Vera Gemma, figlia del protagonista di tanti spaghetti western, Giuliano Gemma, porta il peso di un cognome Vip. Abituata a una vita all’ombra del celebre padre, è stanca delle sue relazioni superficiali e decide di rimettersi in contatto con alcune persone che conosce nell’alta società romana. E scopre quanto è difficile emergere dall’ombra di un padre famoso. Quando il suo autista (Walter Saabel) investe con la macchina il piccolo Manuel (Sebastian Dascalu), Vera entra in contatto con un mondo nuovo, di borgata, mentre aiuta sia il piccolo sia il padre Daniel (Daniel de Palma), che all’inizio è infuriato, poi accetta i soldi dell’assicurazione e l’offerta di Vera di passare del tempo con suo figlio.

Nel nuovo contesto di borgata i due mondi si scontrano: da una parte Daniel, che vive, con il figlio e la madre, in una casa senza corrente, trova solo lavoretti saltuari e da mesi non può pagare l’affitto; dall’altra Vera, con i suoi tacchi a spillo 12, cappello da cowboy, abiti firmati da alta società, e però in grande difficoltà interiore. Continua ad avere la sensazione di essere uno strumento al servizio degli altri, vittima della sua disponibilità ai bisogni degli altri, nonostante – come dice il suo nome – sia pura, a volte quasi ingenua, una portatrice di verità in un mondo di inganni e sotterfugi.
Vera, insomma, è una donna forte ma al tempo stesso fragile, soffocata dall’ombra del padre. C’è un lato oscuro, molto spesso sottovalutato, nell’essere figli di personaggi famosi.
E’ quanto fa capire il bel docu-film Vera – da oggi nelle sale italiane – dei registi austriaci Tizza Covi e Rainer Frimmel (già apprezzati autori di Non è ancora domani e La pivellina): un lavoro che sta a metà fra il documentario e la finzione, secco e neutrale, che sa essere però anche molto ironico, autentico e in grado di far sorridere il pubblico in alcuni momenti, e di commuovere in altri.
Per l’interpretazione di sé stessa, Vera Gemma si è aggiudicata il premio come Miglior Attrice della sezione Orizzonti all’ultima Mostra di Venezia.
“Ai suonatori un po’ sballati, ai balordi come me, a chi non sono mai piaciuta, a chi non ho incontrato, chissà mai perché”: il film si apre con Dedicato di Loredana Berté, un brano musicale che in qualche modo fornisce subito le linee guida della storia. Che è difficile, malinconica, ma non per questo meno bella.

Sono diversi i momenti forti del film che derivano dall’esplorazione del lato oscuro dell’essere figli di persone famose come i crudeli standard di bellezza implicitamente dettati dal fisico perfetto del padre che Vera e sua sorella Giuli non hanno mai potuto raggiungere. Quando Vera ed un’altra figlia famosa, Asia Argento, visitano il cimitero romano dove riposa August, il figlio di Johann Wolfgang Goethe: nessuno saprà mai chi fosse o “quali fossero i suoi sogni” – affermano – la tomba lo ricorda solo come “Goethe, il figlio”. Quando un regista snob, durante un’audizione, dice a Vera: “Sarebbe sorprendente se lei riuscisse a dedurre l’ispirazione cinematografica del mio ultimo lungometraggio” pensando che con quel viso rifatto, i capelli biondi ossigenati, gli eccentrici abiti firmati e il vistoso cappello da cowboy Vera non possa essere esperta di arte o di cinema. Quando poi Vera gli rivela a chi appartiene quel volto il regista si trasforma in un “ragazzino emozionato” e gli chiede un selfie per ricordare l’incontro speciale.
Vera vuole di più per sé stessa, essere una persona a sé stante, tuttavia, come il film mostra con acume, molto probabilmente il mondo non glielo permetterà mai. I due registi austriaci hanno così spiegato il successo dei loro docufilm: “All’inizio di qualsiasi idea per un film, c’è la curiosità verso la vita degli altri e il tentativo di capire in che cosa davvero consiste quella vita dietro la facciata. Durante le riprese, le persone vere rimangono vere e allo stesso tempo si trasformano in personaggi immaginari. E al termine delle riprese, persino noi non sappiamo più che cosa è vero e che cosa è stato inventato”.