In foto la scrittrice Anna Maria Ortese (1914-1998)
Sognante e coinvolgente, delicata nel narrare favolistico Anna Maria Ortese (1914-1998), anche quando rivisita, criticamente, autori e luoghi e mode e atmosfere che l’hanno preceduta.
Sono gli scritti di «Da Moby Dick all’Orsa Bianca» che l’Adelphi ha recentemente (ri)pubblicato continuando l’opera di riproposizione di tutti i libri che la scrittrice ha composto e portato al pubblico [con appendice e note di Monica Farnetti]. Troviamo qui titani del calibro di un Leopardi, di un Hemingway, di Saffo, di Thomas Mann, di Cechov, di Dostoevskij, della Morante e di tanti tanti altri che vengono a formare “un’autentica voce, un richiamo, un grido che turbi, una parola che rompa la nebbia in cui dormono le coscienze, il lampo di un giorno nuovo”.
Questa è la letteratura e tale è il compito che ad essa spetta secondo la Nostra. Compito nobile e approccio diverso senza dubbio da quello della critica paludata e accademica alla quale si è abituati; un linguaggio, il suo, davvero lontano distanze abissali, ed evocante oggetti e persone, romanzi e poesie.
Una magia, quella della sua parola, che “ti costringe” a leggere e a meditare diversamente versi o prose o saggi che scopri così come fosse davvero la prima volta; e un modo nuovo ne deriva di leggere pagine che avevi già letto o versi che ti avevano commosso. E’ il caso, ad esempio, di quell“A Silvia” evocata poeticamente in un viaggio, fisico ed ideale, alla tomba del Recanatese, quasi un pellegrinaggio.
Da Moby Dick all’Orsa Bianca»,di Anna Maria Ortese, pp. 187, Adelphi, Milano, 2011,Euro 13,00
Più che di pagine critiche vere e proprie (ma lo sono, e certamente molto di più) sono queste delle folgoranti meditazioni, passionali e coinvolgenti, sull’uomo, sulla storia, sulla cultura, sull’universo. Una profonda vena di malinconia le accomuna, e un senso dell’esistenza accorata e triste dove la realtà, o almeno quella che passa per tale, fa tutt’uno col sogno, e le cose e le persone partecipano e trasmettono un’atmosfera favolosa e irreale,
impalpabile, quasi una confessione delicata dell’animo, sincera e sofferta.
La narratrice Ortese fa tutt’uno qui con la Ortese critica; confermandosi comunque scrittrice di gran rilievo, poetica e familiare; e umanissima sempre, con quella sua paura del vivere, quella ritrosia, quel suo dire e non dire insieme, ove le creature tutte, quelle fantastiche e quelle reali, vivono un mondo che più vero e passionale di così è difficile a trovarsi.
«Ho sempre avuto paura di parlare – ha confessato una volta la Ortese – perché è difficile dire la verità. Nel senso che quando racconto un episodio, lo racconto così come lo ricordo e in quel momento sono convinta che il ricordo corrisponda alla realtà. Invece la realtà potrebbe essere un’altra…».
E’ per questo che i poeti e gli scrittori di cui lei parla ci appaiono nuovi e antichi insieme, e tutti da scoprire come non avevamo mai prima immaginato, perché la Ortese apre qui il suo cuore e la sua anima, e le parti del tutto vanno poi a fondersi in un “unicum” ove individui e cose si fanno sanguigni e veri, dividendo insieme, anche se in maniera e misura diverse, inquietudini e speranze del quotidiano.
Nessuno, l’uomo comune e l’artista, è tuttavia veramente solo su questa terra, anche se par faccia di tutto per esserlo, soprattutto per il male arrecato più o meno coscientemente agli altri. L’uomo e l’artista finiscono così col diventare “animale e pianta”, oltre che ragione e fantasia e stella e notte e vento.
Una Ortese sorprendente che, sinceramente, non conoscevamo prima, risolventesi in un misto di irrazionalità e di logica, una coscienza intrigante e bambina la sua, e una consapevolezza che le grandezze e le miserie degli umani appartengano poi davvero a tutti, di là da diversità culturali, tempi e geografie.