Il museo Guggenheim di New York ha appena aperto la seconda parte della mostra “Implicit Tensions: Mapplethorpe Now” dedicata al fotografo americano Robert Mapplethorpe e ad altri sei fotografi influenzati dalla sua arte.
La prima parte della mostra, in visione dal 25 Gennaio al 10 Luglio, riguardava solo Mapplethorpe; questa seconda parte, che sarà aperta fino a gennaio 2020, celebra invece la donazione di quasi 200 lavori della Fondazione dell’artista deceduto.
I temi di Mapplethorpe di ‘gender’ ed ‘etnia’ si ritrovano anche in questa seconda esposizione curata da Lauren Hinkson e Susan Thompson, con Levi Prombaum ma la novità è l’introduzione di sei altri fotografi: Rotimi Fani-Kayode di origini nigeriane, Lyle Ashton Harris e Glenn Ligon entrambi newyorkesi e contemporanei, Zanele Muholi sudafricano, Catherine Opie dell’Ohio, and Paul Mpagi Sepuya californiano.
Ucciso dall’AIDS a 42 anni, Mapplethorpe era uno dei fotografi più apprezzati e allo stesso tempo più criticati della fine del secolo scorso: le sue foto trasgressive ed esplicite, più volte censurate, sono il simbolo delle guerre culturali degli anni ‘80 e ‘90.
“Se fossi nato cento o duecento anni fa, avrei fatto lo scultore, ma ho scoperto che la fotografia è il modo più veloce per vedere…e per fare una scultura” diceva Mapplethorpe.
L’approccio dell’artista al corpo rispecchia il suo interesse nelle forme statuarie delle statue greche e romane che celebrano le figure nude. Durante la sua breve vita il fotografo è stato spesso al centro di critiche e giudizi, amato e odiato insieme, qualche volta celebrato per aver dato visibilità alle comunità sottorappresentate e poi criticato per averne oggettificato i modelli.
Alcune delle fotografie della prima parte vengono ripresentate: le sue prime Polaroid, i nudi classici e iconici di uomini statuari, i fiori, e gli autoritratti. Tra le sue foto spicca “Grace Jones”, la foto fatta per cantante omonima e per l’album “Slave to the Rhythm”. Il progetto, deciso da Andy Warhol, aveva coinvolto anche il pittore e amico Keith Haring che aveva dipinto i suoi omini famosi proprio sul corpo della Jones e aveva creato per lei una corona stravagante con i suoi omini danzanti. Nella foto Jones guarda dritto in camera e si prepara a calciare con una gamba sollevata e le braccia distese.
Le celebrità vicine e contemporanee del fotografo sono tante, ma quella che gli farà da musa per più tempo è Patti Smith. Da l’incontro del 1967 le loro vite non si sono mai separate: sono stati prima amanti poi amici e hanno spesso lavorato insieme, si dicevano “anime gemelle” in un rapporto simbiotico di artista-musa dove i ruoli si capovolgevano spesso.
Se Patti Smith è tra i soggetti più fotografati, Mapplethorpe stesso non è da meno: i suoi autoritratti sono numerosissimi e si è fotografato incessantemente durante tutta la sua vita, dai primi scatti con la Polaroid che risalgono a quando viveva al Chelsea Hotel di New York fino agli autoritratti più formali creati poco prima che morisse.
I sei fotografi in questa mostra offrono diverse letture sul concetto di “identità” e su come viene indagato in un ritratto fotografico.
Rotimi Fani-Kayode, attivo negli anni ‘80, ha lasciato in eredità foto che esplorano la sua identità di omosessuale e immigrato, non completamente africano né inglese, (lui e la sua famiglia erano scappati dalla guerra civile nigeriana nel 1955).
I suoi ritratti incorporano il simbolismo e l’iconografia della cultura Yoruba tipica dell’Africa occidentale, le sue foto omaggiano le celebrazioni di spiritualità attraverso l’utilizzo di maschere e di ornamenti floreali.
I lavori di Lyle Ashton Harris offrono riflessioni a più strati su etnie, gender e sessualità. Nella selezione in mostra al Guggenheim, le sue immagini personali si fondono con simboli culturali in collage complessi. I volti sono sono truccati e qualche volta completamente dipinti.
La foto “In the world through which I travel” è un suo autoritratto di spalle, l’artista sta attraversando un paesaggio montuoso e arido.
La sua immagine e’ lontana, lo scatto viene dall’alto e ha dell’eroico. Sotto la foto Harris ha aggiunto le parole dell’artista e psicoanalista Frantz Fanon, “In the world through which I travel, I am endlessly creating myself” , “Creo me stesso continuamente nel mondo in cui viaggio”.
L’artista concettuale Glenn Ligon si appropria di testi e immagini per criticare il concetto di etnia. Negli anni appena successivi alla morte di Mapplethorpe, il progetto “Notes on the Margin of the Black Book” raccoglie note e messaggi che Mapplethorpe aveva ricevuto dopo la pubblicazione di “The Black Book”. Ligon sottolinea: “ Quelle foto di Mapplethorpe erano note a tutti ma i dibattiti che ne sono scaturiti non lo erano”.
Zanele Muholi si autodichiara un artista visuale interessato a far conoscere le comunità LGBTQ Sudafricane. Muholi mette in primo piano la diversità e la gioia di queste persone e allo stesso tempo ne rievoca la stigmatizzazione e la violenze subite. Nella serie “Faces and Phases”, le donne delle sue foto sono soggetti frontali ma i loro sguardi stoici mostrano vulnerabilità.
Anche nei lavori di Catherine Opie si esplorano le nozioni di identità sessuale e culturale.
Per creare la serie di foto “ Domestic series”, l’artista ha viaggiato negli Stati Uniti e visitato coppie e famiglie gay nelle loro case. Il risultato è una bellissima esplorazione anche dell’identità culturale americana.
Paul Mpagi Sepuya riforma le convenzioni ed il decoro delle immagini da studio con foto che parlano o del suo corpo o di quello di e amanti in una celebrazione della comunità gay. In mostra una selezione di foto dalla collezione “Darkroom Studio”.
Per maggiori informazioni e per biglietti: https://www.guggenheim.org/plan-your-visit