente colto, scettico, pigro, e dotato di un caustico sense of humor da non buttarsi anima e corpo in alcuna causa: sia essa il Feng Shui, come fa la sua prima moglie, sia essa l'assistenza psicologica alle vittime dell'uragano Sandy, come fa la seconda. Il suo esistenzialismo, che avevamo imparato a conoscere quando scriveva di sport, è sempre lì, semmai irrobustito dall'egoismo tipico dell'età avanzata, che ti spinge a cercare di evitare le incombenze più dolorose o semplicemente più imbarazzanti.

t1Ci sono cose che ritornano, nei romanzi di Ford. Ad esempio, grandi fenomeni naturali/atmosferici, che si trascinano dietro tutta la potenza simbolica di cui è carico il Naturalismo Selvaggio americano, da Melville in poi. In uno dei suoi primi romanzi, Incendi, era una montagna che bruciava. Qui è l'uragano, che ha seminato distruzione e morte sulla costa Ovest degli Stati Uniti.

Poi ci sono i luoghi. Per la precisione ci sono edifici, case. Nel primo dei quattro racconti in cui si articola il libro, quella sulla costa del New Jersey dove Bascombe aveva vissuto, e che poi aveva venduto ad un acquirente comparso all'improvviso alla sua porta. La casa è stata devastata da Sandy, e adesso a quell'acquirente non resta che contemplarne le macerie, assieme a un riluttante e infreddolito Bascombe, che ha chiamato al suo fianco. Nel secondo è la casa di Bascombe stesso, dove ora vive con la seconda moglie, Sally, una casa che cela un orribile segreto di cui è depositaria un'anziana donna di colore. Nel terzo è una casa di cura di lusso dove si è ritirata a vivere la prima moglie, Ann, malata di Parkinson. Nel quarto è un'ex dimora di lusso ormai parzialmente in rovina, dove un Bascombe sempre riluttante si reca in visita ad un amico che sta morendo, dopo una vita di bagordi e dissipazione.

Il tutto si svolge a dicembre, per concludersi sulla soglia del Natale, che il protagonista passerà a casa di uno dei figli, impegnato in un'improbabile iniziativa imprenditoriale. Anche questa è una costante della quadrilogia di Bascombe, ambientata nelle quattro stagioni dell'anno e in corrispondenza delle festività più importanti (mancavano, guarda caso, l'inverno e il Natale, il che fa presumere che non avremo un quinto volume).

t2Abbiamo parlato prima di narrazione in soggettiva. In realtà, non si pensi ad un romanzo improntato ad un intimismo esasperato. Ford, attraverso il suo alter-ego, racconta i suoi tempi, l'ascesa di Obama e la stolida incapacità dell'elettorato repubblicano del Jersey di riconoscere il fallimento rappresentato da George W. Bush, ad esempio. Racconta la crisi della bolla immobiliare, l'impoverimento della classe media, i primi segnali del degrado di un quartiere nell'apertura di un centro massaggi vietnamita. Racconta persino dei rapporti interrazziali, del sentimento dell'americano bianco e blandamente progressista nei confronti dei neri. Ma lo fa attraverso storie "minime", continuamente filtrate dalla mente del narratore, non forse così complessa ma certamente interessante.

"Quasi tutte le conversazioni fra me e gli afroamericani prendono subito questa piega, un chiacchiericcio falso e razzialmente neutrale su come rendere il mondo un posto migliore: cosa che crediamo di stare facendo semplicemente con l'essere vivi". Questo è l'universo di Bascombe: scettico, sardonico. Sincero con se stesso. "Una ferita che non senti non è una ferita. Il tempo aggiusta le cose, quasi sempre".

È un universo molto americano, anche. Infarcito di riferimenti a fatti o riviste o eventi sportivi che il lettore italiano a volte ignora. Ma – ed è come sempre la magia della narrativa USA – sentiamo queste pagine come nostre più di quelle dei vincitori del premio Strega.

Alla fine la visione di Bascombe è quella consapevole, realista, anche se non pacificata, dell'everyman, l'essere umano "qualunque", lontano da ogni tentazione superomista, ma anche da ogni facile consolazione. La visione di chi non cerca l'Assoluto, la Verità o la Cosa in sé, ma accetta la battaglia – modesta ed eroica insieme – che si deve combattere ogni giorno per continuare a vivere. Anche in amore. Che non è, appunto, una "cosa" (un'idealizzazione), ma "una serie infinita di singoli atti".


Richard Ford, Tutto potrebbe andare molto peggio, traduzione di Vincenzo Mantovani, Feltrinelli, 2015.

Richard Ford, Let me be Frank with you, Harper, 2014.

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Marco Pontoni

Marco Pontoni

Sono nato in Sudtirolo 50 anni fa, terra di confine, un po' italiana e un po' tedesca. Faccio il giornalista e ho sempre avuto un feeling per la narrazione. Ho realizzato video e reportages sulla cooperazione allo sviluppo in varie parti del mondo. Finalista al Premio Calvino, ho pubblicato il romanzo Music Box e, con lo pesudonimo di Henry J. Ginsberg, la raccolta di racconti Vengo via con te, tradotta negli USA dalla Lighthouse di NYC con il titolo Run Away With Me. Ho da sempre una sconfinata passione per gli autori americani, Lou Reed, l'Africa, la fotografia, i viaggi e camminare.

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