L'incipit di Class. Vite infelici di romani mantenuti a New York, di Francesco Pacifico, è di quelli felici, e in parte compensa un titolo che invece è piuttosto brutto, con la sua ansia di spiegare tutto e subito: la realizzazione personale di un borghese non vale il denaro che costa.
E di borghesi o forse post-borghesi (della borghesia hanno i soldi e le aspirazioni ma non la solida visione del mondo, la certezza di essere sempre e comunque nel giusto) parla questo libro, ambientato in massima parte a New York. Protagonisti alcuni personaggi nel mezzo del cammin di loro vita, ma che oggi come oggi definiremmo "giovani", o forse meglio "ancora giovani", ovvero trenta-quarantenni che sembrano ereditare in qualche modo le aspirazioni frustrate dei loro fratelli maggiori ritratti ne La grande bellezza di Sorrentino (come osservato da Marco Drago su Il Giornale). L'aggettivo che li definisce meglio è forse "velleitari": vogliono fare qualcosa in qualche ambito creativo – cinema, musica, anche commercio – ma non ne hanno le capacità e forse nemmeno la costanza.
A mettere in moto la macchina narrativa sono Lorenzo e Ludovica, che hanno lasciato Roma per la Grande Mela soprattutto per assecondare le ambizioni cinematografare di lui, e che lei mette ben presto in discussione, quando un dubbio le si insinua come un tarlo: e se Lorenzo non avesse talento? La voce che li descrive oscilla fra moralismo e scherno: "Prima sei voluta andare a vivere da sola, Ludovica, e i tuoi hanno liberato una casa che subaffittavano a un amico per darla a te, studentessa universitaria (…), per te hanno cacciato l'amico in subaffitto, separato da dieci anni e padre di tre femmine", e via dicendo. E questa Ludovica cosa fa? Decide di andare a vivere in un villino al Mandrione, di nuovo messole a disposizione dai genitori, assieme a un tal Lorenzo "alto, sano, spalle su cui vanno a pennello le polo, occhiali da sole a goccia, dottorando in filosofia che si presenta dicendo sono un filmaker e non ha il rigore necessario alla filosofia della scienza né un progetto accademico limpido, ma dispone di una coppia di zii professori alla Sapienza". Dopodiché, pensa bene di lasciare anche la libreria-caffeteria che ha aperto – altro sogno velleitario, quello delle librerie – per seguire a New York Lorenzo, che ha rimediato una borsa di cinema alla Columbia.
Giornalisti, scout letterari o registi, erotomani o cattolici irreprensibili, single o sposati, i protagonisti del romanzo sono tutti così. E una volta approdati a Williamsburg (senza affittare a nessuno i loro villini romani, ovviamente, perché possono permettersi di lasciarli vuoti), restano sempre dei borghesi irrisolti e un po' infantili, prigionieri inconsapevoli delle convenzioni anche culturali della loro classe (ma poi soprattutto della loro generazione, ché al dato generazionale non si può sfuggire, mai).
Siamo, insomma, sul terreno della satira sociale, che agli italiani, secondo me, è sempre riuscita bene, in letteratura come al cinema. Indipendentemente dal fatto che il suo oggetto sia la borghesia affluente degli anni '70-80, la post-borghesia dei giorni nostri, che ancora si intestardisce a cercare di sfondare in settori saturi come il video e le news, o magari il proletariato borgataro ridicolizzato – ma anche a suo modo santificato per sempre – da Alberto Sordi.
Lo sguardo "esterno" utilizzato da Pacifico consente di accentuare il tono giudicante utilizzato per raccontare questo mondo. Volevano New York, volevano "Brooklyn, fermata Bedford, linea L, che porta Downtown Manhattan in pochi minuti subacquei: Williamsburg, o 'Willy', dici tu, dove puoi vivere fra giovani aggiornati e benestanti, e qualche povero arrivato in autobus dall'America rurale". E finalmente ci sono, si ostinano a girare film fino a quarant'anni, mantenuti dai genitori, alle spalle stage in Rai e corti che citano Pulp Fiction o Lost in Translation, qualche premio, qualche ripiegamento. Lo sguardo – principalmente quello di una donna che ha avuto a che fare un po' con tutti i protagonisti della storia, Nicola, Gustavo, Sergio… – è invero piuttosto spietato. Ed è anche attento ai dettagli, a raccontare una New York che i lettori de La VOCE si divertiranno a riconoscere, con i suoi taxi, i suoi ponti, i suoi caffè, i suoi salotti. Il tutto per oltre 300 pagine, che scorrono via senza pesantezze, perché con questo genere di romanzi ci si diverte.
Pacifico – romano, classe 1977, anche traduttore e collaboratore di diverse testate giornalistiche – certamente sa di che parla. Io un po' meno, nel senso che non conosco la borghesia romana e conosco invece diverse persone che cercano di farcela all'estero, perché in Italia proprio non c'è modo. Se fossero tutte come i protagonisti di questo romanzo, mi starebbero molto sul cazzo. Ma non sono così: piuttosto, si sottraggono al destino scritto per loro dai luoghi di nascita, cercano di realizzare altrove i loro sogni. Spesso sono semplicemente vittime della malattia che Flaubert ha saputo descrivere così bene due secoli fa, il bovarismo, quella fame di altro, quella spinta irresistibile (anche se a volte tragicamente puerile) ad elevarsi. E la mia tendenza è sempre stata quella ad essere piuttosto indulgente con madame Bovary. Perché, certo, lei è un po' tutti noi. Borghesi o non borghesi.
Francesco Pacifico, Class: Vite infelici di romani mantenuti a New York, Mondadori, 2014.