Davanti alla chiesa di San Trovaso, dove Tintoretto ha dipinto un’Ultima Cena scombinata più che mai, cicchetti e spritz cominciano alle quattro del pomeriggio. Perché mangiando, bevendo e fumando, la mascherina si può togliere e vuoi mettere guardarsi in faccia, raccontarsi con la sorpresa dei sopravvissuti che i primi turisti russi e tedeschi sono tornati a popolare calli e campielli?
Venezia torna a vivere, i negozi riaprono, i gondolieri danno da dire a chiunque porti una reflex al collo, i vaporetti sono ancora pochi ma più carichi, davanti ai Giardini Reali stanno rifacendo quel tratto di riva chissà perché pavimentata a porfido. Per carità, siamo ancora molto lontani dal normale, anche se quel “normale” forse va ripensato (senza forse). Venezia riapre e riparte, la Biennale dell’Architettura inaugurata ieri ha avuto il sapore dell’acqua di fonte dopo il deserto pandemico.
“Get physical”, cantava giusto 40 anni fa Olivia Newton-John con la fascia sulla fronte e il body sgambato. E in ossequio al vecchio inprinting del cronista, che racconta solo ciò che ha visto, della Biennale scriverò tra qualche settimana, dopo averla visitata. Invece ho vissuto in lungo e largo il fuori-Biennale, la Venice Design Biennal, che ha coraggio e spinta, pochi soldi anzi niente ma tante idee di artisti e designer, più l’uno o l’altro non è chiaro ma poco importa. “I wanna get physical”. E va dato merito a Francesca Giubilei e Luca Berta, inventori e curatori della rassegna, che dura fino al 27 giugno, di aver voluto ripartire e di averlo fatto con un amore spassionato per Venezia, contaminando luoghi che con il design c’entrano come i cavoli a merenda. Ma che belle merende, signora mia!
Siamo entrati al museo archeologico nazionale, che si affaccia davanti al Palazzo Ducale dal 1596, dove 17 designer venezian-veneti hanno trovato posto con i loro lavori accanto a statue del I secolo d.C. Siamo andati all’Oratorio dei Crociferi, una chicca semi-sconosciuta dove dall’oscurità apparivano segni del contemporaneo e di una tradizione reinterpretata. Perché il Design per questo esperimento di riapertura della mente oltre che delle saracinesche è “Design as Self-Portrait” e tutto parte e ruota intorno all’esperienza personale, design d’autore, piccole produzioni, con al centro Venezia. “Perché l’iconografia di Venezia è oleografica, ovvero ogni singolo scorcio anche piccolo contiene in sé l’idea di Venezia, del tutto, essenza e identità del luogo”, spiega Luca Berta, che ama giocare con meme artistici alterando l’identità di Venezia senza mai perderla.
Il primo autoritratto lo consegna un divano sghembo di plastica imbottito di mascherine chirurgiche biancocelesti: sostenibili loro, sostenuto e anche comodo lui. Come fare tesoro di una brutta esperienza mettendola da parte. Siamo alla Giudecca, accanto al Molino Stucky e a Fortuny, zona industrial-popolare che ospita oggi SPUMA, un centro di arti visive, di atelier d’artista e di signore al sole a mangiare la pasta al ragù cucinata a casa, tutto bello e vero. Spuma perché una volta c’era la fabbrica della Spuma, bevanda difficile da spiegare ai giornalisti stranieri, “sparkling and coloured” ok, ma come trasferire quel sapore che ti fa tornare bambino? C’è lo stanzone che raccoglie installazioni e pezzi unici accanto a icone consacrate, tipo la sedia Vermelha dei Fratelli Campana per Edra. Un lampadario minimal di Moure Studio, vetri tondi di tenui colori come è tondo il tappeto di Michal Cole che riprogramma i colori di un autoritratto di Caravaggio e tondo è anche lo specchio di acciaio a ciambella di Oskar Zieta. Le sedie surreal-inquietanti di Anna Aagard Jensen sono perfette per farsi un selfie, i monoliti in vetro battuto di Eva Moosbrugger sono in realtà urne cinerarie ma nessuno se ne accorge.
Passiamo a SPARC, altra location dietro le Gallerie dell’Accademia, dove il Self-Portrait di Elisa Ossino è una stanza di forme pure bi-tri-dimensionali. Alla parete legni di 8000 anni fa, carbonio 14 alla mano, recuperati da fiumi balcanici, trattati sottilissimi, adagiati su sughero, applicati a muro. Tutto un percorso quasi intimista di trasmigrazione verso il contemporaneo che comprende colori ossidati per De Castelli in successioni tonde o rettangolari e una grande palla scavata di marmo di Carrara per Salvatori, dove la ricerca è nel rendere più sottile possibile il materiale che diventa lampada.
Dall’altra parte dell’appartamento, che è poi lo studio dei due coautori della Venice Design Biennal, colpisce il lavoro manuale certosin-maniacale di Tadeas Podracky, che è partito dal modello settecentesco di specchio veneziano e ha espanso il supporto di legno fino a fargli prendere il sopravvento, un merletto scolpito in multistrato marino, 950 ore di lavoro e la speranza di vendere le sue opere a 30mila euro.
La terza location, davvero emozionante, del Museo Nazionale Archeologico raccoglie testimonianze di un passato fatto di amore per l’arte e di rapina in nome della Serenissima, da parte di dogi e procuratori, patrizi e ambasciatori. Arte classica e design, teste di filosofi e lampade, sgabelli e paraventi (in senso proprio). Un evviva anche alla direzione del museo, che ha capito che serve mischiare, contaminare, offrire location non consuete ma splendide a pubblici curiosi e diversi. Gli specchi di Barbara Schweizer portano incisi i motivi di Palazzo Ducale. Lo sgabello di Zaven è dinamico come la statua lì accanto. Teste antiche sembrano guardare con curiosità ai lampadari aerei di Kanz Architetti.
Infine l’Oratorio dei Crociferi, dove emergono dal buio le storie di una confraternita d’impegno welfariano dipinte da Palma il Giovane e al centro una sedia della tradizione sarda che i Pretziada, coppia artistica (lui di origine sarda, lei californiana), hanno offerto insieme a Chiara Andreatti, che si è appassionata alla tradizione dell’intreccio di canna lacustre propria dell’artigianato del Sulcis. Come a dire, Self-Portrait con mille differenti facce.