Un film complessivamente potente, mastodontico, emotivamente intenso e visivamente potente, estasi pura, visiva e sensoriale: è il tanto atteso Oppenheimer, dodicesimo lungometraggio del regista, sceneggiatore, produttore Christopher Nolan e ispirato dalla biografia Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica: il trionfo e la tragedia di uno scienziato, scritta nel 2006 da Kai Bird e Martin J. Sherwin e vincitrice del Premio Pulitzer.
Un film come solo Nolan sa fare. Un film audace, complesso.
Ad un’introduzione frenetica segue un corpo centrale più narrativo a cui fa seguito la parte finale rivelatrice: il tutto girato con quello che ormai è il “non-stile” di Nolan, cioè camera a mano, vorticosi movimenti di macchina e musica forte da togliere il respiro, cioè un’idea di cinema che cerca nel movimento continuo un suo equilibrio stilistico. Piaccia o no.
Per Christopher Nolan, J. Robert Oppenheimer è un moderno Prometeo che, offrendo all’umanità la bomba atomica, si incatena a una vita di sofferenza. Per raccontarne la storia il regista prende spunto da un processo in cui il fisico deve rispondere a gravi accuse: quella di tradimento a favore dei russi. Per la prima volta nel cinema di Nolan, la politica ha un posto pesante ma fondamentale.
Il regista inglese mette a fuoco la vita dello scienziato, fisico (l’irlandese Cillian Murphy, “feticcio” presente in ben sei film suoi), autore di importanti contributi nel campo della meccanica quantistica, soprattutto da quando gli fu dato l’incarico di supervisore del Progetto Manhattan, il programma militare statunitense top secret con cui un team nutritissimo di fisici – americani e scienziati profughi europei – ideò nel deserto di Los Alamos, nel New Mexico, il primo prototipo di bomba atomica, denominato Gadget. Il medesimo gruppo di studiosi passarono poi a costruire i primi due ordigni a uso bellico (Little Boy e Fat Man), rispettivamente sganciati su Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945.
Grazie ad una narrazione non lineare – in linea con i suoi lavori precedenti – il regista si cimenta nella parte finale, attraverso situazioni, dialoghi e scheletri personali, in una specie di thriller umano/politico capace di immergere ancor più lo spettatore nell’avvincente storia – per molti versi paradossale – di un uomo enigmatico che deve rischiare di distruggere il mondo per poterlo salvare. Dando spazio anche all’intimismo dei personaggi coinvolti in quel difficile momento storico/scientifico, il film, pieno di paradossi e dilemmi vari, non vuole giudicare Oppenheimer ma solo coinvolgerci nella sua vita, farci vedere il mondo attraverso i suoi occhi e spingerci a chiederci se, dopotutto, sappiamo davvero sempre perché facciamo certe cose. Noi, oggi, siamo consapevoli del futuro: Oppenheimer e i suoi non lo erano.
Oppenheimer è un film che attraverso una narrazione “schizoide” distrugge il genere biografico ma offre comunque una riuscita scelta stilistica: un montaggio alternato, con un film a colori per raccontare la storia del progetto Manhattan, un film in bianco e nero invece per mettere a nudo la schifezza di un processo che Lewis Strauss (un superbo Robert Downey Jr. – presidente della Commissione americana per l’energia atomica – cercò di mettere in piedi, con l’aiuto del capo dell’FBI, J. Edgar Hoover, per denigrare l’operato di Oppenheimer gettando su di lui l’accusa di essere legato ai comunisti: una vendetta per le opinioni e i dubbi espressi dallo scienziato sull’utilizzo dell’atomica da parte degli Stati Uniti! Dopo le due bombe sul Giappone, Oppenheimer ebbe una forte crisi di coscienza che lo indusse a rifiutare di lavorare alla bomba all’idrogeno.
Oppenheimer ha anche il pregio di presentarci un cast davvero stellare in tanti ruoli (molti hanno detto sì a Nolan, anche solo per piccole scene, perché consapevoli del suo valore): tra i tanti, c’è Florence Pugh nel ruolo di Jean Tatlock, psichiatra americana, giornalista comunista del Western Worker e compagna del giovane Oppenheimer, morta suicida nel 1944 a soli 29 anni; poi Rami Malek (il Feddy Mercury di Bohemian Rapsody vincitore dell’Oscar), veste i panni di uno scienziato; Emily Blunt è la moglie, Kitty Oppenheimer; Matt Damon interpreta il tenente Leslie Groves, direttore del Progetto Manhattan; il regista Benny Safdie verste i panni di Edward Teller, il fisico ungherese-americano conosciuto come il padre della bomba all’idrogeno e che fu anche un membro del Progetto Manhattan; Tom Conti è Albert Einstein. Un giudizio personale? Sarà una dura lotta per l’Oscar tra Cillian Murphy e Robert Downey Jr. (nel ruolo migliore della sua carriera), con una mia leggera preferenza per il secondo.
Parte che non poteva mancare nel film è quella che mette in luce l’incontro tra Oppenheimer e il presidente americano Harry Truman (Gary Oldman) avvenuto il 25 ottobre 1945, durante il quale emersero le loro divergenze di opinioni sulle armi nucleari. Oppenheimer disse di avere “sangue sulle mani” a seguito dei bombardamenti di Hiroshima e Nagasaki: un’affermazione che irritò non poco Truman, che era stato colui che aveva ordinato lo sgancio della bomba atomica sul Giappone.
Secondo il libro che ha ispirato il film, Truman rispose così ad Oppenheimer: “Sangue sulle sue mani; dannazione, non ha la metà di tanto sangue sulle mie mani. Semplicemente non vai in giro a lamentarti per questo”. Nel film, Truman definisce Oppenheimer uno “scienziato piagnucolone”.
Tutto bene? No, nessun film è perfetto.
Le donne sono usate in modo poco esaustivo: Emily Blunt esce solo una volta dal suo stressato ruolo di moglie e madre, anche se il film chiarisce bene che comunque senza di lei le insicurezze di Oppenheimer, psicologiche e scientifiche, si sarebbero ingigantite.
Nel film c’è anche la figura di Enrico Fermi, il fisico italiano, creatore del primo reattore nucleare (interpretato dal Danny Deferrari) ma la sua apparizione è marginalissima e non se ne capisce il perché: dopotutto è stato il creatore del primo reattore nucleare, il 2 dicembre 1942 e quindi Oppenheimer doveva conoscerlo!
La verbosità di alcune sezioni del film, soprattutto nel finale, lo appesantisce un po’.
Le tre ore finali sono leggermente appesantite dall’ultima parte che invece poteva essere più asciutta e farci così gustare meglio quanto architettato da Christopher Nolan per condurci fino alla fine: un dialogo tra Oppenheimer ed Einstein ma del quale non sapremo mai cosa si sono detti.
Nonostante questi piccoli “difetti” appena menzionati, Oppenheimer è un atto d’amore del regista – mai stato così polemico e schierato – al mondo: il suo è urlo di denuncia contro un’America colpevole di aver reinventato la morte, il suo grido di dissenso ad un mondo che quelle fiamme le ha alimentate al posto di spegnerle. Un monito di paura e risentimento ancora attualissimo. E da gustare dentro cinema dotati del sistema IMAX, visto che è stato girato in 70mm e senza effetti speciali al computer!