“Un’opera oltre ogni estetico controllo” questa l’efficace, elegante definizione targata Anthony Tamburri di Ellis Island, libro dell’italoamericano Robert Viscusi, presentato il 30 settembre all’Istituto Italiano di Cultura a New York. Tamburri, della CUNY, è un nome ormai sinonimo di esperienza nel campo dell’italianistica e degli studi sulla letteratura italoamericana, dunque presenza appropriata per presiedere al lancio di un libro dedicato al tema dell’immigrazione italiana in America.
Un poema epico, quello di Viscusi, che porta alla luce importanti tematiche rimaste sul fondo della diaspora. L’esposizione in sonetti, delicata e rigorosa nella metrica, permette di leggerlo a sprazzi, non necessariamente in sequenza. Giovanni De Santis, direttore ad interim dell’Istituto, confessa: “Non sono ancora riuscito a leggerlo tutto, proprio per questa sua particolare struttura, ma l’ho fatto in gran parte – afferma strappando una risata ai presenti – è come una giungla selvaggia, un post James Joyce, qualcosa che si avvale di uno stile impressionistico e che sicuramente mancava alla letteratura americana”.
Viscusi descrive la struttura della sua opera dicendo: “Un poema lungo può sembrare una contraddizione in termini, ma ogni sua singola riga, così l’ho pensato, può star bene da sola, è autosufficiente”.

Un’immagine di Ellis Island nel 1905
I temi sono quelli che ci si aspetta da un libro che narra il distacco dalla propria casa e insieme l’approdo in una terra promessa, con tutte le disillusioni e sorprese che può comportare. La differenza dal solito libro sta nel fatto che Viscusi è un autore dotato di estermo senso dell’umorismo, in grado di scrivere liricamente senza mai annoiare. Porta in sé un nucleo di esperienza autobiografica, per poi trascenderla, allargando lo sguardo sulla complessità del fenomeno, senza trattarlo in termini sociologici, ma con la freschezza ironica e insieme profonda della narrazione di una storia. “I miei genitori sono venuti in America agli inizi del '900, sono io stesso figlio di immigrati” dichiara Viscusi, facendo comprendere come mai parli un così buon italiano nonostante abbia vissuto in America durante la crescita.
L’autore descrive i cambiamenti che hanno accompagnato un secolo ricco come quello trascorso, scosso da grandi fratture, quali la Prima e la Seconda Guerra Mondiale: “Gli italiani hanno continuato a parlare la loro lingua in America per tre generazioni, fino alla Seconda Guerra Mondiale. Da quel momento in poi l’italiano è stato abbandonato perché considerato la lingua dei nemici” spiega all’uditorio. E dal suo libro legge un’espressione che fa apparire un sorriso sul volto di tutti: “Gli italiani hanno, così, perso il valore di una vita senza lavoro!”.
Al reading, anche Joseph Luzzi, del Bard Collage, che avverte: “Non lasciatevi spaventare dal fatto che sia un’opera lirica. Sa essere leggera e contemporaneamente parlare di quel mondo nascosto e misterioso che è l’italoamericanità”. Luzzi, anch’egli figlio di emigrati calabresi, ritrova nel libro la storia della sua provenienza e dei sentimenti malinconici che associava ai suoi genitori senza poterne prendere parte, ignaro di cosa significasse vivere tra due mondi. Una frase del libro recita “gli italiani credono in una versione holliwoodiana della loro vita in America”, ma la realtà è ben altra e quest’opera ne esplora i confini e le sfaccettature. Prende in giro Dante e si commuove sulla distruzione dell’Abbazia di Monte Cassino a opera degli americani durante la Seconda Guerra Mondiale, guarda al passato, ma dal punto di vista di chi vive nel presente. “Cosa ha guidato l’autore nella composizione della sua opera?”, vuole sapere il pubblico in sala. E Viscusi risponde: “La curiosità di non lasciare nessuna domanda senza risposta e nulla al caso, nella composizione di quest’opera”.