Nella mia vita di lettore ci sono pochi libri di guerra. Il nudo e il morto di Norman Mailer, (guerra nel Pacifico), con cui sorpresi la commissione d'esame alla Maturità. La carne paziente di Willi Heinrich (guerra vista dalla parte dei tedeschi), che lessi da bambino e da cui Peckinpah nel '77 trasse il film La croce di ferro. Uomini e no di Elio Vittorini (guerra partigiana, a Milano), che mi stupì per la modernità della scrittura. Addio alle armi di Hernest Hemingway (Prima guerra mondiale, disfatta italiana a Caporetto), di cui mi è rimasta però soprattutto la storia d'amore. Mattatoio 5 di Kurt Vonnegut (bombardamento di Dresda riletto in chiave "psichedelica"), il più spiazzante e decostruito.
Recentemente, un altro libro si è aggiunto a questa breve lista, Le rondini di Montecassino di Helena Janeczek, pubblicato in Italia da Guanda. Ora, io non credo alla teoria della differenza. Non credo nelle differenze di genere, non credo che uomini e donne siano, in natura, radicalmente diversi, sul piano psicologico, emozionale e del linguaggio. Tuttavia, ammetto che una parte di me si è (ingenuamente) stupita del fatto che una donna abbia potuto raccontare la guerra in una maniera così forte, epica, "virile". Per me questo libro è sullo stesso piano degli altri sopra citati (tutti scritti da uomini, la maggior parte dei quali la guerra l'ha fatta davvero) e a volte li supera.
È un libro che tutti dovrebbero leggere e che colpisce per diverse ragioni. Per l'enorme sforzo di documentazione che deve essere costato all'autrice, in primo luogo. Poi, per la capacità della Janeczek – che scrive anche su Nuovi argomenti e Nazione indiana – di trattare tutta questa materia, tutta la massa dei dati meteorologici, geografici, militari, antropologici, in modo tale da estrarne storie "vere", nemmeno un po' forzate, nemmeno un po' pretestuose. Infine, per l'affresco tracciato, che ha l'ambizione di disegnare i confini dell'intero melting pot mandato a morire a Montecassino in una delle battaglie più tragiche combattute sul suolo italiano nella Seconda guerra mondiale, fatto di americani del Texas e maori della Nuova Zelanda, di ebrei della Jewish Brigade e di monaci benedettini, di tedeschi e indiani, di polacchi scampati al nazismo e ai gulag staliniani e di gurka nepalesi, di marocchini e italiani.
Alla sua uscita – nel 2010 – il romanzo è stato ricondotto a quel filone battezzato da Wu Ming New Italian Epic. Questa non è una rubrica per specialisti, critici o docenti universitari interessati al mutevole universo delle classificazioni, quindi non ci penso proprio ad addentrarmi su quel terreno molle. A me pare che Le rondini di Montecassino meriti in primo luogo perché cattura il lettore, e poi – ma questa è già una considerazione più tecnica – per l'interessante incastro che propone fra dati di realtà, autobiografia (l'autrice, ebrea polacca, cresciuta a Monaco di Baviera e approdata in Italia a 19 anni, si rivela fin dalle prime pagine) e invenzione romanzesca. Un po' come avviene a volte in Kundera, per intenderci.
Il pezzo di storia che racconta è presto detto, si fa per dire: l'Abbazia di Montecassino fu teatro, tra il gennaio e il maggio del 1944, della più sanguinosa offensiva condotta lungo la linea Gustav, che i tedeschi avevano approntato per arginare l'avanzata degli Alleati verso Roma, e che aveva appunto nell'Abbazia benedettina il suo fulcro.
Quest'anno cadono i 70 anni dalla battaglia, che culminò, il 15 febbraio del 1944, nel bombardamento del luogo sacro, per ordine del generale americano Clark. Una decisione controversa, su cui ritornano proprio in questi giorni i media italiani, anche per analizzare il comportamento tenuto all'epoca dal Vaticano e da Papa Pacelli, insolitamente prudente nel pronunciare parole di condanna, che i tedeschi avrebbero certamente strumentalizzato. Sono state organizzate per l'occasione anche diverse cerimonie, fra cui, lo scorso marzo, la visita del presidente Giorgio Napolitano.
Montecassino fu senza dubbio uno spaventoso carnaio, con cifre a cui non siamo più abituati: in tutto morirono più di 135.000 persone, fra cui molti civili, che avevano cercato rifugio nel monastero e nelle grotte circostanti (oltre alle bombe, ad ucciderli fu un'epidemia di tifo, racconta la Janeczek). La stessa distruzione dell'Abbazia, uno dei grandi simboli della cristianità, non accelerò la sua presa da parte delle truppe di terra; fra le macerie i tedeschi continuarono infatti ad attestarsi fino a maggio.
Il romanzo restituisce quegli eventi come solo l'arte del romanzo riesce a fare. Mescolando passato e presente, memoria e emozione. Personalmente ho trovato insuperabile la storia del giovane maori che, ai giorni nostri, visita Montecassino per ritrovare i racconti del nonno, che lì aveva combattuto ed era stato preso prigioniero, per essere poi spedito in un campo di lavoro in Polonia. Combattere sui vari fronti della Seconda guerra mondiale è stato il "pegno" che tanti popoli sottomessi al giogo del colonialismo (inglese e francese soprattutto) hanno pagato, per cominciare ad essere trattati da esseri umani a pieno titolo. Non a caso, e con poche eccezioni, nei vent'anni successivi gran parte delle colonie è diventata indipendente (i maori, che non potevano aspirare ad una vera e propria patria, ne hanno tratto beneficio solo marginalmente).
Nel romanzo le diverse sfumature – anche generazionali – dell'appartenenza ad un popolo "indigeno", come si sarebbe detto di lì a poco, sull'onda del montante orgoglio terzomondista, vengono rese puntualmente, senza alcun cedimento oleografico. L'orgoglio del vecchio reduce, che nel fango e nel sangue del fronte italiano ha forgiato una nuova identità; il disprezzo del figlio, che considera quei reduci "collaborazionisti" del regime coloniale britannico; l'affetto sincero e disincantato ad un tempo del nipote: in queste pagine c'è anche molto del nostro presente multiculturale, con le sue identità sfaccettate, con i suoi spaesamenti. Con le memorie che non passano mai. Con la necessità di ricostruire o reinventare il passato, per conoscersi, a volte persino per salvarsi, come ci racconta Helena Janeczek quando la terza persona singolare cede il posto alla prima, quando ad entrare in scena è lei bambina, in una Monaco che nulla ricorda degli eventi della guerra e del nazismo, una bambina che, stranamente, quando si gioca a indiani e cowboy, prende sempre le parti dei primi…
Helena Janeczek, Le rondini di Montecassino, Guanda, 2010.
Il romanzo è stato tradotto e pubblicato in numerosi paesi, in lingua inglese con il titolo The swallows of Montecassino (la traduzione è di Frederika Randall).
Il sito dell'Abbazia di Montecassino in inglese: montecassinoabbey.org